REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N.5412/08

Reg. Dec.

N. 6738  Reg. Ric.

ANNO  2006

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 6738/2006 proposto da:

@@@@@@@ @@@@@@@ @@@@@@@, rappresentato e difeso dall’avvocato

-

Ministero dell’interno, in persona del Ministro p.t., non costituitosi in giudizio;

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, srdr di Roma, Sezione I ter, n.3806/2006 del 24.5.2006;

     Visto il ricorso con i relativi allegati;

     Vista la memoria prodotta dall’appellante a sostegno della propria difesa;

     Visti gli atti tutti della causa;

     Alla pubblica udienza del 10 giugno 2008, relatore il Consigliere -

     Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

     Con atto di appello notificato il 27.7.2006 il sig. @@@@@@@ @@@@@@@ @@@@@@@ – già assistente della Polizia di Stato, in forza presso la sezione della Polizia stradale di @@@@@@@ – Distaccamento di @@@@@@@ e destituito dal servizio con provvedimento notificato il 21.2.1994 – contesta la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sez. I ter, n. @@@@@@@/06 del 24.5.2006, che non risulta notificata, con la quale veniva respinto il ricorso, dal medesimo proposto avverso il provvedimento sopra citato.

     Nella citata sentenza si respingono, in primo luogo, tutte le argomentazioni riferite ai termini di scadenza – ritenuti perentori – del procedimento disciplinare, non risultando detti termini superati o avendo i medesimi natura meramente sollecitatoria, in base alla disciplina applicabile (legge n. 19/1990); infondate, inoltre, sono ritenute le censure di eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, per non proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto ai fatti addebitati, non ravvisandosi alcun travisamento e non potendosi rilevare manifesta illogicità di una valutazione discrezionale, che ha condotto all’applicazione della misura sanzionatoria più grave per una condotta, in effetti non compatibile con la delicatezza delle funzioni svolte dagli appartenenti alla Polizia di Stato (rapina aggravata, porto abusivo di arma in concorso e cessione a terzi della pistola di ordinanza); quanto sopra, con l’ulteriore aggravante di una negativa apprezzabilità dei precedenti di servizio, avendo riportato il soggetto di cui trattasi tre precedenti sanzioni disciplinari.

     A contestazione della ricordata misura sanzionatoria – e delle ragioni recepite in primo grado di giudizio – vengono prospettati i seguenti motivi di gravame:

     1) violazione di legge sotto il profilo della erronea applicazione ed interpretazione dell’art. 9, comma 6 del D.P.R. 25.10.1981, n. 737, essendo nel caso decorso il termine perentorio di 120 giorni, fra la pubblicazione della sentenza di condanna in sede penale e l’atto di contestazione degli addebiti in sede disciplinare;

     2) violazione di legge sotto il profilo dell’erronea interpretazione, applicazione e valutazione giuridico-amministrativa della valenza della sentenza di condanna penale, emanata ai sensi e per gli effetti dell’art. 599, comma 1 cod. proc. pen. (patteggiamento sulla pena allargato in grado di appello), in quanto tale tipologia di condanna sarebbe equipollente a quella emessa a seguito di patteggiamento in primo grado di giudizio, ex art. 444 cod.proc.pen.;

     3) violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione, essendo stato notificato l’atto di contestazione degli addebiti presso l’Ufficio Matricola della Casa Circondariale, dove l’attuale appellante si trovava in stato di detenzione: circostanza, questa, che non avrebbe consentito al medesimo di nominare un difensore di fiducia e di esercitare, in sede di procedimento disciplinare, i propri diritti in via di contraddittorio, “secondo le regole e i canoni del Giusto Processo”.

     L’Amministrazione intimata non si è costituita nel presente grado di giudizio.

DIRITTO

      La questione sottoposta all’esame del Collegio è quella della legittimità di un provvedimento di destituzione, emesso nei confronti di un appartenente alla Polizia di Stato condannato per tentata rapina, porto illegale di armi  e cessione illegale della propria pistola di ordinanza, in primo grado con rito abbreviato ed in appello con pena concordata, a norma dell’art. 599 cod.proc.pen.

     Per tale comportamento – assunto come indice rivelatore di “mancanza di senso del dovere e di senso morale, in contrasto con i doveri assunti col giuramento”, quale agente della Polizia di Stato – la Questura di @@@@@@@, con atto in data 28.1.2002, comminava all’agente in questione la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio.

     Avverso tale provvedimento l’interessato proponeva ricorso e, dopo il rigetto delle ragioni difensive prospettate in primo grado di giudizio, agiva nella presente sede di appello, insistendo sui motivi di gravame, precisati nella parte in fatto della presente decisione.

     Ad avviso del Collegio, nessuno di tali motivi appare fondato.

     Debbono essere esaminati congiuntamente, in primo luogo, i primi due ordini di censure, ovvero la prospettata violazione dell’art. 9, comma 6 del D.P.R. 25.10.1981, n. 737 (sanzioni disciplinari per il personale di pubblica sicurezza) e l’erronea valutazione della sentenza di condanna penale, emanata ai sensi dell’art. 599, comma 1 cod.proc.pen. (decisioni in Camera di Consiglio, quando l’appello abbia per oggetto la specie o la misura della pena).

     Secondo l’appellante, infatti, le sentenze emesse in grado di appello con pena concordata, ai sensi della norma di procedura sopra citata, dovrebbero essere equiparate alle sentenze emesse in sede di patteggiamento, a norma dell’art. 444 cod.proc.pen.: sentenze, queste ultime, per le quali la prevalente giurisprudenza esclude l’applicabilità della legge 7.2.1990, n. 19.

     Ove, d’altra parte, la tesi anzidetta venisse condivisa, in base all’art. 9, comma 6 del citato D.P.R. n. 737/81 per l’avvio del procedimento disciplinare risulterebbe prescritto un termine inferiore (120 giorni dalla data della pubblicazione della sentenza, o 40 giorni dalla data di notifica della stessa), rispetto a quello previsto dall’art. 9, comma 2 L. n. 19/90 (180 giorni dalla data in cui l’Amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna).

     Nel caso, incomprensibilmente, l’appellante vorrebbe far decorrere il termine in questione dalla sentenza di  primo grado, emessa dal Tribunale di  Busto Arsizio il 14.7.1992, anziché dalla sentenza della Corte di Appello di Milano, pubblicata mediante deposito in cancelleria il 19.3.1993, passata in giudicato per il signor @@@@@@@ il 6.5.1993 e comunicata all’Amministrazione in data 11.6.1993: sembra appena il caso di ricordare, infatti, che in presenza di un processo penale in corso, ovvero in pendenza dei termini di impugnazione, il procedimento disciplinare non poteva essere iniziato e, ove iniziato, doveva venire sospeso (cfr. in tal senso, per il principio, Cons. St., sez. VI, 17.7.2000, n. 3971).

     Per quanto riguarda l’asserita tardività dell’atto di contestazione degli addebiti, notificato all’interessato il 23.9.1993, comunque, l’avvio dell’azione disciplinare dovrebbe considerarsi tardivo, in caso di ritenuta applicabilità del ricordato art. 9, comma 6 del D.P.R. n. 737/81, che testualmente fa decorrere il termine di 120 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza.

     A tale riguardo, tuttavia, il Collegio ritiene che debba essere rilevata l’evoluzione in corso nella giurisprudenza, circa la rilevanza dei vizi procedurali, riconducibili ai tempi di attivazione, svolgimento e conclusione della procedura di cui trattasi; le norme basilari operanti in materia a livello legislativo, infatti, non comminano alcuna espressa decadenza per il superamento dei termini in questione, che tuttavia in rapporto al contesto delle espressioni usate e delle garanzie di difesa coinvolte sono stati – con giurisprudenza a lungo non univoca, ma poi autorevolmente indirizzata in tal senso – definiti perentori (cfr. Cons. Giust. Amm. Sic., 15.4.1981, n. 22; Cons. St., sez. VI, 17.10.1997, ord. N. 1498; Cons. St., sez. VI, 28.11.87, n. 933 e 4.4.98, n. 32; per la perentorietà, ma con possibilità di “deroga o attenuazione” cfr. anche TAR Lazio, Roma, sez. I, 27.3.95, n. 558, fino a Cons. St., Ad. Plen., 25.1.2000, n. 4 e 26.6.2000, n. 15, in cui la perentorietà viene desunta dal quesito – Ad. Plen., 3.9.97, ord. n. 17 – sottoposto alla Corte Costituzionale, circa la congruità del termine di 90 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, e dalla mera valutazione di non irragionevolezza di tale termine, nella sentenza della Suprema Corte n. 197 del 28.5.1999, in fattispecie diverse da quelle di cui all’art. 444 cod. proc. pen. sul cosiddetto patteggiamento).

     Le norme che rilevano in rapporto al predetto indirizzo, in ogni caso, non trovano univoca applicazione, tenuto conto proprio della differente interpretazione della natura dei termini riconducibili ai procedimenti disciplinari, conseguenti alle sentenze penali di condanna per cosiddetto “patteggiamento”, in quanto – non essendo tali sentenze frutto di quella compiutezza degli elementi di prova, che è tipica del rito ordinario –  si ammette che, in rapporto alle stesse, l’Amministrazione abbia “necessità di procedere ad autonomi accertamenti per la valutazione dei fatti”, con conseguente applicabilità della disciplina ordinaria e non di quella speciale, introdotta con la citata legge n. 19/2000  (cfr. Cons. St., Ad. Plen. 25.1.2000, nn. 5, 6, 7, 8 e 26.6.2000, n. 15; Cons. St., sez. IV, 12.12.2000, n. 6572 e 5.10.2005, n. 5362; Cons. St., sez. VI, 6.10.2005, n. 54210, 30.5.2003, n. 2976 e 3.5.2000, n. 2565; Cons. St., sez. V, 5.10.2005, n. 5362).

     Un ulteriore passo al riguardo, poi, è riconoscibile nel recente indirizzo interpretativo, secondo cui i diversi termini previsti, in materia di procedimento disciplinare conseguente a condanna penale – ed in particolare quelli per l’avvio del procedimento stesso (180 giorni) e per la successiva conclusione (90 giorni) – sono cumulabili, di modo che l’invalidità della sanzione per superamento del termine perentorio si riconosce solo quando siano trascorsi più di 270 giorni dalla conoscenza della sentenza di condanna (Cons. St., Ad. Plen., 14.1.2004, n. 1).

     Non appare senza rilievo, infine, il fatto che le sentenze emesse a seguito di patteggiamento non fossero equiparabili a sentenze di condanna, solo fino all’emanazione della legge 27.3.2001, n. 97 ed alle modifiche apportate all’art. 445 del codice di procedura penale, che nella versione attuale – viceversa –  recepisce testualmente detta equiparazione.

     Se, d’altra parte, le condanne conseguenti a patteggiamento vanno ricondotte – quanto meno nella logica della normativa, vigente all’epoca dei fatti di cui si discute – alla disciplina dettata in via generale, a causa delle più approfondite indagini da svolgere in ordine a fatti, che non fossero stati oggetto di puntuale accertamento e definizione in sede penale, tale logica rende evidente l’incongruità che deriverebbe della previsione di termini perentori più brevi, per l’avvio del procedimento disciplinare, anche in presenza di valutazioni più complesse da effettuare (non potendo una minore conoscenza dei fatti non incidere anche sulla determinazione ad avviare detto procedimento). La situazione sopra descritta si verificherebbe, in particolare, in caso di ritenuta perentorietà del termine di avvio del giudizio disciplinare, connesso a processi penali per il personale della Polizia di Stato (120 giorni dalla pubblicazione della sentenza o addirittura 40, in caso di notifica della sentenza stessa, ex art. 9, comma 6 D.P.R. n. 737/81 cit.), rispetto alla disciplina specifica del medesimo giudizio, ove conseguente a sentenze di condanna per tutto il personale dipendente di pubbliche amministrazioni (180 giorni dalla data in cui l’Amministrazione abbia avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna, ex art. 9, comma 2 della legge 7.2.1990, n. 19).

     Sembrano dunque maturi – in base alle considerazioni sopra esposte – i tempi per l’adozione di una linea interpretativa che, per quanto qui interessa, restituisca alla disciplina dettata con legge 7.2.1990, n. 19 portata estensiva per tutto il settore del pubblico impiego, quale normativa speciale per i procedimenti disciplinari da attivare a seguito di condanna, intervenuta in sede penale, in deroga alle normative di settore, come quella di cui al citato D.P.R. n. 737/1981, anche ove sia intervenuto patteggiamento (per tale orientamento interpretativo cfr. anche Cons. St., sez. IV, 7.10.1998, n. 1298 e Cons. St., sez. VI, 4.9.1998, n. 1217); in caso contrario, non potrebbe che escludersi il carattere perentorio del termine di cui all’art. 9, comma 9 del medesimo D.P.R., o si dovrebbero individuare – anche per le discipline generali dei vari comparti dell’ex pubblico impiego – termini cumulativi delle varie fasi procedurali, per l’emanazione dell’atto conclusivo di comminatoria della sanzione, in linea con quanto stabilito dalla giurisprudenza, per la procedura avviata ai sensi della più volte citata legge n. 19/90.

     Non consentono conclusioni diverse i i criteri di “buon andamento”, desumibili dall’art. 97 della Costituzione, suggerendo gli stessi che i provvedimenti disciplinari - cui è affidata anche la tutela del prestigio dell’Amministrazione, in rapporto a condotte devianti dei propri dipendenti - non vengano annullati solo per avvenuto superamento di un termine, comunque breve e, per sua natura, rimesso persino ad adempimenti di organi esecutivi, preposti alla trasmissione degli atti; le nuove aperture risarcitorie in materia di lesione di interessi legittimi, infine (Cass. SS.UU. n. 500/99 del 22.7.99) consentono in ogni caso al dipendente, che sia stato sottoposto ad un procedimento disciplinare dai tempi dilatati, rispetto a quelli legislativamente previsti, di ottenere un adeguato ristoro per il pregiudizio subito, sempre che, ovviamente, un pregiudizio sia dedotto e appaia logicamente configurabile, tenuto conto del fatto che – ove siano intervenute prima sentenza di condanna e poi destituzione del dipendente –  quest’ultimo in caso di prolungata istruttoria avrebbe solo protratto la propria permanenza in servizio, percependo la relativa retribuzione (una situazione, quella appena indicata, in cui una lesione è in realtà ipotizzabile solo in rapporto all’interesse pubblico, sotteso alla prevista radiazione dai ruoli di funzionari, non più in possesso dei requisiti richiesti sul piano delle qualità personali e dell’attitudine al servizio stesso: a tale lesione costituisce risposta ben singolare la stabilizzazione del rapporto di lavoro, per annullamento della misura sanzionatoria ritenuta tardiva).

     Nella situazione in esame, pertanto, il Collegio ritiene che il procedimento disciplinare in esame, globalmente considerato, si sia svolto nei tempi previsti dalla legge, anche riconoscendo che la sentenza, emessa in appello con la procedura di cui all’art. 599 cod.proc.pen. – in quanto preclusiva per scelta del soggetto interessato di un rinnovato accertamento dei fatti –  fosse equiparabile ad una sentenza patteggiata; quanto sopra non esclude, tuttavia, che il riferimento della Corte Costituzionale, nella già citata sentenza n. 197/1999, alle sentenze patteggiate ex art. 444 cod.proc.pen., come sentenze non soggette alla disciplina della legge n. 19/90, non si presterebbe in alcun caso ad interpretazioni estensive, tenuto conto dell’evoluzione giurisprudenziale, che conduce ormai tale pronuncia a conseguenze opposte da quelle volute (riducendo – e non ampliando – i tempi a disposizione dell’Amministrazione per l’apprezzamento della fattispecie e considerato che, nel caso di specie, esisteva già un accertamento dei fatti, operato in primo grado di giudizio e non contestato dall’imputato).

     Il primo motivo di gravame, pertanto, appare infondato, mentre il secondo può ritenersi assorbito, o risulta comunque infondato.

     Resta da esaminare il terzo ed ultimo motivo di gravame, riferito a violazione del principi costituzionali della difesa e del giusto processo (non risultando riproposta in appello la censura di non proporzionalità della sanzione, in effetti difficilmente sostenibile per la gravità della condotta contestata, peraltro riconducibile ad un soggetto, non privo di altri precedenti disciplinari).

     Anche quest’ultima censura non appare fondata, anche a prescindere dalla non applicabilità dell’art. 111 della Costituzione ai procedimenti disciplinari (aventi natura amministrativa e non giurisdizionale).

     L’appellante prospetta infatti che le prerogative della difesa, costituzionalmente garantite, siano state lese, a seguito dell’avvenuta contestazione degli addebiti mentre il medesimo si trovava in stato di reclusione: tale prospettazione appare in contrasto non solo con la rivendicata perentorietà del termine, entro cui la notifica di cui trattasi avrebbe dovuto essere effettuata, ma anche con il verificabile esito della notifica stessa: sotto il primo profilo, infatti, dovrebbe ritenersi che, in caso di detenzione (in linea di massima prevedibile) del dipendente condannato in sede penale, l’Amministrazione dovrebbe attenderne la scarcerazione per avviare il procedimento disciplinare, con pressoché certo decorso dei termini, di cui il medesimo appellante rivendica la perentorietà; per quanto riguarda, invece, il concreto esercizio del diritto difesa, il Collegio condivide le considerazioni espresse in primo grado di giudizio, circa il fatto che, per quanto risulta, l’interessato dopo la notifica in questione ha nominato un difensore ed è stato regolarmente rappresentato in giudizio.

     Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che il ricorso debba essere respinto; nessuna decisione è richiesta per le spese giudiziali, non essendosi costituita in giudizio l’Amministrazione appellata.

P.Q.M.

     Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge l’appello; nulla per le spese.

     Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

     Così deciso in Roma, il 10 giugno 2008, dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

Giuseppe Barbagallo  Presidente

Luciano Barra Caracciolo Consigliere

Aldo Scola   Consigliere

Roberto Chieppa  Consigliere

Gabriella De Michele  Consigliere est. 
 

Presidente

GIUSEPPE BARBAGALLO

Consigliere       p. Segretario

GABRIELLA DE MICHELE   MARIA RITA OLIVA 
 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA 
 

Il 29/10/2008

(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)

Il Direttore della Sezione

MARIA RITA OLIVA 
 
 

CONSIGLIO DI STATO

In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta) 
 

Addì...................................copia conforme alla presente è stata trasmessa  
 

al Ministero.............................................................................................. 
 

a norma dell'art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642 
 

                                    Il Direttore della Segreteria

 
 

N.R.G. 6738/2006


 

pds