REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N.763/2008

Reg.Dec.

N. 4408 Reg.Ric.

ANNO   2007

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello proposto da @@@@@@@ @@@@@@@ rappresentato e difeso dagli avv.ti -

contro

Ministero dell’interno in persona del Ministro pro-tempore rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato presso cui è ope legis domiciliato in Roma via dei Portoghesi 12

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania Sezione VI  n.1257 del 27 febbraio 2007;

     Visto il ricorso con i relativi allegati;

     Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata;

     Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

     Visti gli atti tutti della causa;

     Alla pubblica udienza del 4 dicembre 2007 relatore il Consigliere -

     Udito l’avv. -

     Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

     Con la sentenza in epigrafe il Tar della Campania ha respinto il ricorso proposto da @@@@@@@ @@@@@@@ avverso il decreto del Capo della Polizia, di destituzione da agente della Polizia di Stato, datato 26 ottobre 2006.

     Il Tar riteneva che non sussistesse l’eccessività della sanzione irrogata, pur essendo stato il ricorrente prosciolto in sede penale dall’accusa di reato associativo finalizzato allo spaccio di stupefacenti ed emergendo che egli fosse solo consumatore occasionale di sostanze stupefacenti. Il provvedimento impugnato aveva infatti compiutamente motivato l’adozione della destituzione col riferimento alla circostanza della reiterazione nell’assunzione di stupefacenti e dei conseguenti ripetuti contatti con esponenti della malavita, rispetto ai quali il ricorrente mostrava di avere, secondo le risultanze documentali (tra cui l’ordinanza della Sezione del riesame del Tribunale di Napoli), una certa consuetudine di rapporti, seppure al solo fine di procurarsi la sostanza stupefacente per uso personale. Tali elementi di fatto costituivano ragione del tutto sufficiente per sorreggere il provvedimento impugnato, non potendosi ammettere che un esponente delle forze dell’ordine sia aduso alla frequentazione, seppure episodica ma comunque reiterata, di ambienti criminali.

     Appella l’originario ricorrente deducendo i seguenti motivi:

     Violazione degli artt.6, quarto comma n.8, e 7, secondo comma, nn. 1 e 2, e 4 DPR 25.10.81, n.737, art.26 l.6.12.1971, n.1034, error in judicando.

     La destituzione non può conseguire di diritto a seguito di condanna penale, ma occorre un’approfondita e reale valutazione della personalità del dipendente e della sua idoneità a proseguire lo svolgimento del servizio. Sia in sentenza che negli atti impugnati sussiste l’omessa valutazione della mera occasionalità, era la prima ed unica volta che al ricorrente era stato contestato l’uso e comunque era stata la prima e unica volta che il medesimo non aveva fatto uso terapeutico di stupefacenti; era possibile una diversa interpretazione della condotta censurata e dei precedenti di servizio, non è stata chiarita l’incidenza della condotta censurata sul servizio, quali possibili e non accertate circostanze attenuanti.

     A fronte di un’archiviazione penale, perchè gli elementi acquisiti non erano idonei a sostenere l’accusa, le risultanze documentali cui fa riferimento anche il Tar, non sono probatorie in quanto fondate su accuse successivamente ritrattate. Non risulta affatto accertata la pretesa frequentazione ed il preteso legame con determinati ambienti, e l’unico fatto da valutare era l’acquisto sporadico di sostanze stupefacenti.

     Nessuno dei punti 1, 2, e 4 dell’art.7 del DPR 737\81, quali richiamati nella contestazione degli addebiti, nella proposta del consiglio di disciplina e nel decreto di destituzione, è riferibile all’ipotesi di aver acquistato reiteratamente sostanze stupefacenti per uso personale non terapeutico, ipotesi per cui l’art.6, comma 4, n.8), dello stesso DPR, prevede espressamente la sanzione della sospensione dall’impiego per un periodo da uno a sei mesi. In tale ipotesi può comminarsi la destituzione solo se c’è una vera e propria recidiva, come previsto dall’art.7, comma 2, punto 6). Invece al ricorrente è la prima volta che viene contestato l’uso non terapeutico di sostanze stupefacenti.

     La previsione di una sanzione non espulsiva in assenza di recidiva e di uno stato più grave e debilitativi, si colloca in un disegno normativo favorevole al perdono ed alla rieducazione dei soggetti coinvolti in vicende di droga. L’episodicità dell’assunzione di sostanze stupefacenti, non può essere di per sé, in assenza di ulteriori significativi elementi di valutazione, idonea a comprovare l’uso costante, indicativa di carenza di principi morali e di coerenza di idee e di comportamenti. Il vizio degradante che impedisce la permanenza in servizio deve attenere allo stato di salute del soggetto o tradursi in un stato patologico del fisico o della psiche, cui non è riconducibile un episodio isolato di assunzione.  Perciò, o l’episodio non è stato ritenuto sanzionabile dall’amministrazione, in assenza di riflessi sul servizio e sullo stato psicofisico del ricorrente, che nello stesso periodo prestava regolarmente servizio senza demerito, o è stato illegittimamente considerato, non essendo stato né contestato l’art.7, comma 2, punto 6), né comunque applicato, né verificata l’ipotesi della recidiva che sola poteva condurre all’applicazione di tale ultima norma, con destituzione per uso non terapeutico di stupefacenti recidivo.

     Errano il Tar ed il provvedimento impugnato nel fondarsi su elementi degli atti processuali del giudizio penale. L’ordinanza di riesame del Tribunale di Napoli è basata su risultanze inficiate dalla successiva ritrattazione delle accuse che ha condotto al decreto di archiviazione. Non è perciò risultata alcuna abituale o reiterata frequentazione di determinate persone (peraltro prosciolte e non ancora condannate), restando solo un uso sporadico di sostanze stupefacenti per circoscritto periodo di tempo.

     Correttamente limitata la pretesa frequentazione a mero sporadico uso di stupefacenti, si imponeva  un compiuto accertamento dei fatti, onde l’Amministrazione non ha valutato la gravità dell’infrazione commessa al fine di individuare, secondo criteri di proporzionalità, la giusta sanzione.

     Il provvedimento, a fronte dell’archiviazione e della mancanza di prove sull’impianto accusatorio penale, doveva avere una motivazione particolarmente rigorosa e puntuale, valutando autonomamente i fatti rimasti, ove esistenti. Invece il provvedimento pretende di scorgere nella premessa del mero uso di stupefacenti non terapeutico circostanze di maggiore gravità rispetto alla fattispecie prevista dall’art.6, comma 4, n.8), solamente per aver acquistato stupefacente attraverso canali illeciti. Ma tale elemento non può costituire aggravante tale da rendere inapplicabile la predetta norma, in quanto già considerato e valutato nella previsione di tale sanzione: l’assunzione di stupefacenti implica inevitabilmente la cessione da parte di terzi.

     Né l’Amministrazione ha tenuto conto delle ragioni giustificative del ricorrente, che versava in un grave stato di depressione, né ha tenuto conto delle benemerenze acquisite e dei meriti nell’ambito del servizio complessivamente svolto dal ricorrente, per formulare un giudizio anche di carattere soggettivo circa la ricorrenza della sanzione destitutoria.

     Si è costituito il Ministero dell’interno sostenendo con memoria l’infondatezza dell’appello. 
 

DIRITTO

     1. L’appello è infondato e va respinto.

     Anzitutto, non è esatto che il provvedimento impugnato e la sentenza del Tar non avrebbero valutato la “mera occasionalità” dell’assunzione di stupefacenti da parte del ricorrente, considerata, dal ricorrente ed attuale appellante, come centrale fatto qualificante, in senso riduttivo, le condotte contestate.

     Per quanto riguarda la sentenza di primo grado, è improprio censurare l’omessa valutazione dei fatti acquisiti al procedimento, perché non spetta al giudice amministrativo la diretta valutazione, in chiave sanzionatoria, dei fatti attribuiti al dipendente sottoposto a procedimento disciplinare, ma soltanto la verifica della legittimità e congruità logica degli atti procedimentali.

     In tal senso, il Tar ha correttamente evidenziato, come gli incombeva, la “compiutezza” della motivazione dell’impugnato provvedimento, facendo riferimento alle risultanze documentali in atti, globalmente intese (e citandone a titolo esemplificativo una).

     2. Va poi osservato che tutte le censure riproposte in appello muovono da due assunti del tutto infondati, perché smentiti dal contenuto degli atti del procedimento disciplinare, nonché degli atti di provenienza processuale posti a loro fondamento, il cui contenuto non coincide con quello indicato dall’appellante.

     In primo luogo, non è vero che l’unica contestazione in sede disciplinare, nel caso, riguardasse il consumo di stupefacenti per uso non terapeutico e che, appunto, non sia stata valutata la presunta “mera occasionalità” dello stesso.

     In secondo luogo, non è vero che in base al decreto di archiviazione residuasse, come fatto acquisito in sede penale, il solo acquisto e consumo di sostanze stupefacenti.

     2.1. Basti, quanto al primo punto, vedere l’atto di contestazione di addebiti del 16 maggio 2006, che fa dettagliatamente e letteralmente riferimento alle risultanze, proprio, del decreto di archiviazione penale del 1 marzo 2006, per il quale atto, posto a base delle pedisseque contestazioni,  a carico del ricorrente erano risultati “stretti contatti…con pregiudicati, esponenti notori della criminalità locale…coinvolti nel presente procedimento, in quanto…effettuavano presso di loro acquisti di droga che, nel dubbio, vanno ritenuti per uso personale. Vi erano anche altri rapporti di natura non ben identificata…(tra il ricorrente e tali pregiudicati ed esponenti della malavita locale)…Non può essere formulato un giudizio di sufficienza del quadro indiziario (nei confronti, tra l’altro, del ricorrente)…ma solo una valutazione negativa in ordine al loro stato di tossicodipendenza, alla frequentazione di soggetti normalmente inseriti nell’ambiente criminale…(come essi, tra cui il ricorrente, sapevano per il ruolo svolto) e ai non meglio precisati favori effettuati a loro favore”.

     Orbene tali circostanze, risultanti dall’istruttoria in sede penale, eccedono di gran lunga il fatto del mero uso occasionale di stupefacenti, come si ostina, con una strumentale visione riduttiva, ad affermare l’appellante, e, quello che conta, è che il loro più ampio quadro indicativo, in termini di comportamento rilevante dal punto di vista disciplinare, ha trovato tempestiva, esauriente e costante considerazione procedimentale, sia in termini di contestazione di addebiti, che di puntuale valutazione dei fatti prima in sede istruttoria e, poi, deliberativa collegiale.

     Basti al riguardo citare il passaggio della delibera finale del Consiglio provinciale di disciplina del 21 settembre 2006, che confuta l’argomentazione difensiva avanzata in quella sede dall’attuale appellante, che lamentava, come pure ripropone in questa sede, che la destituzione fosse eccessiva rispetto ai fatti contestati, che avrebbero meritato la sanzione della sospensione dal servizio, rientrando l’uso di sostanze stupefacenti nella previsione dell’art.6, n.8), del DPR 25 ottobre 1981, n.737.

     In tale occasione il Consiglio ha precisato: “…oggetto di contestazione è l’intera condotta del @@@@@@@, che si è caratterizzata per una molteplicità di comportamenti oggettivamente disdicevoli che ricomprendono non solo l’uso di sostanze stupefacenti, ma si sono tradotti anche in un legame con soggetti appartenenti ad una consorteria criminale”.

     Tale passaggio motivazionale rende conto dell’infondatezza di gran parte delle censure appellatorie, in specie di quella con cui ci si riaggancia alla previsione speciale del citato art.6, comma 2, n.8), del DPR 737\81, per predicare la mera irrogabilità della sospensione dal servizio nel caso in esame.

     Al riguardo non può non sottolinearsi come le censure così svolte non tengano conto degli elementi di fatto sovraesposti e del loro puntuale e adeguato riflettersi negli atti disciplinari, al punto che le censure stesse possono qualificarsi come inammissibili, perché finiscono per censurare statuizioni ed aspetti giustificativi del provvedimento impugnato, e della presupposta delibera del Consiglio di disciplina, che non risultano in essi contenuti, mentre non si appuntano sulle motivazioni e statuizioni effettivamente assunte, onde non risultano, in radice, idonee a determinarne la caducazione.

     La stessa delibera del Consiglio di disciplina sopra citata, poi, smentisce la linea difensiva adottata già in sede disciplinare dal ricorrente, incentrandosi e ponendo l’accento sulla “sussistenza di un legame (con gli ambienti malavitosi) che va ben al di là di una mera compravendita d’auto”, sicchè, fin dalla fase procedimentale, il ricorrente era ben conscio di ciò che, nel presente giudizio tende a negare: cioè l’estendersi della contestazione al fatto dei suddetti legami, emergenti dagli atti processuali penali, l’inserirsi del consumo di stupefacenti come elemento in un quadro di comportamenti più articolato e, comunque, complessivamente indicativo:

      1) di “mancanza del senso dell’onore e del senso morale” (art.7, comma 2, n.1) DPR 737\81), che devono contraddistinguere un appartenente alle forze dell’ordine;

     2) della commissione di “atti in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento” (art.7, comma 2, n.2);

     3) di “dolosa violazione dei doveri che abbiano arrecato un grave pregiudizio allo Stato” (art.7, comma 2, n.4), impegnato a contrastare, proprio con le forze di Polizia cui apparteneva il ricorrente, il traffico organizzato di stupefacenti; (su tali tre punti, si veda la puntuale ed accurata motivazione di cui all’ultimo capoverso di pagina 2 della citata delibera del Consiglio di disciplina).

     Sono quindi risultati pienamente riscontrati gli elementi integranti le fattispecie disciplinari contestate, in base alla compiuta valutazione degli elementi di fatto risultanti dal procedimento penale, cioè dal decreto di archiviazione, senza che oltretutto tali risultanze, nella loro sussistenza, fossero inficiate da alcuna influenza di presunte “ritrattazioni”, e procedendosi alla confutazione puntuale delle tesi difensive del ricorrente.

     Ne risulta, pertanto, di fronte alla corretta indicazione dei fatti contestati e della loro, esattamente ritenuta, rilevanza disciplinare, l’infondatezza di tutta la questione della esistenza di disposizione specifica quale il già citato art.6 del DPR 737\81 (e della connessa questione delle “recidiva”), fattispecie non aderente ai fatti in questione, per avere come suo elemento materiale costitutivo solo una parte dei fatti contestati. Altrettanto smentita è la generica deduzione di un omesso attento accertamento dei fatti e della loro gravità, anche sotto il profilo “soggettivo” delle circostanze esimenti e della lodevolezza del servizio comunque svolto dal ricorrente.

     Al riguardo, con rilievo assorbente rispetto a tali elementi, inclusa la meramente asserita presenza di un “grave stato di depressione”, il Consiglio di disciplina, aveva osservato che il ricorrente, avendolo dapprima negato, ha poi ammesso “di aver fatto uso di stupefacenti e che l’accertamento medico sarebbe stato necessario solo nel caso in cui lo stesso avesse voluto far accertare una mancata assunzione di sostanze stupefacenti da parte sua”, non risultando dunque, da un lato, in che modo il presunto e non comprovato stato di depressione avrebbe influito su comportamenti che non ne sono affatto indizio, nel loro significativo insieme, e, dall’altro, emergendo che nessun principio di prova al riguardo fu portato neppure in sede procedimentale, risultando oltretutto tale allegazione contraddittoria e poco verosimile, se rapportata alla insistita asserzione di aver svolto con senso di attaccamento il servizio durante il periodo in questione.

     Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va respinto.

     Alla soccombenza segue la condanna nelle spese liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

     Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge il ricorso in appello indicato in epigrafe, confermando per l’effetto la sentenza impugnata.                        

     Condanna l’appellante alla rifusione delle spese di giudizio liquidate in complessivi Euro 4000,00, di cui 3000,00 per diritti ed onorari, oltre oneri di legge.

     Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

     Così deciso in Roma, il 4.12.2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

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