IMPIEGO PUBBLICO
Cons. Stato Sez. VI, 08-06-2010, n. 3632
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo

1. Il sign. @@@@@@@, assistente della Polizia di Stato, colpito da ordine di cattura emesso in data 13.6.1988 dalla Procura del Tribunale di Napoli, è stato sospeso cautelativamente dal servizio in data 14.6.1988 (ai sensi dell'art. 9, comma 1, del d.P.R. n. 737 del 1981). Decorso un quinquennio la sospensione è stata revocata in data 14.6.1993 (ai sensi dell'art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990).

Condannato in sede penale per concorso in concussione con sentenza definitiva della Corte di Cassazione emessa il 10 gennaio 2000, è stato quindi nuovamente sospeso dal servizio in via cautelare il 21 febbraio 2000 (ai sensi dell'art. 92 del d.P.R. n. 3 del 1957), in attesa della definizione del procedimento disciplinare.

Con decreto del Capo della Polizia del 25 maggio 2000, adottato a conclusione del procedimento disciplinare, è stato destituito dall'Amministrazione della Pubblica Sicurezza a decorrere dal 22 febbraio 2000, disponendosi anche che il periodo di sospensione dal servizio dal 14.6.1998 al 14.6.1993 "non è valido né ai fini giuridici né a quelli di quiescenza e previdenziali".

2. Il sign. -- ha quindi proposto ricorso al TAR per il Lazio, n. 17639 del 2000, per l'annullamento del suddetto decreto del Capo della Polizia del 25 maggio 2000; della deliberazione del Consiglio provinciale di disciplina del 4 maggio 2000; di ogni altro provvedimento preordinato, presupposto connesso e/o consequenziale, e per il riconoscimento del diritto alla reintegrazione in servizio per perenzione del procedimento disciplinare, con ogni conseguenza di ordine patrimoniale.

3. Il TAR, con sentenza n. 3632 del 2004, ha respinto il ricorso compensando tra le parti le spese del giudizio.

Con l'appello in epigrafe è chiesto l'annullamento della sentenza di primo grado.

4. All'udienza del 18 maggio 2010 la causa è stata trattenuta per la decisione.
Motivi della decisione

1. Nella sentenza di primo grado si afferma:

sono da respingere il primo ed il secondo motivo di ricorso, con cui si è dedotto il vizio di inosservanza dei termini di avvio e di conclusione del procedimento disciplinare.

Infatti: a) ai sensi dell'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, applicabile anche ai giudizi disciplinari del personale della Polizia di Stato, i previsti termini, di 180 giorni, per l'inizio del procedimento a decorrere dalla notizia della sentenza irrevocabile di condanna, e dei successivi 90, per la sua conclusione, sono tra loro cumulabili, decorrendo quindi il termine per la conclusione del procedimento non dal suo effettivo avvio ma dalla scadenza dei suddetti 180 giorni, per un periodo complessivo di 270 giorni dalla notizia della sentenza; b) tale termine è stato osservato nella specie, essendo stata emanata il 10 gennaio 2000 la sentenza della Corte di Cassazione che ha reso definitiva la condanna a carico del ricorrente, ed essendo iniziato il procedimento disciplinare il 3 marzo 2000 e concluso con il decreto di destituzione il 25 maggio 2000, e ciò anche se si ravvisi il termine iniziale (come sostenuto dal ricorrente) nel decreto di nuova sospensione cautelare
dall'impiego (21 febbraio 2000) e quello finale nella data di notifica della misura espulsiva (28 giugno 2000), restando anche in questo caso definita la procedura nel periodo di 270 giorni dalla data della sentenza definitiva di condanna; c) non hanno fondamento i dubbi sollevati sulla veridicità della firma sottostante al decreto di destituzione (secondo il ricorrente datato retroattivamente per mostrare il rispetto del termine di 90 giorni) -veridicità peraltro non contestata con azione giudiziaria in quanto sottoscrizione resa con firma e non con sigla come invece erroneamente ritenuto dal ricorrente, chiaramente riconducibile al Capo della Polizia dell'epoca, unico competente in materia, ed apposta su provvedimento formalmente intestato e protocollato;

è infondato anche il terzo motivo di ricorso, con si deducono l'insufficienza della motivazione e la carente valutazione dei presupposti di fatto, per la mancata considerazione, nel provvedimento impugnato, sia della riduzione della pena a carico del ricorrente per condono ed indulto, con la revoca di quella accessoria della interdizione dai pubblici uffici, sia dei meriti da lui dimostrati nel servizio dopo la revoca della sospensione. Non è illogico infatti, si afferma nella sentenza, che sia stata giudicata incompatibile con il decoro dell'attività di Polizia la permanenza in servizio di un dipendente responsabile del reato di concussione definitivamente accertato dal giudice penale, considerandosi recessivo, a fronte di ciò, ogni altro elemento;

è da respingere, infine, anche il quarto e ultimo motivo di ricorso, con il quale è dedotto che non è consentita la retrodatazione degli effetti della sanzione risolutoria per il periodo in regime di sospensione obbligatoria del rapporto di servizio (dal 14 giugno 1988 al 13 giugno 1993), essendovi stata riammissione in servizio ed essendo intervenuta la sentenza di condanna durante il servizio attivo. Nel caso di specie infatti, si osserva nella sentenza, il ricorrente era stato riammesso in servizio alla scadenza del quinquennio di sospensione poiché nel frattempo non si era concluso il procedimento penale, per cui legittimamente l'Amministrazione, da un lato, ha giudicato valida la prestazione di lavoro dopo la riammissione, disponendo la decorrenza della sostituzione dalla nuova sospensione cautelare, e, dall'altro, non ha considerato tale, ai fini giuridici, economici e previdenziali, il periodo quinquennale di sospensione dal servizio non essendovi stata prestazione
lavorativa.

2. Nell'appello si censura la sentenza di primo grado per i seguenti, quattro motivi:

a) quanto alla sottoscrizione del provvedimento impugnato non si è ritenuta dubitabile la firma del Capo della Polizia, come affermato nella sentenza, ma la sua effettività, poiché non apposta come autografa ma con timbro, con conseguente nullità del provvedimento stesso, che, inoltre, non risulta protocollato; si reitera perciò la richiesta di acquisizione del provvedimento in originale dal momento che in primo grado, in adempimento di ordinanza istruttoria, il fascicolo del procedimento è stato depositato dal Ministero soltanto in copia conforme;

b) il provvedimento è altresì illegittimo per la mancata osservanza del termine perentorio di conclusione del procedimento, poiché, da un lato, tale data viene a coincidere con quella di notifica del provvedimento, non risultando dal detto fascicolo la data di formazione e/o adozione del provvedimento ma essendone certa la sua inesistenza al 22 giugno 2000, come affermato in sede di diniego all'istanza di accesso agli atti, e, dall'altro, la data di inizio del procedimento si individua nel 22 febbraio 2000, giorno in cui, con il provvedimento di sospensione, è stato dato al ricorrente avviso dell'avvio del procedimento disciplinare (e da cui, non a caso, è fatto decorrere l'effetto retroattivo della destituzione) poiché, ai sensi degli articoli 9 e 19 del d.P.R. n. 737 del 1981, il procedimento si considera iniziato con la comunicazione al trasgressore di una qualsiasi delle previste attività procedimentali, non potendosi condividere l'interpretazione per cui i termini di
avvio e di conclusione del procedimento sarebbero cumulabili, in quanto contraria alla dizione testuale delle norme;

c) anche illegittima è la retrodatazione degli effetti sanzionatori dalla data di sospensione dal servizio, in quanto tali effetti devono decorrere dalla data della sentenza della Corte di Cassazione (10 gennaio 2000), essendo questa il presupposto della decisione di incompatibilità con lo status di pubblico impiegato, ed avendo inoltre affermato la giurisprudenza che la retroazione delle sanzioni dalla data di sospensione del servizio è possibile soltanto se non vi sia stata riammissione in servizio, come invece avvenuto nella specie;

d) ai fini dell'adozione dell'impugnato provvedimento, infine, si sarebbero dovuti considerare l'intervenuta riduzione della pena per effetto del condono e della concessione dell'indulto, con la conseguente sostituzione della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici da perpetua a temporanea, nonché i meriti del ricorrente nello svolgimento del servizio.

3. Le censure sono infondate.

Per ciascuno dei quattro motivi sopra esposti si osserva infatti:

3.1.) in adempimento di ordinanza istruttoria del giudice di primo grado l'Amministrazione il 28 marzo 2003 ha depositato in giudizio un fascicolo contenente gli atti del procedimento disciplinare, accompagnato da nota della Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell'interno - Direzione centrale del personale -Sezione ordinamento e contenzioso - Divisione II, di data 17 marzo 2003, prot. n. 333A(2)/32273D, firmata "per il Capo della Polizia", nel cui indice dei documenti allegati il testo del provvedimento di destituzione del ricorrente è indicato con il n. 20; il detto testo, numerato come allegato 20, è, come per i restanti, in "copia conforme" asseverata con timbro del Direttore della Divisione suddetta che ne indica il numero di pagine, reca il n. di protocollo 333D/32273, risulta su carta intestata al Capo della Polizia e da questi firmato, pur con stesura sintetica, su timbro identicamente intestato. Sulla base di tali elementi si deve concordare con il giudice
di primo grado sulla insussistenza di dubbi sulla imputabilità dell'atto al Capo della Polizia, soggetto competente all'adozione del provvedimento ai sensi dell'art. 7 del d.P.R. n. 737 del 1981 ("Sanzioni disciplinari per il personale dell'Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti"), salva un'iniziativa del ricorrente in sede giudiziaria per l'invalidazione dell'autenticità dell'atto, che non risulta proposta, non ritenendosi quindi necessaria l'acquisizione del testo dell'atto in originale;

3.2.) ai sensi dell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19. la sanzione della destituzione può essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare "che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni". Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, chiarito dall'Adunanza Plenaria di questo Consiglio (14 gennaio 2004, n.1), tale disposizione si interpreta nel senso che "i termini di 180 giorni più novanta giorni...sono destinati a cumularsi, indipendentemente dal momento in cui l'amministrazione abbia avviato l'azione disciplinare", per cui "il termine di 90 giorni stabilito dall'art. 9 comma 2 l. 7 febbraio 1990 n. 19 per la conclusione del procedimento disciplinare nei confronti del dipendente pubblico, inizia a decorrere non già dalla data dell'effettivo avvio del procedimento stesso, ma dalla scadenza dei 180
giorni, sempre previsti dall'art. 9 comma 2 cit., che costituiscono il periodo temporale massimo entro il quale - avuta conoscenza della sentenza penale di condanna - deve avere inizio (o proseguire) il procedimento, sicché il tempo che non può essere superato, a pena di violazione della perentorietà del termine, è quello totale di 270 giorni." (Cons. Stato, Sez. VI, 14 gennaio 2009, n. 140); nel caso in esame ciò comporta che, considerate le date del procedimento disciplinare di cui si tratta, pur assumendo come data della sua conclusione la più tardiva, cioè quella della notifica al ricorrente del provvedimento impugnato (28 giugno 2000), e quale data del suo inizio la più anticipata, quella della pronuncia della Corte di Cassazione (10 gennaio 2000), non risulta comunque superato il suddetto termine di 270 giorni;

3.3.) "Nel pubblico impiego la sospensione cautelare obbligatoria dal servizio è un atto dovuto da parte dell'amministrazione, in conseguenza di una misura cautelare restrittiva della libertà personale, che impedisce la prestazione dell'attività lavorativa e dunque interrompe il sinallagma" (Cons. Stato, Sez. VI, 3 luglio 2006, n. 4244); dagli articoli 88, 89 e, in particolare, 96 del d.P.R. n. 3 del 1957 emerge che l'obbligo di reintegrare la posizione del dipendente, a fini sia economici che giuridici, non sussiste quando sia stata inflitta sanzione disciplinare in conseguenza di procedimento penale conclusosi con sentenza di condanna (C.G.A.R.S, n. - del 2009), imponendosi in tale circostanza il principio per cui l'Amministrazione non è tenuta alle proprie prestazioni per il periodo di mancata prestazione lavorativa del dipendente quando sia stata accertata la sua responsabilità nell'interruzione del sinallagma; né potendo incidere al riguardo l'eventuale riammissione in
servizio non dovuta a proscioglimento;

3.4.) il ricorrente è stato riconosciuto colpevole di più episodi di concussione per i quali, con sentenza di appello confermata in Cassazione, è stato condannato definitivamente a tre anni e sei mesi di reclusione con la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni; si è quindi reso responsabile di gravi reati nell'esercizio della funzione pubblica affidatagli, in contrasto con i doveri e valori primari cui deve essere ispirata l'azione degli appartenenti al Corpo della Polizia di Stato, che è istituzionalmente preposto alla salvaguardia della sicurezza e dell'ordine pubblico ed alla repressione stessa delle attività "contra ius" (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 4 maggio 2009, n 2773), dovendosi perciò ritenere corretto che nel procedimento disciplinare non siano stati considerati rilevanti gli elementi richiamati nell'appello in esame e che, nella graduazione delle sanzioni, si sia ritenuto di adottare quella massima, sussistendo gli estremi di cui all'
art. 7, n. 2, 3 e 4 del citato D.P.R n. 737/1981.

4. Per quanto considerato l'appello è infondato e deve essere perciò respinto.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione sesta, respinge il ricorso in epigrafe.

Compensa tra le parti le spese del giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 maggio 2010 con l'intervento dei Signori:

Giovanni Ruoppolo, Presidente

Rosanna De Nictolis, Consigliere

Domenico Cafini, Consigliere

Maurizio Meschino, Consigliere, Estensore

Bruno Rosario Polito, Consigliere