IMPIEGO PUBBLICO
Cons. Stato Sez. VI, Sent., 09-03-2011, n. 1488
Fatto - Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. E' impugnata la sentenza del Tribunale amministrativo del Lazio n. 8424 del 9
settembre 2009, che ha accolto il ricorso n.1147 del 2008 del signor
####################, all'epoca dei fatti ispettore capo della Polizia di Stato,
avverso il decreto del Capo della Polizia del 29 ottobre 2007 recante la sua
destituzione dal servizio.
2. Deduce l'Amministrazione appellante la erroneità della impugnata sentenza,
nella parte in cui la stessa, ritenuta viziata da difetto di proporzionalità
rispetto ai fatti contestati la gravata determinazione di destituzione dal
servizio, ne ha disposto l'annullamento; in particolare, l'appellante deduce che
il giudice di primo grado si sarebbe inammissibilmente sostituito alla
Amministrazione nell'esercizio di un'attività (quella propedeutica alla
irrogazione della sanzione disciplinare) eminentemente discrezionale e, nello
specifico, non viziata dai profili di eccesso di potere dedotti dal ricorrente
in primo grado.
3. Si è costituito in giudizio l'appellato, per resistere al ricorso e per
chiederne la reiezione.
L'appellato ha altresì riproposto gli ulteriori motivi dichiarati assorbiti dal
giudice di primo grado, ed incentrati sulle illegittimità procedimentali in cui
sarebbe incorsa l'Amministrazione procedente (sotto il particolare profilo della
violazione del termine di conclusione del procedimento disciplinare previsto
dall'art. 120 del d.P.R. n. 3 del 1957), nonché sulla illegittimità
costituzionale dell'art. 20 del d.P.R. n. 737 del 1981, nella parte in cui lo
stesso consente all'incolpato di difendersi nel procedimento disciplinare
soltanto a mezzo di difensore scelto tra i dipendenti della medesima
amministrazione di appartenenza, e quindi senza possibilità di scegliere
difensori di diversa estrazione professionale.
4. Con l'ordinanza n. 410 del 26 gennaio 2010, questa Sezione ha accolto la
domanda incidentale formulata dal Ministero appellante ed ha sospeso
l'esecutività della gravata sentenza.
All'udienza del 1° febbraio 2011 il ricorso in appello è stato trattenuto per la
sentenza.
5. L'appello è infondato e va respinto.
5.1. Con l'unico articolato motivo di appello, l'Amministrazione censura la
impugnata sentenza sotto il profilo che la stessa avrebbe erroneamente ritenuto
viziata da sproporzionalità evidente la sanzione disciplinare della destituzione
dal servizio inflitta all'interessato, a mezzo dell'atto in primo grado
impugnato.
L'Amministrazione richiama il carattere spiccatamente discrezionale del
provvedimento irrogativo della sanzione disciplinare, come tale non censurabile
se esente da vizi logici, nonché la perfetta aderenza dei fatti ascritti
all'incolpato nella sede disciplinare rispetto a quelli emergenti dalle sentenze
adottate nei confronti dell'imputato nei distinti gradi del giudizio penale.
5.2. Il motivo - anche se ha indotto la Sezione ad accogliere l'istanza
incidentale formulata dall'Amministrazione appellante - ad un più approfondito
esame non appare meritevole di favorevole esame, poiché la sentenza gravata ha
correttamente constatato la violazione del principio di proporzionalità.
Va premesso che la responsabilità dell'appellato per il furto commesso il 24
ottobre 2001 non è mai stata accertata in sede penale.
Il provvedimento di destituzione impugnato in primo grado, emesso a seguito
della conforme valutazione della commissione di disciplina, che si è espressa
con la maggioranza di tre componenti su cinque, ha fatto seguito alle sentenze
emesse dal Tribunale di Grosseto in data 30 dicembre 2004 e dalla Corte
d'appello di Firenze in data 14 febbraio 2006, che hanno dichiarato il non
doversi procedere nei confronti dell'imputato per carenza di una condizione di
procedibilità (la querela della persona offesa dal reato).
Coerentemente con tale dispositivo, le due sentenze penali hanno esaminato le
risultanze processuali soltanto per escludere, ai sensi dell'art. 129, secondo
comma, del c.p.p., la ricorrenza di una ragione evidente per l'assoluzione
dell'imputato con formula pienamente liberatoria (e cioè che il fatto non
sussiste, che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato
o non è previsto dalla legge come reato).
Anche la Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso proposto
dell'odierno appellato avverso la sentenza della Corde d'appello, con
l'ordinanza del 3 luglio 2007 ha evidenziato il carattere eminentemente
processuale della impugnata pronuncia e dunque la carenza di un effetto lesivo
della stessa, in ragione del mancato accertamento nel merito della
responsabilità dell'imputato.
Ciò comporta, che, come è stato fondatamente dedotto col ricorso di primo grado
e come è stato correttamente rilevato dal Tar, l'istruttoria compiuta in sede
amministrativa in vista della adozione del provvedimento finale di irrogazione
della sanzione disciplinare non avrebbe potuto far leva unicamente sulle
"risultanze processuali penali" (ciò che è in concreto accaduto), stante il
profilo essenzialmente neutrale di tali pronunce con riguardo alla colpevolezza
dell'imputato per i fatti ascrittigli.
Al termine del procedimento disciplinare, l'Amministrazione avrebbe dovuto
piuttosto compiutamente ricostruire i fatti accaduti e, conseguentemente,
valutarli per accertare la loro incidenza sulla sua immagine e quale sanzione
risultasse meritevole di irrogazione.
5.3. Essendo mancata in sede penale e nel corso del procedimento disciplinare
una compiuta ricostruzione dei fatti accaduti il 24 ottobre 2001, e poiché
l'interessato con il ricorso di primo grado ed in questa sede ha contestato la
sussistenza della sua responsabilità penale, la Sezione ritiene di esaminare la
documentazione acquisita, per verificare se sia giustificata sotto il profilo
sostanziale l'affermazione posta a base del contestato provvedimento di
destituzione, sulla responsabilità dell'appellato quale concorrente nel delitto
di furto.
Osserva al riguardo la Sezione che da tale documentazione emergono alcuni
elementi di dubbio e di incertezza in ordine al ruolo attivo avuto
dall'appellato nella commissione del delitto di furto delle quattro zuccheriere
dal ristorante "I due cippi".
Va constatato infatti come il collega che accompagnava l'appellante, e che con
lui aveva cenato, da subito - una volta raggiunta la sua auto dal titolare del
ristorante e dopo il ritrovamento in tale auto di una zuccheriera - si è assunta
l'esclusiva responsabilità del furto, segnalando che egli da solo la aveva
sottratta recandosi in un'altra sala del locale.
A seguito delle urla della cameriera, era infatti accaduto che entrambi gli
appartenenti alla Polizia di Stato si sono allontanati dal ristorante con
l'auto, a fari spenti e dopo che l'assistente aveva scansato dallo sportello un
cameriere - per essere poi successivamente rintracciati in un altro locale
pubblico, nel cui parcheggio era stata parcheggiata l'auto ove è stata rinvenuta
la zuccheriera.
Tali circostanze inducono la Sezione a ritenere che l'appellato - nei confronti
del quale non emergono univoci elementi per ravvisarne la responsabilità penale
quale concorrente nel delitto di furto commesso dal collega - nell'immediatezza
dei fatti e subito dopo la loro commissione è comunque venuto a sapere di tale
furto: il comportamento dell'assistente che ha bruscamente allontanato il
cameriere e la successiva guida dell'auto a fari spenti avrebbero dovuto indurre
l'appellato ad avere un comportamento consono ai doveri del suo ufficio.
In altri termini, quale ispettore della Polizia di Stato, l'appellato - non
appena resosi consapevole del comportamento anomalo del collega - si sarebbe
dovuto attivare e impedire l'allontanamento dal ristorante con le sopra
descritte modalità, ovvero - se la velocità dell'auto ormai non consentiva tale
impedimento - non appena possibile avrebbe dovuto prendere contatti col titolare
del ristorante o con il cameriere che aveva cercato di impedire la partenza, per
chiarire cosa fosse avvenuto.
Pertanto, si può concludere nel senso che l'appellato, nei cui confronti non
sussistono elementi univoci per considerarlo concorrente del furto, ha preferito
non attenersi ai doveri del suo ufficio, per un malinteso senso di colleganza o
di amicizia col collega.
5.4. Ritiene dunque il Collegio che l'Amministrazione ha basato il provvedimento
espulsivo sulla base di una riscontrata commissione di un delitto di furto, che
in realtà non risulta commesso dall'appellato.
In realtà, l'Amministrazione avrebbe potuto prendere in considerazione la sua
censurabile condotta (commessa dopo che aveva acquisito la consapevolezza del
delitto commesso dal collega), di per sé non costituente reato e comunque non
oggetto di autonome contestazioni, neppure in sede penale, giacché egli era
stato accusato quale concorrente.
Quanto precede comporta che - sia pure sulla base di motivazione parzialmente
diversa - va confermata la gravata sentenza del TAR, che ha ravvisato la
violazione del principio di proporzionalità, applicabile anche in tema di
destituzione e di sanzioni espulsive dal pubblico impiego.
Infatti, risulta di per sé meno grave rispetto alla condotta di concorso nel
furto - e comunque può essere in tal senso qualificata ai fini disciplinari - la
condotta dell'appartenente alla Polizia di Stato che, accusato di concorso in
furto in assenza di elementi obiettivi, nega tale responsabilità senza attivarsi
per far emergere quella del collega che lo abbia effettivamente commesso.
5.5. Al riguardo, tenuto conto della normativa che in materia disciplinare
attribuisce rilievo alla oggettiva gravità dei fatti connessi ed alla recidiva,
la più recente e consolidata giurisprudenza di questo Consiglio (Sez. IV, 7
gennaio 2011, n. 25; Sez. IV, 16 ottobre 2009, n. 6353; Sez. IV, 21 agosto 2009,
n. 5001) ha ritenuto che sussiste il vizio di eccesso di potere quando il
provvedimento disciplinare appare ictu oculi sproporzionato, nella sua severità,
rispetto ai fatti accertati (pur se essi abbiano dato luogo ad una condanna in
sede penale, cosa peraltro neppure accaduta nella specie).
Infatti, per qualsiasi dipendente, un isolato comportamento illecito può
giustificare la misura disciplinare estintiva del rapporto di lavoro quando si
possa ragionevolmente riconoscere che i fatti commessi siano tanto gravi da
manifestare l'assenza delle doti morali, necessarie per la prosecuzione
dell'attività lavorativa.
Per il principio della graduazione delle sanzioni e tenuto conto delle regole
riguardanti la recidiva (per le quali i fatti acquistano una maggiore gravità,
in quanto commessi dal dipendente già incorso in una precedente sanzione),
l'Amministrazione non può peraltro considerare automaticamente giustificata
l'estinzione del rapporto di lavoro per il solo fatto che il dipendente abbia
commesso per la prima volta un reato doloso: a maggior ragione, la violazione
del principio di proporzionalità sussiste quando, come nella specie, non risulti
univocamente la responsabilità per il reato commesso da altri e vi sia stato un
disdicevole comportamento post delictum (Sez. IV, 7 gennaio 2011, n. 25, cit.).
In sede disciplinare, infatti, deve esservi la specifica valutazione dei fatti
accaduti, poiché la loro lievità può giustificare una sanzione diversa da quella
massima (salve le più severe valutazioni, in presenza dei relativi presupposti,
se il dipendente commetta ulteriori mancanze e addirittura reati): altrimenti
opinando, qualsiasi reato doloso o comportamento disdicevole potrebbe essere
posto a base della misura disciplinare del rapporto di lavoro, ciò che non si
può affermare, in considerazione della prassi amministrativa e del principio di
proporzionalità, affermatosi nella pacifica giurisprudenza.
La Sezione - rimeditata la questione anche in considerazione della particolare
delicatezza dei valori coinvolti - condivide e fa proprie le conclusioni cui è
giunta la richiamata giurisprudenza, poiché la proporzione fra addebito e
sanzione è un principio espressivo di civiltà giuridica, costantemente affermato
anche dalla Corte di Giustizia, quale principio generale comune agli ordinamenti
degli Stati membri.
6. In conclusione, l'appello va respinto, sicché - sua pure sulla base di una
motivazione parzialmente diversa - la sentenza gravata va confermata nel suo
dispositivo.
Peraltro, poiché il giudice amministrativo ben può individuare quali sono i
principi cui si deve attenere l'amministrazione (Sez. IV, 7 gennaio 2011, n. 25;
Sez. IV, 16 ottobre 2009, n. 6353), ritiene la Sezione che, nella specie,
trattandosi dell'annullamento di un provvedimento incidente su un interesse
legittimo, non si applicano gli art. 88 ss. del testo unico n. 3 del 1957 e i
principi sulla restitutio in integrum (rilevanti per legge solo nel caso di
completo proscioglimento dell'incolpato dall'addebito).
Tenuto conto delle circostanze del caso concreto, e poiché il mero annullamento
dell'atto impugnato non comporta di per sé la spettanza del risarcimento,
ritiene inoltre la Sezione che, a parte il potere di rinnovare il procedimento
disciplinare ai sensi dell'art. 119 del medesimo testo unico, non si giustifichi
alcuna conseguente pretesa dell'appellato, volta ad ottenere risarcimenti o
retribuzioni per il periodo di tempo in cui non ha prestato servizio, in
considerazione dei principi di carattere generale riguardanti il contributo
causale alla determinazione del danno e più in generale gli elementi costitutivi
dell'illecito.
La mancata prestazione dell'attività lavorativa è infatti risultata comunque la
conseguenza di una mancanza dell'appellato, di per sé giustificativa
dell'esercizio del potere disciplinare, anche se nella specie questo è stato
esercitato con un parziale travisamento dei fatti e in violazione del principio
di proporzionalità.
Al riguardo, ritiene il Collegio che il giudice amministrativo - nel valutare se
l'Amministrazione abbia rispettato il principio di proporzionalità in sede di
emanazione di un provvedimento di destituzione - debba unitariamente valutare
quali siano le conseguenze delle proprie statuizioni e possa anche seguire una
soluzione diversa e intermedia tra le due alternative tradizionalmente ritenute
giuridicamente possibili (reiezione del ricorso di primo grado, con perdita
irrimediabile del posto di lavoro; accoglimento del ricorso di primo grado, con
attribuzione degli emolumenti arretrati in ragione della portata retroattiva
della sentenza di annullamento).
Una soluzione intermedia - che tenga ragionevolmente conto delle posizioni in
conflitto - può anche consistere nell'accoglimento della domanda di annullamento
e nell'accertamento della non spettanza di emolumenti arretrati, quando il
dipendente abbia commesso una mancanza, la cui obiettiva gravità in sede
giurisdizionale sia tuttavia ritenuta non giustificativa del provvedimento
espulsivo, per le circostanze del caso e per il fatto - che può anche essere
considerato decisivo dal giudice - che si tratti della prima mancanza meritevole
di punizione disciplinare.
Rapportate tali considerazioni ai presupposti indefettibili per ravvisare
l'illecito amministrativo quando sia stato emanato un atto di destituzione in
violazione del principio di proporzionalità, la Sezione ritiene, da un lato, che
emerge la preponderante efficienza causale del comportamento dell'appellato
quale presupposto dell'attivazione del procedimento disciplinare e anche
dell'atto finale, e dall'altro che la rimproverabilità del medesimo
comportamento, sia pure non incompatibile col ripristino del rapporto di lavoro,
rende a lui giuridicamente imputabile il mancato svolgimento del servizio.
Pertanto, in sede di esecuzione della presente sentenza, l'appellato ha titolo
alla reimmissione in servizio (con la spettanza dei relativi emolumenti a
decorrere dalla data di sua comunicazione o di previa notificazione a istanza di
parte), ma oltre al ripristino del rapporto di lavoro non ha anche titolo alla
corresponsione di emolumenti arretrati..
7.- Quanto alle spese del secondo grado di giudizio, in ragione dei fatti
accertati sussistono giusti motivi per compensarle fra le parti
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente
pronunciando sull'appello n. 9919 del 2009, come in epigrafe proposto, lo
respinge e conferma la sentenza gravata nei sensi indicati in motivazione e
salvi gli ulteriori provvedimenti della Autorità amministrativa.
Spese compensate del secondo grado del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.