Corte cost., Sent., 15-12-2010, n. 355
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
SENTENZA
Nei giudizi di legittimità costituzionale dell'articolo 17, comma 30-ter,
periodi secondo, terzo e quarto, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78
(Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con
modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall'articolo
1, comma 1, lettera c), numero 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103
(Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito
con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, promossi dalla Corte dei
conti - sezione giurisdizionale per la Regione Umbria con ordinanza del 16
novembre 2009; dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la Regione
Calabria con ordinanza del 16 novembre 2009; dalla Corte dei conti - sezione
giurisdizionale per la Regione Campania con ordinanze del 14 e 27 ottobre 2009 e
del 9 dicembre 2009; dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la
Regione siciliana con ordinanza del 14 ottobre 2009; dalla Corte dei conti -
sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia con ordinanze del 12 novembre e
del 29 dicembre 2009; dalla Corte dei conti - sezione giurisdizionale per la
Regione Toscana con ordinanza del 10 dicembre 2009 e dalla Corte dei conti -
sezione prima giurisdizionale centrale d'appello con ordinanza del 17 marzo
2010, rispettivamente iscritte al n. 331 del registro ordinanze 2009 e ai numeri
24, 25, 26, 27, 44, 95, 125, 145 e 162 del registro ordinanze 2010 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 4, 7, 9, 14, 18, 21 e 23, prima
serie speciale, dell'anno 2010.
Visti gli atti di costituzione di D.T.M.L., di P.G., di B.G. ed altri, fuori
termine, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell'udienza pubblica del 16 novembre 2010 e nella camera di consiglio del
17 novembre 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;
uditi gli avvocati Luigi Manzi per D.T.M.L., Luigi Medugno per P.G. e l'avvocato
dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.- Con ordinanza del 16 novembre 2009 la Corte di conti, sezione
giurisdizionale per la Regione Umbria (reg. ord. n. 331 2009), ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell'articolo 17, comma 30-ter, periodi
secondo, terzo e quarto, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti
anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla
legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera
c), numero 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive
del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito con modificazioni dalla
legge 3 ottobre 2009, n. 141, per violazione, nel complesso, degli artt. 3, 24,
primo comma, 54, 81, quarto comma, 97, primo comma, 103, secondo comma, della
Costituzione, nonché del combinato disposto dei periodi secondo, terzo e quarto,
del suddetto art. 17, comma 30-ter, per violazione dell'art. 111 Cost.
1.1.- Il giudice a quo premette che la procura regionale ha convenuto il
presidente, taluni consiglieri di amministrazione e il direttore generale
dell'azienda speciale farmacie municipalizzate di Terni (AsFM) perché venissero
condannati al risarcimento del danno complessivo di euro 273.165,77, causato
alle finanze aziendali per avere, con condotta gravemente colposa, attivato il
centro salute «Hera», previsto nel pianoprogramma per gli anni 2000 e 2001,
prima della richiesta delle prescritte autorizzazioni. Inoltre, l'azienda, «per
la diffusione mediatica assunta dalla vicenda», avrebbe subito «un danno
d'immagine stimato in 40 mila euro».
Il giudice a quo deduce come la controversia abbia ad oggetto soltanto la
questione relativa al danno all'immagine, in quanto è stata disposta la
separazione di quella avente ad oggetto il danno patrimoniale.
1.2.- Il giudice stesso dubita della legittimità costituzionale del citato art.
17, comma 30-ter, il quale prevede che le procure della Corte dei conti
esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e
modi previsti dall'articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul
rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del
giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche).
A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione, di cui al comma 2
dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di
giurisdizione e controllo della Corte dei conti), è sospeso fino alla
conclusione del procedimento penale.
A tale proposito, il giudice remittente richiama l'orientamento della Corte di
cassazione e della stessa Corte dei conti, secondo cui il danno all'immagine e
al prestigio della pubblica amministrazione rientrerebbe nella categoria del
danno patrimoniale e sarebbe dovuto anche in assenza dell'accertamento di un
fatto di reato.
Si assume al riguardo che la questione sollevata sarebbe rilevante sia perché la
norma impugnata ha una valenza processuale, che la rende applicabile ai giudizi
in corso, sia perché per i fatti per i quali si procede non è stata proposta
azione penale.
Il giudice a quo sottolinea, inoltre, che «la formulazione ellittica della
disposizione in rassegna ha indotto il Collegio dapprima a ricercarne una
lettura "costituzionalmente orientata" e, all'esito, di vedersi pervaso da dubbi
di costituzionalità, quale che fosse la possibile soluzione individuata». In
particolare, si rileva come due sarebbero le possibili interpretazioni della
norma: una prima dovrebbe condurre a ritenere che il legislatore ha voluto
affermare il principio in base al quale il danno all'immagine ed al prestigio
della p.a. non possa ricevere tutela giurisdizionale, se non in presenza di
fattispecie costituenti anche reato accertato; la seconda, invece, porterebbe a
sostenere che la tutela sia piena ma ottenibile in sedi giurisdizionali
differenti e cioè innanzi alla Corte dei conti per le fattispecie costituenti
anche reato e innanzi ad altro giudice in tutti gli altri casi.
Accedendo alla prima interpretazione la norma impugnata sarebbe illegittima per
violazione:
a) dell'art. 3 Cost., in quanto introdurrebbe una irrazionale differenziazione
di tutela tra le fattispecie di danno all'immagine e le altre tipologie di danno
subito dalla p.a., aventi anch'esse rilievo patrimoniale;
b) dell'art. 24 Cost., in quanto la procura contabile potrebbe agire in giudizio
soltanto in presenza del preventivo esercizio dell'azione penale;
c) degli artt. 54 e 97 Cost., in quanto si impedirebbe alla p.a. di ottenere
piena tutela in tutte le ipotesi in cui soggetti ad essa collegati da un
rapporto di servizio «le abbiano causato il danno all'immagine».
Si osserva, inoltre, come siano state emanate altre disposizioni che si muovono
in senso opposto rispetto a quello tracciato dalla norma impugnata. Si richiama,
al riguardo, la legge 4 marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata
all'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e
trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative
delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e
alla Corte dei conti).
Accedendo alla seconda interpretazione, sarebbe violato l'art. 103, secondo
comma, Cost., il quale attribuisce alla Corte dei conti la «giurisdizione nelle
materie di contabilità pubblica».
Sempre nell'ambito della seconda interpretazione, si assume, altresì, il
contrasto della norma impugnata con il combinato disposto degli artt. 3 e 103
Cost. Ciò in quanto, dinnanzi al giudice contabile varrebbe la limitazione di
responsabilità soltanto in presenza di condotte poste in essere con dolo o colpa
grave, mentre tale limitazione non opererebbe innanzi al giudice ordinario.
Il Collegio remittente ritiene, infine, che sussistano altre ragioni di
contrasto della norma con la Costituzione «distinte ed autonome rispetto a
quelle sin qui esplicitate».
In particolare, si assume, in primo luogo, che sarebbe stato violato l'art. 81,
quarto comma, Cost., il quale prevede che «ogni altra legge che importi nuove e
maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Nel caso in esame la
norma censurata, limitando la responsabilità amministrativa, imporrebbe
all'amministrazione di sostenere con proprie risorse il danno subito senza,
però, indicare come fare fronte a tale «maggiore spesa».
In secondo luogo, il giudice a quo rileva che le disposizioni impugnate, insieme
al quarto periodo, si porrebbero in contrasto con l'art. 111 Cost. Ciò in quanto
la disposizione «è suscettibile di provocare una sorta di "doppio binario"
processuale, ad assetto variabile, in quanto - per gli stessi fatti - i limiti
posti all'azione della procura, sanzionati con la nullità, sono operanti
esclusivamente se chi vi ha interesse dia o meno corso al giudizio incidentale
per l'accertamento della nullità degli atti istruttori o processuali sui quali
si fonda l'addebito».
2.- Si sono costituiti in giudizio (oltre il termine previsto) G.A.N., P.G.,
G.B., G.G., R.R., chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile per
irrilevanza, in quanto il giudice remittente avrebbe dovuto verificare, in via
preliminare, se sussistessero i presupposti per la condanna al risarcimento del
danno all'immagine; presupposti che non sarebbero presenti essendo, tra l'altro,
il relativo diritto prescritto.
Nel merito si svolgono ampie argomentazioni volte a dimostrare la infondatezza
di tutte le censure formulate.
3.- Con ordinanza del 16 novembre 2009 (reg. ord. n. 24 del 2010), la Corte di
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, ha sollevato anch'essa
questione di legittimità costituzionale del citato art. 17, comma 30-ter,
periodi secondo e terzo.
Il giudice a quo premette, in punto di fatto, che, con provvedimento n. 482 del
6 dicembre 1999, la Regione Calabria delineava le linee guida per la
realizzazione delle campagne di screening per la diagnosi precoce e la
prevenzione dei tumori femminili.
Con nota n. 6261 del 20 febbraio 2001, il direttore generale dell'assessorato
alla sanità richiedeva al predetto assessorato di potere acquistare, con
l'impiego dei fondi regionali finalizzati, un particolare sistema mammografico.
Tale acquisto veniva autorizzato dall'assessorato con nota del 12 aprile 2001 n.
9086.
Secondo la procura contabile, il predetto acquisto «avrebbe di fatto impedito la
realizzazione dei programmi di screening poiché le somme destinate a tale
acquisto (pari ad euro 647.822,88) sarebbero state sottratte alla realizzazione
del progetto di prevenzione cui erano state originariamente destinate».
Da tali condotte sarebbe derivato, oltre un danno patrimoniale, anche un «danno
all'immagine». In relazione a tale ultima voce di danno si pone in evidenza come
la vicenda avrebbe avuto una forte risonanza sui mezzi di comunicazione.
3.1.- Esposto ciò, dopo avere rilevato che non sussiste la eccepita nullità
dell'atto di citazione per indeterminatezza della notizia di reato, la Corte
remittente ha, innanzitutto, sottolineato come le questioni siano rilevanti, in
quanto la norma censurata, precludendo l'azione in mancanza di un fatto di
reato, impedirebbe, nella specie, di pervenire ad una pronuncia nel merito.
Inoltre, tale disposizione presenterebbe natura processuale, con la conseguenza
che la stessa si applicherebbe nei giudizi in corso.
3.1.1.- Per quanto attiene al giudizio di non manifesta infondatezza, la Corte
premette che il danno all'immagine della pubblica amministrazione avrebbe una
valenza pubblicistica e, pertanto, si realizzerebbe non con la lesione del «buon
nome» o della «identità personale», ma con il pregiudizio al «prestigio»
dell'amministrazione stessa. Ne consegue che, qualora lo Stato, o gli altri enti
pubblici, a causa della condotta illecita di un proprio dipendente (o
amministratore) perdano di prestigio, si affievolirebbe nei cittadini «il
desiderio di partecipazione, il sentimento di appartenenza e di affidamento alle
istituzioni».
In questa prospettiva, la tutela dell'immagine dovrebbe essere considerata un
diritto che trova la sua matrice costituzionale nell'art. 2 Cost., la cui
lesione sarebbe, pertanto, risarcibile ex art. 2059 del codice civile, senza che
sia necessario il previo accertamento della sussistenza di una condotta
penalmente rilevante.
3.1.2.- Ciò premesso, si assume il contrasto della norma censurata con gli artt.
2 e 24 Cost. Infatti, tale norma, consentendo la risarcibilità soltanto in
presenza di una sentenza irrevocabile di condanna per la commissione di un
delitto contro la pubblica amministrazione, negherebbe la possibilità giuridica
alla procura contabile di agire in giudizio, «così svuotando di contenuto un
diritto riconosciuto alla pubblica amministrazione proprio in virtù dell'art. 2
della Costituzione».
Il giudice a quo sottolinea, inoltre, come non sarebbe neanche prospettabile una
interpretazione conforme a Costituzione, che riconosca "negli altri casi" la
sussistenza di una tutela giurisdizionale in altra sede.
Ne consegue che non si porrebbe una questione «di difetto di giurisdizione del
giudice contabile a favore di altro giudice ma di carenza di qualsivoglia
tutela», con conseguente violazione dell'art. 24 Cost.
3.1.3.- Sotto altro aspetto, si assume il contrasto della norma censurata con
l'art. 3 Cost. Infatti, la disposizione in esame creerebbe una irragionevole ed
illogica disparità di trattamento tra la tutela all'immagine assicurata alle
persone giuridiche private, per le quali non varrebbe alcun limite, e quella
garantita alle persone giuridiche pubbliche, per le quali varrebbero i limiti in
esame.
Secondo la Corte, se è pur vero che il legislatore, nell'esercizio della sua
discrezionalità, può stabilire quali siano i comportamenti idonei a fondare la
responsabilità amministrativa, è altrettanto vero che tali scelte devono essere
non irragionevoli. La scelta legislativa di limitare la responsabilità ai soli
casi di colpa grave e consentire la riduzione dell'addebito avrebbe una
motivazione adeguata nell'esigenza di evitare «rallentamenti ed inerzie nello
svolgimento dell'attività amministrativa». Ma nel caso in esame non sarebbe
rinvenibile alcuna giustificazione «ove si consideri la peculiare connotazione
dell'immagine pubblica».
3.1.4.- Il remittente ritiene che la disposizione censurata abbia un contenuto
irragionevole anche perché introdurrebbe una disciplina differenziata tra
condotte delittuose, in relazione alle quali si riconosce la tutela, e condotte
illecite non delittuose, in relazione alle quali non si riconosce la tutela,
ancorché possano comunque causare il danno all'immagine della pubblica
amministrazione.
3.1.5.- La violazione dell'art. 3 Cost. sussisterebbe anche perché il
legislatore ha inteso limitare la responsabilità soltanto in presenza dei reati
previsti dal capo I, titolo II, del libro secondo del codice penale,
«precludendo così il risarcimento del danno all'immagine in tutte le altre
ipotesi delittuose, tra le quali ve ne sono certamente più gravi». Inoltre, la
norma creerebbe una disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e
amministratori, in quanto, per questi ultimi, non opererebbero le limitazioni
previste dalla disposizione impugnata.
Entrambi questi profili non sarebbero, però, rilevanti, in quanto nel caso in
esame non è stata pronunciata alcuna sentenza di condanna.
3.1.6.- Sarebbe, inoltre, violato l'art. 97 Cost., atteso che, sebbene il buon
andamento e l'imparzialità «non costituiscono il fondamento costituzionale della
tutela dell'immagine pubblica», la «stretta relazione tra l'immagine pubblica e
l'agire corretto» e la circostanza che gli stessi costituiscono «criteri cui
deve essere improntata l'azione amministrativa affinché il prestigio pubblico
non venga leso», comportano che «una ridotta tutela della prima inevitabilmente
indebolisce il diritto sostanziale dell'amministrazione ad agire, attraverso i
propri funzionari, in modo corretto, imparziale, efficace ed efficiente».
3.1.7.- Viene ipotizzata, poi, la violazione degli artt. 25 e 103 Cost.
Si rileva, infatti, che la Corte dei conti, istituzionalmente, ha una
giurisdizione esclusiva nelle controversie che riguardano soggetti legati alla
pubblica amministrazione da un rapporto di servizio per il danno erariale
causato dalla loro condotta, fattispecie, quest'ultima, alla quale deve
ricondursi anche il danno all'immagine, che, come più volte chiarito dalle
Sezioni unite della Corte di cassazione, deve essere inteso come «la spesa
necessaria al ripristino del prestigio», costituendo così un danno a contenuto
patrimoniale in quanto suscettibile di valutazione economica.
Orbene, poiché nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito
per legge, non è possibile configurare l'esercizio dell'azione per il
risarcimento di tale danno innanzi ad altra autorità giudiziaria diversa dalla
Corte dei conti.
3.1.8.- Infine, il giudice a quo sottolinea come la norma, pur essendo inserita
nell'ambito di un decreto-legge volto a razionalizzare le risorse erariali per
il rilancio dell'economia, perseguirebbe «l'obiettivo contrario e cioè quello di
imporre alle amministrazioni pubbliche le spese effettivamente sostenute a
ristoro del detrimento del proprio prestigio».
3.2.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni
sollevate vengano dichiarate manifestamente inammissibili e infondate.
In primo luogo, si osserva come la limitazione di responsabilità in esame non
sarebbe viziata da manifesta illogicità. A dimostrazione di come il legislatore
possa introdurre limiti alla responsabilità contabile, si richiama l'art. 1
della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e
controllo della Corte dei conti) che, al comma 1, prevede che tale
responsabilità è configurabile in presenza, tra l'altro, di fatti ed omissioni
«commessi con dolo e colpa grave». Questa norma è stata ritenuta non in
contrasto con la Costituzione dalla sentenza n. 371 del 1998 di questa Corte.
L'Avvocatura sostiene che i principi enunciati dalla citata pronuncia varrebbero
anche nel caso in esame, in quanto verrebbe pur sempre in rilievo una norma che
pone limiti alla responsabilità contabile anche se «sotto il diverso profilo
oggettivo del danno per il cui ristoro si agisce» e non dei criteri di
imputazione della responsabilità.
La difesa dello Stato mette, poi, in rilievo che la norma censurata non esclude
in assoluto la risarcibilità del danno all'immagine «ma la limita a quelle
fattispecie ritenute di maggiore gravità alle quali si ricollega - con
l'esercizio dell'azione penale - anche l'evidente pregiudizio collegato allo
strepitus fori».
Del resto, si sottolinea, anche le Sezioni unite della Corte di cassazione, con
la sentenza n. 26972 del 2008, hanno posto limiti alla risarcibilità del danno
non patrimoniale, richiedendo che la legge debba riguardare un interesse avente
rilevanza costituzionale e che la lesione debba essere grave e il danno non
futile.
Per quanto attiene, poi, all'asserita violazione dell'art. 24 Cost., si
richiama, per dimostrare l'infondatezza della censura, l'orientamento della
giurisprudenza costituzionale, secondo il quale «la garanzia apprestata
dall'art. 24 della Costituzione opera attribuendo tutela processuale delle
situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui queste risultano
riconosciute dal legislatore», trovando dunque confini nel contenuto del diritto
sostanziale così come delineato dall'ordinamento (sentenza n. 327 del 1998).
Per quanto attiene alla censura fondata sugli artt. 25 e 103 Cost., se ne deduce
l'inammissibilità, «in quanto prospettata in via ipotetica ed eventuale alla
luce di una interpretazione della norma che si afferma non possibile». In ogni
caso, si aggiunge, «nessuno spostamento di giurisdizione o limitazione di poteri
giurisdizionali si verifica nel caso in esame, incidendo la disposizione solo
sull'ambito delle pronunce che possono essere rese nel merito dal giudice
contabile alla luce dei diritti sostanziali azionabili».
Non sarebbe, inoltre, fondata la censura con cui si deduce la violazione del
principio di uguaglianza, in quanto la diversità di trattamento giuridico
sarebbe giustificata dalla diversità delle posizioni dei soggetti coinvolti
dall'azione di responsabilità.
Per quanto attiene, poi, alla doglianza prospettata con riferimento alla
limitazione dei reati posta dall'art. 7 della legge n. 97 del 2001, si osserva,
in primo luogo, come, «ammesso che l'interpretazione delle norme suggerita dalla
Corte remittente sia effettivamente corretta, la stessa non esclude l'esperibilità
di altri rimedi in altra sede giurisdizionale diversa dalla Corte di conti, sì
da consentire un ristoro del danno all'immagine». In secondo luogo, si
sottolinea che si sarebbe, in ogni caso, in presenza di una «valutazione
discrezionale del legislatore, non irrazionale e quindi non censurabile, essendo
in linea di principio ragionevole volere limitare la risarcibilità di un tipo di
danno a quelle fattispecie che per l'amministrazione di appartenenza - e quindi
dall'opinione pubblica - possono essere percepite come più gravi in quanto
rivolte proprie contro l'ente nell'interesse del quale si sarebbe dovuto agire».
Infine, in relazione all'asserita violazione dell'art. 97 Cost., si osserva come
«la norma delimiti in maniera equilibrata le ipotesi di risarcibilità di cui si
tratta, proprio nel perseguimento di quei fini pubblici che - ha ritenuto il
legislatore - rischierebbero di essere obliterati da un troppo severo
ampliamento della sfera di responsabilità: essa si riverbererebbe, infatti,
inevitabilmente sulla rapidità ed efficacia dell'agire amministrativo».
4.- Analoga questione di legittimità costituzionale della norma in esame ha
sollevato, con ordinanza del 14 ottobre 2009, la Corte dei conti, sezione
giurisdizionale per la Regione Campania (reg. ord. n. 25 del 2010), la quale ha,
peraltro, limitato le censure ai soli periodi secondo e terzo del comma 30-ter
dell'art. 17.
La remittente premette che la procura contabile aveva evocato in giudizio taluni
«esponenti» del Comune di Benevento che, con il loro comportamento gravemente
colposo, consistito nel «mancato rispetto degli obblighi inerenti il mancato
raggiungimento delle percentuali minime di raccolta differenziata dei rifiuti»
per gli esercizi 2003, 2004 e 2005, avevano cagionato, oltre che un rilevante
danno patrimoniale, anche un danno derivante dalle spese necessarie per il
ripristino del pregiudizio all'immagine dell'ente.
4.1.- La Corte remittente rileva, innanzitutto, come la questione sia rilevante,
in quanto la norma censurata, limitando la legittimazione dell'ufficio
requirente contabile ad agire in giudizio, avrebbe natura processuale, con la
conseguenza che si applicherebbe anche ai giudizi in corso.
4.1.1.- Con riferimento alla non manifesta infondatezza della questione, si
assume, in primo luogo, la violazione dell'art. 2 Cost., in quanto tale
articolo, garantendo i diritti inviolabili dell'uomo come singolo e nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, impone che venga assicurata
la tutela del diritto all'immagine sia delle persone fisiche sia delle persone
giuridiche, pubbliche e private.
A tale proposito, si rileva come l'art. 2059 cod. civ. riconosca il risarcimento
del danno non patrimoniale anche al di fuori delle ipotesi in cui le condotte
poste in essere integrano gli estremi di fatti di reato, ogniqualvolta venga
lesa una posizione giuridica soggettiva tutelata a livello costituzionale.
4.1.2.- Sotto altro profilo, il giudice a quo ritiene che la norma violi l'art.
3 Cost., in quanto creerebbe una disparità di trattamento tra il dipendente
pubblico e gli amministratori, compresi quelli degli enti locali, che non
sarebbero destinatari della disposizione censurata. Quest'ultima, infatti,
ammette il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e modi previsti
dall'art. 7 della legge n. 97 del 2001, il quale si occupa esclusivamente dei
dipendenti pubblici. Inoltre, l'ente si troverebbe in una «ingiustificata
posizione di svantaggio nei confronti del dipendente pubblico».
A tale proposito, si puntualizza che «l'irragionevolezza di tale distinzione
risulta di tutta evidenza ove si ponga mente alla circostanza che sono proprio
gli amministratori, che rappresentano nei rapporti giuridici e politici gli enti
pubblici, a porre maggiormente in pericolo il prestigio degli enti stessi,
piuttosto che i dipendenti pubblici legati a tali enti da un mero rapporto
lavorativo».
Non si comprenderebbero neanche le ragioni della scelta del legislatore, il
quale non avrebbe collegato il «privilegio perpetuo» ad una «fondata
circostanza».
Un ulteriore profilo di irragionevole disparità di trattamento vi sarebbe tra la
pubblica amministrazione e i restanti soggetti dell'ordinamento, «in quanto il
deterioramento dell'immagine della prima non è sanzionato se non in casi limite
dipendenti dalla commissione di gravi delitti, mentre quello dei secondi è ben
tutelato in tutti i casi di commissione di illecito anche di non rilievo
penale».
4.1.3.- Secondo il remittente, la norma censurata si porrebbe in contrasto anche
con l'art. 97 Cost., in quanto, da un lato, «determina un'alterazione della
funzionalità degli enti pubblici sotto il delicato profilo della reputazione e
della conseguente fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni»,
dall'altro, «contraddice» il principio di imparzialità «che si risolve
essenzialmente nel rispetto della giustizia sostanziale».
4.1.4.- Sotto altro aspetto la manifesta irragionevolezza della disposizione in
esame risulterebbe dal fatto che la norma è stata introdotta dalla legge di
conversione «senza che nel corso della brevissima discussione», avente ad
oggetto la norma stessa, «ne siano state valutate a pieno la portata e le
conseguenze».
4.1.5.- Sarebbero violati, altresì, gli artt. 24, primo comma, che riconosce a
tutti il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi e
113, primo e secondo comma, Cost., che non consentirebbero «alcuna limitazione
alla tutela giurisdizionale di diritti ed interessi legittimi in materia di
funzione amministrativa».
4.1.6.- Il contrasto, invece, con l'art. 81, quarto comma, Cost., deriverebbe
dal fatto che non sarebbe stata prevista alcuna copertura finanziaria «della
minore entrata imposta agli enti pubblici a causa del mancato recupero dei danni
provocati alle loro finanze di natura derivata».
4.1.7.- Infine, si assume la violazione degli artt. 103, secondo comma, e 25,
primo comma, Cost. Ciò in quanto, alla luce delle citate disposizioni
costituzionali, al legislatore non sarebbe consentito, da un lato, «escludere
apoditticamente la giurisdizione della Corte dei conti con riferimento ad
ipotesi specifiche di responsabilità rientranti tradizionalmente e genericamente
nella materia della contabilità pubblica», dall'altro, distogliere la
controversia dal suo giudice naturale «successivamente al verificarsi del fatto
generatore».
4.2.- È intervenuto anche in tale giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo
che le questioni sollevate vengano dichiarate inammissibili o infondate.
L'Avvocatura, dopo avere svolto la premessa già contenuta nell'atto di
intervento depositato nel giudizio riferito all'ordinanza n. 24 del 2010,
riprende le stesse argomentazioni con riguardo alle censure formulate in
relazione agli artt. 24 (nel caso in esame si richiama anche l'art. 113 ma le
deduzioni non mutano) e 97 Cost.
Con riferimento all'asserita violazione del principio di uguaglianza si aggiunge
come, «a prescindere dal fatto che è lecito dubitare che l'interpretazione
fornita dal remittente sia effettivamente corretta e l'unica possibile sotto il
profilo, ad esempio, della non applicabilità della norma in esame agli
"amministratori" degli enti e agli altri soggetti legati da (mero) rapporto di
servizio», sarebbe sufficiente porre in rilievo la diversità della posizione dei
soggetti che provocano o subiscono il danno per giustificare la diversità di
trattamento.
Per quanto attiene poi all'asserita violazione dell'art. 81 Cost., l'Avvocatura
sottolinea l'inconferenza del parametro costituzionale evocato.
Infine, con riferimento all'asserita violazione degli artt. 25 e 103 Cost., si
rileva come «nessuno spostamento di giurisdizione o limitazione dei poteri
giurisdizionali si verifica nel caso in esame».
5.- Con ordinanza del 27 ottobre 2009, la Corte dei conti, sezione
giurisdizionale per la Regione Campania (reg. ord. n. 26 del 2010), ha sollevato
una ulteriore questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il
medesimo comma 30-ter, limitatamente ai periodi secondo e terzo.
Il giudice a quo premette che la procura contabile aveva citato in giudizio due
dipendenti del Ministero delle finanze, uno solo dei quali è stato condannato
con sentenza passata in giudicato ma per un reato non rientrante tra quelli
indicati nel capo relativo ai «delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione».
5.1.- Ciò premesso, la Corte remittente solleva la questione di legittimità
costituzionale per le medesime ragioni contenute nell'ordinanza del 14 ottobre
2009 (r.o. n. 25 del 2009).
In particolare, si aggiunge che «non appare coerente con il sistema
costituzionale e con i principi del diritto non considerare dannosi per il
prestigio dell'amministrazione gli illeciti penali diversi da quelli specifici
contenuti nel capo I del titolo II del libro II del codice penale, in quanto
anche gli altri - ove compiuti nell'esercizio delle funzioni pubbliche o in
occasione di esse - sono senz'altro lesivi dell'immagine della p.a.».
5.2.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato un atto avente lo
stesso contenuto di quello depositato nel giudizio promosso con l'ordinanza reg.
ord. n. 25 del 2006.
6.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, ha
sollevato, con ordinanza del 9 dicembre 2009 (reg. ord. n. 27 del 2010), altra
questione di legittimità costituzionale avente sempre ad oggetto l'art. 17,
comma 30-ter, periodi secondo e terzo.
6.1.- Il giudice a quo premette che la procura contabile aveva evocato in
giudizio il sindaco, un dirigente, un capo servizio ed un responsabile di un
ufficio del Comune di Marcianise perché gli stessi venissero condannati al
pagamento, pro quota, di determinate somme per il «mancato rispetto degli
obblighi inerenti il mancato raggiungimento da parte del Comune di Marcianise
delle percentuali minime di raccolta differenziata dei rifiuti» per gli esercizi
2003, 2004 e 2005. In particolare, ai soggetti convenuti in giudizio veniva
richiesto, tra l'altro, il risarcimento di danni per lesione dell'immagine
dell'ente regionale a causa dell'«enorme risonanza nella pubblica opinione
dell'emergenza rifiuti, con risalto anche all'estero ed impatto fortemente
negativo per il settore turistico».
6.1.2.- Si assume che la questione sarebbe rilevante, in quanto la norma
impugnata, avendo natura processuale, si applicherebbe ai giudizi in corso,
imponendo l'accoglimento dell'eccezione di nullità della domanda risarcitoria di
danno all'immagine.
6.1.3.- Per quanto attiene al giudizio di non manifesta infondatezza si assume
la violazione dell'art. 3 Cost., in quanto la norma impugnata, con prescrizione
non ragionevole, avrebbe introdotto un limite all'esercizio dell'azione di danno
soltanto a favore dei dipendenti pubblici e non anche degli amministratori,
nonostante a quest'ultimi sia rimessa «l'attività di formazione degli indirizzi
politici dell'ente, laddove ai dipendenti è affidata la fase propriamente
gestionale se non addirittura operativa».
6.1.4.- Il giudice a quo assume, inoltre, che sia priva di ragionevole
giustificazione la scelta legislativa di ammettere l'azione di risarcimento del
danno soltanto in presenza di una condanna definitiva per delitti contro la
pubblica amministrazione e non anche in presenza di altre ipotesi delittuose o
di «illeciti gestionali caratterizzati da colpa grave».
6.1.5.- Sarebbe, inoltre, violato anche l'art. 103 Cost., in quanto la norma,
escludendo la risarcibilità in presenza di delitti diversi da quelli contro la
pubblica amministrazione, inciderebbe sull'ambito della giurisdizione della
Corte dei conti.
6.1.6.- Sarebbero, violati, anche gli artt. 24, primo comma, che riconosce a
tutti il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi, e
113, primo e secondo comma, Cost.
6.2.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha esposto, con riguardo agli
evocati artt. 3, 24, 103 e 113 Cost., le argomentazioni già indicate negli altri
atti di intervento. La difesa dello Stato ha aggiunto che le norme in esame
possono essere interpretate in senso conforme a Costituzione, ritenendo che la
responsabilità si estende non solo ai dipendenti ma anche agli amministratori.
7.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, ha
anch'essa sollevato, con ordinanza del 14 ottobre 2009 (reg. ord. n. 44 del
2010), questione di legittimità costituzionale dell'art. 17, comma 30-ter,
periodi secondo e terzo, del citato decreto-legge n. 78 del 2009.
7.1.- Il remittente premette che la procura contabile aveva chiesto la condanna
di un assistente di polizia penitenziaria presso la casa circondariale di
#################### al pagamento della somma di euro 10.000,00, oltre le spese
di giudizio, a titolo di danno erariale subito dal Ministero della giustizia. In
particolare, veniva contestato al dipendente la lesione dell'immagine dell'ente
a causa della condotta tenuta dallo stesso e consistita nella commissione di
reati, accertati con sentenza irrevocabile, di violenza sessuale, con abuso di
qualità e di poteri, e di concussione ai danni di alcuni detenuti. In concreto
la sussistenza del danno sarebbe dimostrata dalla pubblicità che la vicenda in
esame avrebbe avuto presso la stampa locale.
7.1.1.- Ciò premesso, il giudice a quo assume che la questione è rilevante, in
quanto la norma impugnata, ammettendo la proposizione dell'azione di danno
soltanto in presenza di delitti contro la pubblica amministrazione, non
consentirebbe un giudizio di merito sull'intera domanda. Inoltre, la nullità
dell'azione può essere rilevata d'ufficio dal giudice; ma anche qualora si
volesse argomentare diversamente, deve ritenersi, puntualizza la Corte
remittente, che il pubblico ministero, sollevando l'eccezione di legittimità
costituzionale, «ha implicitamente riconosciuto ed eccepito la nullità
sopravvenuta in parte qua dell'atto di citazione».
7.1.2.- Prima di esporre le ragioni a sostegno della non manifesta infondatezza
della questione, il remittente precisa che la norma, per il suo chiaro contenuto
precettivo, non è suscettibile di essere interpretata in modo conforme a
Costituzione.
7.1.3.- Chiarito ciò, si assume, innanzitutto, la violazione dell'art. 3 Cost.,
per irragionevolezza della scelta legislativa di ammettere la risarcibilità
soltanto in presenza di comportamenti che integrano gli estremi di delitti
contro la pubblica amministrazione e non anche di altri reati, quali, ad
esempio, i reati di violenza sessuale, che possano avere anche una maggiore
idoneità lesiva dell'immagine della pubblica amministrazione, soprattutto
quando, come nel caso oggetto del giudizio a quo, essi vengono consumati
all'interno di un istituto penitenziario.
7.1.4.- Sotto altro aspetto, si rileva come sarebbe irragionevole la scelta
legislativa di ancorare alla tipologia dei reati il ridimensionamento della
legittimazione all'esercizio dell'azione.
7.1.5.- Inoltre, la irragionevolezza della norma in esame risulterebbe dal fatto
che essa è inserita in un testo legislativo che ha, quale principale finalità,
quella di prevedere misure idonee a fronteggiare l'attuale crisi economica. La
disposizione in esame, si sottolinea, comporterebbe, invece, addirittura «un
maggiore esborso, qualora l'ente danneggiato debba ricorrere alla costituzione
di parte civile nel processo penale o alla coltivazione dell'azione risarcitoria
direttamente nel giudizio civile per ottenere la piena reintegrazione alla
propria immagine lesa».
7.1.6.- La norma censurata comporterebbe, altresì, un'evidente disparità di
trattamento tra dipendenti dell'ente pubblico che, avendo commesso uno dei
delitti contro la pubblica amministrazione, sono sottoposti alla giurisdizione
contabile, e dipendenti che, pur avendo commesso un altro delitto con abuso
delle funzioni ricoperte e nell'esercizio delle stesse, «sono sottoposti, per il
risarcimento del danno all'immagine, alla giurisdizione ordinaria, con un
differente regime processuale e prescrizionale».
7.1.7.- La Corte remittente ritiene che la norma contrasti anche con il
principio di buon andamento dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), in
quanto, da un lato, «indebolisce l'efficacia deterrente del giudizio di
responsabilità; dall'altro, come nella presente fattispecie ed in ipotesi
similari, comporta il dispendio di maggiori risorse a carico dell'erario per
l'attivazione di plurimi giudizi volti ad ottenere l'"integrale" risarcimento
del danno all'immagine, pur essendo state poste in essere condotte da parte di
un pubblico dipendente in un unico contesto criminoso, integranti sia le ipotesi
delittuose di cui al capo I del titolo II del libro secondo del codice penale
che altre fattispecie delittuose».
7.1.8.- Infine, si assume la violazione dell'art. 24 Cost., «dal momento che la
limitazione della legittimazione ad agire del pubblico ministero, nella maggior
parte dei casi, si configura come una minorata tutela dell'erario giacché
l'iniziativa processuale è lasciata alle stesse amministrazioni danneggiate, con
possibili pratiche lassiste».
7.2.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale, dopo avere svolto la
premessa già esposta, ha sottolineato come le questioni siano inammissibili, in
quanto il remittente, formulando «un giudizio di "maggiore pregnanza" di
determinate fattispecie criminose rispetto ad altre, compie in realtà un
apprezzamento assolutamente soggettivo e ovviamente opinabile, intendendo così
sostituire le proprie valutazioni a quelle del legislatore».
In relazione, poi, all'asserita irragionevolezza della norma, l'Avvocatura dello
Stato fa presente come sia lo stesso giudice remittente ad affermare che «non
sarebbe preclusa, in caso di presunto danno all'immagine derivante dalla
commissione di reati diversi da quelli previsti dalla norma, la possibilità di
agire per il risarcimento innanzi ad un giudice diverso dal giudice contabile».
Per quanto attiene, invece, alla irragionevolezza connessa alla collocazione
sistematica della norma, si osserva come «a prescindere dalla correttezza di una
prassi ormai assolutamente costante dal (solo) punto di vista della "buona
tecnica legislativa", non si vede (né si dimostra in alcun modo) come la sedes
prescelta possa in sé aver inficiato le compiute valutazioni del legislatore e
la ragionevolezza della norma».
Con riferimento all'asserita differenziazione ingiustificata tra le posizioni
dei dipendenti sottoposti o meno alla giurisdizione contabile, si deduce come
non sia «del tutto chiaro se la censura si riferisca alla differenza esistente,
in linea generale, tra soggetti-dipendenti pubblici sottoposti o sottratti alla
giurisdizione contabile (...), ovvero alla differenza di trattamento in ipotesi
ravvisata nell'ambito dei soggetti tutti sottoposti a tale giurisdizione con
riferimento alla risarcibilità di determinati danni».
Con riferimento alla censura riferita all'art. 24 Cost., si assume come essa sia
inammissibile, in quanto formulata in forma eventuale. Nel merito, si
ribadiscono le argomentazioni contenute negli altri atti difensivi.
8.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, ha
anch'essa sollevato, con ordinanza del 29 dicembre 2009 (reg. ord. n. 125 del
2010), questione di legittimità costituzionale dell'art. 17, comma 30-ter,
periodi secondo e terzo.
8.1.- La procura contabile aveva chiesto la condanna di un ispettore di polizia
di Stato al risarcimento del danno subito dall'immagine dell'amministrazione di
appartenenza. In particolare, si era contestato al convenuto di avere preteso,
abusando della propria qualità e dei suoi poteri, di accedere gratuitamente in
locali aperti al pubblico.
Per tale vicenda era stato iniziato un procedimento penale per il reato di
concussione, che aveva portato alla condanna in primo grado e all'assoluzione in
appello perché «il fatto non costituisce reato».
8.1.1.- Secondo il giudice a quo la questione sarebbe rilevante, in quanto la
norma, applicabile ai giudizi in corso, in ragione della sua natura processuale,
impedirebbe la definizione nel merito della controversia, dovendo la Corte
declinare la propria giurisdizione.
8.1.2.- Con riferimento al giudizio sulla non manifesta infondatezza, si assume,
innanzitutto, la violazione dell'art. 2 Cost. che, letto in combinato disposto
con l'art. 2059 cod. civ., assicurerebbe il risarcimento del danno per lesione
del diritto all'immagine della pubblica amministrazione a prescindere dalla
sussistenza di un fatto di reato. In questa prospettiva, sottolinea il giudice a
quo, la norma censurata porrebbe «un limite irragionevole (e, soprattutto,
incomprensibile) alla piena protezione di un primario valore costituzionale
garantito anche per una figura soggettiva pubblica».
8.1.3.- Sarebbe violato, altresì, l'art. 97 Cost., in quanto la previsione
legislativa censurata favorirebbe «l'irresponsabilità dei dipendenti pubblici,
non più soggetti al giudizio di responsabilità innanzi alla Corte di conti in
caso di comportamenti illeciti causativi di danno all'immagine dell'ente di
riferimento al di fuori delle ipotesi di reato».
8.1.4.- L'asserita violazione dell'art. 3 Cost. deriverebbe dal fatto che
sarebbe intrinsecamente irragionevole limitare l'azione risarcitoria in esame
prescindendo da qualunque valutazione circa le caratteristiche e la specifica
gravità del comportamento illecito.
8.1.5.- La irragionevolezza sarebbe, inoltre, ulteriormente rafforzata dal fatto
che la norma è inserita in una corpus normativo che dovrebbe avere la finalità
di introdurre misure idonee al recupero di risorse utili per il Paese. La norma
impugnata, invece, favorendo il «lassismo e l'irresponsabilità dei (soli)
dipendenti pubblici», si muoverebbe in una contraria direzione.
8.1.6.- L'art. 3 Cost. sarebbe violato anche per la disparità di trattamento che
la norma introduce, da un lato, tra l'ente pubblico e le altre figure
soggettive, in quanto solo questi ultimi godrebbero di una tutela piena del
proprio diritto all'immagine; dall'altro, tra dipendenti pubblici e
amministratori, atteso che la norma censurata non comprenderebbe nel proprio
ambito applicativo anche tale ultima categoria di soggetti.
8.1.7.- La Corte remittente assume, inoltre, che sarebbe stato violato, anche in
relazione all'art. 25, l'art. 103, secondo comma, Cost., che attribuisce in via
generale alla Corte dei conti la giurisdizione nelle materie di contabilità
pubblica, tra le quali rientrerebbe anche quella in esame.
8.1.8.- Sarebbe violato anche l'art. 24 Cost., in quanto «l'irrazionale e
macchinoso "doppio binario"» inciderebbe sulla legittimazione ad agire del
pubblico ministero contabile, «con una presumibile minore tutela dell'erario, in
carenza di un organo dotato di strumenti di indagine e poteri istruttori di cui
gli ordinari uffici pubblici certo non possono disporre».
8.1.9.- Infine, si deduce la violazione dell'art. 77 Cost., in quanto
mancherebbero i presupposti di necessità e di urgenza ai fini dell'emanazione
della norma censurata; presupposti che dovrebbero esistere anche in relazione
alle norme, quale quella censurata, previste direttamente dalla legge di
conversione del decreto-legge.
A tale proposito, il giudice a quo sottolinea che il principio affermato nella
sentenza n. 391 del 1995 della Corte costituzionale, secondo cui i predetti
presupposti non devono sussistere in relazione alle norme introdotte in sede di
conversione, sarebbe stato superato dalla successiva giurisprudenza
costituzionale (si richiamano le sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007),
secondo cui anche gli emendamenti al decreto-legge in sede di conversione, il
cui contenuto sia «dissonante» con quello del decreto, devono rispettare i
requisiti della straordinaria necessità ed urgenza.
8.2.- È intervenuto anche in questo giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, ribadendo
quanto già esposto a proposito di altre ordinanze di rimessione, con riferimento
alle censure prospettate in relazione agli artt. 2, 3, 24, 25, 97, 103 Cost.
Per quanto attiene all'asserita violazione dell'art. 77 Cost., si assume che la
stessa non è fondata, in quanto i requisiti della necessità ed urgenza devono
essere presenti soltanto con riferimento al decreto-legge e non anche alla legge
di conversione. Si puntualizza, a tale proposito, che la sentenza n. 128 del
2008 della Corte, richiamata nell'ordinanza a sostegno della fondatezza della
doglianza, riguarderebbe una fattispecie in cui l'asserito difetto dei
presupposti era riferito alla norma contenuta nel decreto-legge.
9.- L'art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, è stato censurato anche,
con ordinanza del 10 dicembre 2009 (reg. ord. n. 145 del 2010), dalla Corte dei
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana.
9.1.- Il giudice a quo espone che la procura contabile aveva citato in giudizio
taluni agenti della polizia di Stato in servizio presso la stazione ferroviaria
di Firenze perché venissero condannati al risarcimento del danno all'immagine
subito dall'amministrazione, in conseguenza della condanna dei predetti agenti,
con sentenza irrevocabile, per avere commesso, con abuso di autorità, reati di
violenza sessuale e di falsità ideologica in atti pubblici.
9.1.2.- La questione di costituzionalità sarebbe rilevante, in quanto la norma
impugnata consente la proposizione dell'azione di risarcimento del danno
all'immagine soltanto in presenza di delitti contro la pubblica amministrazione.
Ne conseguirebbe che, nella specie, se la norma non venisse dichiarata
incostituzionale, la Corte dovrebbe dichiarare il proprio difetto di
giurisdizione.
9.1.3.- Esposto ciò, si assume, innanzitutto, che la norma censurata
contrasterebbe con l'art. 3 Cost., in quanto essa, in maniera irragionevole ed
arbitraria, ammetterebbe la tutela risarcitoria del diritto all'immagine della
pubblica amministrazione soltanto in presenza di talune condotte illecite.
9.1.4.- Sarebbe, altresì, violato l'art. 24, primo comma, Cost., in quanto la
norma limiterebbe il diritto della pubblica amministrazione di agire in giudizio
per fare valere i propri diritti ed interessi.
9.1.5.- Viene evocato anche l'art. 97 Cost., in quanto sarebbe violato, da un
lato, il principio di buon andamento in ragione della «perdita di fiducia che i
cittadini possono nutrire nei confronti delle istituzioni, dando luogo ad una
visione poco affidabile dell'amministrazione»; dall'altro, il principio di
imparzialità «per gli evidenti effetti distorsivi che ciò comporta
sull'organizzazione della pubblica amministrazione sotto il duplice profilo
della ridotta potenzialità operativa ed efficienza nella cura dell'interesse
pubblico».
9.2.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio
dell'Avvocatura generale dello Stato, ribadendo le argomentazioni già esposte
negli altri atti difensivi al fine di dimostrare la infondatezza anche della
questione in esame.
10.- Il medesimo comma 30-ter, periodi secondo e terzo, è stato censurato anche,
con ordinanza del 17 marzo del 2010 (reg. n. 162 del 2010), dalla Corte dei
conti, sezione prima giurisdizionale centrale d'appello.
10.1.- La Corte remittente, in via preliminare, illustra la vicenda oggetto del
giudizio nei seguenti termini.
La procura contabile aveva evocato in giudizio il Presidente dell'Anas, carica
ricoperta dal Ministro pro-tempore dei lavori pubblici (dal 22 luglio 1989 al 28
giugno 1992), perché egli venisse condannato, a titolo di responsabilità
amministrativa, al pagamento in favore dell'erario della somma 32 miliardi di
lire. Tale danno erariale si sarebbe prodotto a causa dei maggiori costi
sostenuti dall'amministrazione per l'abnorme diffusione del sistema delle
trattative private in luogo delle licitazioni.
Successivamente veniva notificato un atto di citazione integrativo con il quale,
oltre a rimodulare l'importo del danno erariale patrimoniale (da 32 a poco più
di 20 miliardi di lire), la procura contestava, quale ulteriore voce non
ricompresa nell'atto, il danno all'immagine dell'amministrazione.
Con sentenza di primo grado del 17 ottobre 2007, n. 1527 la sezione
giurisdizionale per il Lazio ha condannato il convenuto al risarcimento del
danno patrimoniale per l'importo di euro 5.000.000. Con la stessa sentenza è
stata, invece, dichiarata inammissibile la richiesta di risarcimento del danno
non patrimoniale perché la relativa contestazione sarebbe stata introdotta per
la prima volta nell'atto di citazione integrativa realizzando una non consentita
mutatio libelli.
La predetta sentenza è stata appellata dalla procura. Il giudice remittente, con
sentenza del 5 febbraio 2010 n. 75, ha accolto l'appello, ritenendo ammissibile
la domanda di risarcimento per danno all'immagine, in quanto la stessa era stata
preceduta da uno specifico invito a dedurre, sicché «la contestazione del danno
all'immagine doveva prefigurarsi non come una mutatio libelli, bensì come una
nuova ed autonoma domanda». A seguito di tale decisione si sarebbe dovuto
disporre il rinvio al giudice di primo grado per l'analisi nel merito. A questo
punto il giudice a quo si è posto la questione relativa alla disamina
dell'eccezione della nullità dell'atto processuale introduttivo del giudizio di
appello sollevata dall'appellato alla luce proprio di quanto previsto dalla
norma impugnata. Il Collegio ha ritenuto, a tale proposito, che tale norma fosse
suscettibile di applicazione in sede di appello «in quanto la sentenza di prime
cure ha pronunciato l'inammissibilità della
citazione sul punto del danno all'immagine senza entrare nel merito». Pertanto,
la Corte invece di disporre il rinvio al giudice di primo grado in relazione al
danno all'immagine, ha sollevato, con l'ordinanza sopra citata, questione di
legittimità costituzionale della norma in esame.
Per quanto attiene poi al procedimento penale, il giudice a quo descrive in
maniera dettagliata tutti i passaggi di tale procedimento, rilevando come esso
si sia concluso con una sentenza (n. 2257 del 2005), emessa dal giudice
dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Roma, di assoluzione «perché il
fatto non sussiste». Ma ciò, si puntualizza, non è avvenuto «a seguito di un
sostanziale riesame di merito, ovvero per vizi propri della sentenza di primo
grado», ma «per la dichiarata incompetenza funzionale del collegio per i reati
ministeriali (accertata dalla Corte d'appello applicando i principi resi da una
sentenza della Corte costituzionale nelle more intervenuta) e a seguito
dell'approvazione legislativa di una nuova norma di garanzia, incidente anche
sul valore probatorio delle dichiarazioni già correttamente rese».
10.1.2.- Ciò premesso, il giudice remittente sottolinea come la questione
proposta sia rilevante, in quanto l'applicazione della norma impugnata
precluderebbe l'analisi nel merito della domanda di risarcimento del danno
all'immagine della pubblica amministrazione.
10.1.3.- Prima di esporre, nello specifico, le ragioni poste a fondamento del
giudizio di non manifesta infondatezza, il predetto giudice rileva come la norma
censurata possa «prefigurare due distinte opzioni interpretative, tra loro
alternative». Secondo una prima interpretazione la disposizione in esame avrebbe
ridotto l'area di configurabilità del danno all'immagine. Secondo una diversa
interpretazione, invece, il legislatore avrebbe inteso ripartire la cognizione
dei comportamenti lesivi del diritto all'immagine della pubblica amministrazione
tra giudice contabile e giudice ordinario.
Entrambe «le possibilità interpretative», puntualizza il giudice remittente,
«non sembrano costituzionalmente conformi ed orientate». Infatti, in entrambe le
evenienze verrebbero violati i principi di ragionevolezza e uguaglianza (art. 3
Cost.), nonché il principio di buon andamento (art. 97 Cost.). La prima
interpretazione contrasterebbe, inoltre, con gli artt. 24 e 25 Cost.
10.1.4.- L'ordinanza assume che la norma impugnata violerebbe il principio di
buon andamento e imparzialità di cui all'art. 97 Cost., in quanto «l'immagine
della pubblica amministrazione si immedesima con il buon andamento e con
l'imparzialità costituzionalmente protetti» e «rappresenta uno strumento per la
percezione esterna della correttezza della gestione».
10.1.5.- Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza, atteso che il
legislatore avrebbe limitato, senza alcuna giustificazione, che non potrebbe
essere neanche individuata nella gravità delle condotte, il risarcimento del
danno ai soli casi in cui sia stato commesso un delitto contro la pubblica
amministrazione.
10.1.6.- La Corte remittente ritiene che sia stato violato anche l'art. 25
Cost., in quanto, accedendo all'interpretazione del «doppio binario», si
distoglierebbe sia il dipendente, sia la pubblica amministrazione dal suo
giudice naturale, che sarebbe sempre, nella materia della responsabilità
amministrativa, la Corte dei conti.
10.1.7.- La norma censurata si porrebbe in contrasto pure con l'art. 24 Cost.,
atteso che, in presenza della lesione di un bene garantito dall'art. 2 Cost.
anche alle persone giuridiche, non sarebbe assicurata all'amministrazione
pubblica «una tutela completa ed efficace».
10.1.8.- Secondo la Corte remittente sarebbe violato, inoltre, il principio di
uguaglianza, perché si creerebbe una disparità di trattamento: a) tra la
pubblica amministrazione e le altre persone giuridiche pubbliche; b) tra
condotte caratterizzate dalla violazione degli obblighi di servizio con idoneità
lesiva dell'immagine, che restano prive di sanzione, e condotte disciplinate
dalla norma censurata, nonostante si tratti di situazioni sostanzialmente
simili. Infine, sempre in relazione al parametro costituzionale in esame,
richiedendo la disposizione censurata l'esistenza di una sentenza penale di
condanna passata in giudicato, si verrebbe a creare una «forma inusuale di
pregiudizialità penale».
10.2.- Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, ribadendo, con
riferimento alle censure riferite agli artt. 3, 24, 25 e 97 Cost., le
argomentazioni difensive già contenute nei precedenti interventi.
10.3.- Si è costituito in giudizio il già Ministro dei lavori pubblici G.P.,
convenuto nel giudizio a quo, rilevando come la questione sollevata sia priva
del requisito della rilevanza, in quanto la Corte avrebbe dovuto limitarsi a
disporre la restituzione degli atti al giudice di primo grado, spettando a
quest'ultimo il potere di pronunciarsi sull'eccezione di nullità. Si aggiunge
che «la questione di costituzionalità avrebbe potuto assumere rilevanza dinanzi
al giudice d'appello soltanto ove quest'ultimo avesse ritenuto di convertire la
quaerela nullitatis in eccezione intesa a far valere il difetto di giurisdizione
della magistratura contabile sulla domanda oggetto dell'appello della Procura
(per inesistenza, nelle condizioni date, del potere di azione esercitato). Ma
ciò non è avvenuto, avendo la Sezione centrale optato (...) per un diverso
percorso decisionale, fondato sull'accoglimento del motivo di gravame dedotto
dalla parte pubblica (con il quale veniva censurata la
declaratoria di inammissibilità della citazione introduttiva dell'azione
risarcitoria per il danno non patrimoniale)».
11.- Con ordinanza del 12 novembre 2009 (reg. ord. n. 95 del 2010) la Corte dei
conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, ha sollevato questione
di legittimità costituzionale dell'art. 17, comma 30-ter, del medesimo
decreto-legge n. 78 del 2009, limitatamente al quarto periodo di detto comma.
11.1.- La Corte remittente premette che uno dei convenuti aveva chiesto la
declaratoria di nullità di tutti gli atti istruttori e processuali del giudizio
di responsabilità amministrativa, «ritenendo che l'iniziativa della procura sia
stata intrapresa in assenza di una "specifica e concreta" notizia di danno,
ovvero su di una verifica ispettiva del 2004 ed una relazione di accertamento
del 2006, ritenute generiche, prive di quantificazioni economiche del danno e
senza iscrizione di eventi fattuali a nessun soggetto nominativamente
individuato». Analoga istanza di nullità sarebbe stata formulata da un altro
convenuto in ragione della «genericità ed inidoneità funzionale: a) dell'atto di
costituzione in mora 8.11.2006 inoltrato dall'a. delegato della casa da gioco di
Campione d'Italia al Trevisan per danni erariali; b) dell'invito a dedurre
inoltrato dalla procura contabile al Trevisan; c) della citazione in giudizio
della procura nei confronti del Trevisan».
Il giudice a quo sottolinea che l'accoglimento delle istanze di nullità
«comporta la caducazione del giudizio di merito per responsabilità
amministrativa-contabile, con conseguente ricaduta in punto di rilevanza ai fini
del decidere».
11.1.2.- Chiarito ciò, il giudice remittente assume l'incostituzionalità della
norma in esame, in base alla quale qualunque atto istruttorio o processuale
posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al più volte citato
comma 30-ter dell'art. 17 del d.l. n. 78 del 2009, «salvo che sia stata già
pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può
essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi
alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel
termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta».
11.1.3.- In primo luogo, secondo il remittente, l'illegittimità costituzionale
discenderebbe dal fatto che il procedimento, a cognizione sommaria, disciplinato
dalla norma impugnata, non prevedrebbe né la notifica dell'istanza alle parti
costituite, né la partecipazione all'incidentale procedimento «innanzi alla
competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, delle parti in
giudizio, né di quella pubblica attrice, né delle parti convenute», nonostante
il contenuto decisorio dell'istanza di nullità e la espressa previsione in tal
senso contenuta, quale regola generale, in tutte le norme processuali generali e
speciali.
Tale omissione legislativa, si osserva, violerebbe, in assenza di esigenze di
celerità, il principio costituzionale del diritto alla difesa e quello del
contraddittorio ex artt. 24, primo e secondo comma, e 111 Cost.
11.1.4.- Il giudice a quo rileva come, anche a volere ritenere che il
procedimento decisorio preveda «implicitamente» il contraddittorio tra le parti
costituite «da instaurare con provvedimento del Presidente della sezione
giudicante da notificare alle parti costituite e statuente una camera di
consiglio ad hoc e/o il deposito di memorie», il termine perentorio di trenta
giorni dal deposito dell'istanza per decidere sulla stessa, con cognizione
sommaria, ma con contenuto sostanzialmente decisorio, sarebbe costituzionalmente
illegittimo, in quanto «irragionevolmente breve». Da ciò conseguirebbe la
violazione degli artt. 3, 24, 103, secondo comma, e 111 Cost. per «eccessiva
brevità del termine a difesa» (si cita, tra l'altro, la sentenza n. 42 del
1981).
11.1.5.- Sotto altro aspetto, si deduce che non sussisterebbe alcuna ragione
cautelare di urgenza idonea a giustificare la previsione di un termine così
breve.
11.1.6.- Infine, si deduce che la norma sarebbe costituzionalmente illegittima,
in quanto «non prevede alcun effetto giuridico derivante dal mancato deposito
della decisione della sezione nel "perentorio" termine o dal suo tardivo
deposito: che ciò comporti l'invalidazione dei successivi atti processuali o che
tale inerzia o ritardo non abbia conseguenze sostanziali e/o processuali, non è
dato comprendere e ciò si ripercuote, in punto di legittimità costituzionale,
ancora una volta sul diritto alla difesa delle parti (art. 24 Cost.)».
11.2.- Si è costituito in giudizio il sig. M.L.D.T., convenuto, unitamente ad
altri nel giudizio a quo, chiedendo che la questione sollevata venga dichiarata
non fondata.
11.3.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le
questioni sollevate vengano dichiarate inammissibili e infondate.
In particolare, con riferimento alla lamentata violazione del diritto di difesa
e del contraddittorio, si deduce come sia possibile una interpretazione conforme
a Costituzione, postulata dallo stesso remittente.
Per quanto attiene poi alla doglianza relativa alla brevità del termine, si
osserva come l'apposizione di un termine per lo svolgimento di un'attività
processuale costituisca valutazione di merito rimessa alla discrezionalità del
legislatore, non sindacabile dalla Corte costituzionale, se non nel caso, non
ricorrente nella controversia in esame, di valutazione assolutamente arbitraria
e irragionevole (si richiama la sentenza n. 427 del 1999).
In relazione alla censura con cui il giudice a quo assume che non
sussisterebbero ragioni cautelari e di urgenza tali da giustificare la
previsione di un regime diverso rispetto alle altre eccezioni di rito, si
deduce, in primo luogo, come tale valutazione sia rimessa alla discrezionalità
del legislatore. In secondo luogo sussisterebbe l'opportunità di una immediata
decisione sulla eccezione di nullità sia nel caso di un suo rigetto, per
rimuovere immediatamente un possibile ostacolo alla definizione del giudizio,
sia nel caso di accoglimento, al fine di procedere alla rinnovazione degli atti
dichiarati nulli.
Infine si deduce come quella impugnata non sia l'unica norma processuale che
prevede l'imposizione di un termine per il giudicante.
Motivi della decisione
1.- La Corte dei conti, sezioni giurisdizionali per le Regioni Umbria (reg. ord.
n. 331 del 2009), Calabria (reg. ord. n. 24 del 2010), Campania (reg. ord. n.
25, n. 26 e n. 27 del 2010), Siciliana (reg. ord. n. 44 del 2010), Toscana (reg.
ord. n. 145 del 2010), Lombardia (reg. ord. n. 125 del 2010), nonché sezione
prima giurisdizionale centrale d'appello (reg. ord. n. 162 del 2010), con
distinte ordinanze, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell'articolo 17, comma 30-ter, periodi secondo, terzo e quarto, del
decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di
termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come
modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera c), numero 1, del decreto-legge 3
agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78
del 2009), convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, per
violazione, nel complesso, degli articoli 2, 3, 24, 25, 54,
77, 81, 97, 103, 111 e 113 della Costituzione.
1.1.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia con
altra ordinanza (reg. ord. n. 95 del 2010), ha censurato, specificamente,
soltanto il quarto periodo del predetto comma 30-ter.
2.- Considerata la sussistenza di spiccati elementi di connessione oggettiva tra
i dieci giudizi sopra indicati - due dei quali discussi in udienza pubblica
(reg. ord. n. 95 e n. 162 del 2010) e gli altri otto esaminati in camera di
consiglio (reg. ord. n. 331 del 2009, numeri 24, 25, 26, 27, 44, 125 e 145 del
2010) - gli stessi devono essere riuniti per una trattazione unitaria e decisi
con unica sentenza.
3.- Le disposizioni censurate prevedono, ai periodi secondo e terzo del
suindicato comma 30-ter, che le procure regionali della Corte dei conti
esercitino l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e
modi previsti dall'articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul
rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del
giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche).
A tale ultimo fine, si precisa che il decorso del termine di prescrizione, di
cui al comma 2 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni
in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), è sospeso fino
alla conclusione del procedimento penale.
Il richiamato art. 7 della legge n. 97 del 2001, a sua volta, ai fini della
delimitazione dell'ambito applicativo dell'azione risarcitoria, fa riferimento
alle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate nei confronti dei dipendenti
di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione
pubblica per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti dal capo I
del titolo II del libro II del codice penale, vale a dire quelli di peculato
(artt. 314 e 316), malversazione a danno dello Stato (art. 316-bis), indebita
percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter), concussione (art.
317), corruzione per un atto d'ufficio (art. 318), corruzione per un atto
contrario ai doveri d'ufficio (art. 319), corruzione in atti giudiziari (art.
319-ter), corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320),
istigazione alla corruzione (art. 322), peculato, concussione, corruzione e
istigazione alla corruzione di membri degli organi delle
Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (art.
322-bis), abuso d'ufficio (art. 323), utilizzazione d'invenzioni o scoperte
conosciute per ragioni di ufficio (art. 325), rivelazione ed utilizzazione di
segreti di ufficio (art. 326), rifiuto di atti d'ufficio. Omissione (art. 328),
rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della
forza pubblica (art. 329), interruzione di un servizio pubblico o di pubblica
necessità (art. 331), sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a
sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall'autorità
amministrativa (art. 334), violazione colposa di doveri inerenti alla custodia
di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o
dall'autorità amministrativa (art. 335).
3.1.- Il medesimo comma 30-ter, al quarto periodo - che, sebbene censurato anche
dalla sezione giurisdizionale per la Regione Campania (reg. ord. n. 27 del
2010), nonché dalla sezione giurisdizionale per la Regione Umbria (reg. ord. n.
331 del 2009), è la sola norma oggetto di doglianza da parte della sezione
giurisdizionale per la Regione Lombardia, con l'ordinanza n. 95 del 2010 -
stabilisce che «qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in
violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata già
pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può
essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi
alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel
termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta».
4.- Preliminarmente, deve essere dichiarata la inammissibilità della
costituzione in giudizio dei signori G.A.N., P.G., G.B., G.G., R.R. (reg. ord.
n. 331 del 2009), che, pur assumendo di essere parti nel processo a quo, si sono
costituiti oltre il termine stabilito dall'art. 25 della legge 11 marzo 1953, n.
87, computato secondo quanto previsto dall'art. 3 delle norme integrative per i
giudizi davanti alla Corte costituzionale, essendo tale termine, per costante
giurisprudenza, perentorio (ex plurimis, sentenza n. 234 del 2007).
5.- Ancora in via preliminare, deve essere dichiarata inammissibile la questione
sollevata dalla Corte di conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia
(reg. ord. n. 95 del 2010), per carente descrizione della fattispecie, che
determina l'insanabile astrattezza della questione stessa e, dunque, la sua
inammissibilità nel presente giudizio di costituzionalità (ex multis, sentenza
n. 179 del 2009 e ordinanza n. 5 del 2010).
In punto di fatto, dall'ordinanza di remissione si rilevano soltanto una serie
di nomi di persone indicate come soggetti convenuti in un giudizio di
responsabilità, il nome di uno di essi, D.T.M.L., che ha presentato una istanza
diretta alla declaratoria di nullità di atti istruttori e processuali, la
presentazione di una analoga istanza avanzata dalla difesa del «convenuto
Trevisan», nonché l'indicazione di un «atto di costituzione in mora 8-11-2008
inoltrato (testualmente, n.d.r.) dall'a. delegato della casa da gioco di
Campione d'Italia al Trevisan per danni erariali» e di una «citazione in
giudizio della Procura nei confronti del Trevisan». Nulla di più è dato evincere
per quanto concerne la descrizione della fattispecie, in particolare, con
riguardo alle posizioni funzionali dei convenuti, alle loro qualifiche, alle
vicende per effetto delle quali si sarebbero prodotti danni all'immagine di un
ente pubblico e, soprattutto, al contenuto degli addebiti contestati ai
singoli convenuti, con specifico riferimento alla posizione di ciascuno di essi.
In tale situazione, deve ritenersi del tutto carente, per genericità, la
descrizione della fattispecie da parte del giudice a quo nella sua ordinanza.
Di qui l'inammissibilità della questione così come proposta.
5.1.- Con riguardo, invece, ai giudizi introdotti con le ordinanze n. 331 del
2009 e n. 162 del 2010, le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, la
prima operante nella Regione Umbria e la seconda in sede centrale d'appello,
prospettano due questioni, senza porle in rapporto tra loro di subordinazione:
una, relativa alla limitazione del danno all'immagine della pubblica
amministrazione soltanto nelle ipotesi di fatti di reato specificamente
indicati; l'altra, relativa all'introduzione di due diverse forme di tutela
innanzi a sedi giurisdizionali differenti e cioè alla Corte dei conti per le
fattispecie costituenti anche reato e all'autorità giudiziaria ordinaria in
tutti gli altri casi.
Così operando, i giudici a quibus hanno omesso di chiarire quale sia
l'interpretazione della norma censurata da essi fatta propria. Siffatta
omissione, oltre a conferire carattere sostanzialmente ancipite alla loro
prospettazione, rende perplessa la motivazione sulla rilevanza e determina
l'inammissibilità della questione sollevata.
Anche tali questioni, sulla base di una costante giurisprudenza di questa Corte,
devono essere dichiarate inammissibili, restando assorbita l'eccezione di
inammissibilità per difetto di rilevanza, sollevata dalla parte privata nel
giudizio incardinato sulla base dell'ordinanza n. 162 del 2010.
5.2.- Del pari inammissibile, infine, deve ritenersi la questione indirizzata
avverso il quarto periodo del comma 30-ter dell'art. 17 dalla sezione
giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Campania (reg. ord. n. 27
del 2010).
Risulta, infatti, carente - sul punto - qualsiasi autonoma motivazione, tanto
sulla rilevanza nei giudizi a quibus di tale specifica questione, quanto sulla
sua non manifesta infondatezza.
6.- Nel merito, pertanto, devono essere esaminate le censure rivolte nei
confronti di quella parte della disposizione impugnata che pone limiti al
risarcimento del danno per lesione all'immagine della pubblica amministrazione,
secondo le prospettazioni delle ordinanze di rimessione.
Al riguardo, in via preliminare, è necessario individuare, anche al fine di una
corretta delimitazione del thema decidendum, l'esatta portata della normativa
impugnata.
Il legislatore ha ammesso la proposizione dell'azione risarcitoria per danni
all'immagine dell'ente pubblico da parte della procura operante presso il
giudice contabile soltanto in presenza di un fatto di reato ascrivibile alla
categoria dei «delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione»; ciò per effetto del richiamo, contenuto nella norma censurata,
all'art. 7 della legge n. 97 del 2001, che fa, appunto, espresso riferimento ai
delitti previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale.
Non vi è dubbio che la formulazione della disposizione non consente di ritenere
che, in presenza di fattispecie distinte da quelle espressamente contemplate
dalla norma impugnata, la domanda di risarcimento del danno per lesione
dell'immagine dell'amministrazione possa essere proposta innanzi ad un organo
giurisdizionale diverso dalla Corte dei conti, adita in sede di giudizio per
responsabilità amministrativa ai sensi dell'art. 103 Cost. Deve, quindi,
ritenersi che il legislatore non abbia inteso prevedere una limitazione della
giurisdizione contabile a favore di altra giurisdizione, e segnatamente di
quella ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile,
sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in
presenza della lesione dell'immagine dell'amministrazione imputabile a un
dipendente di questa. In altri termini, non è condivisibile una interpretazione
della normativa censurata nel senso che il legislatore abbia voluto
prevedere una responsabilità nei confronti dell'amministrazione diversamente
modulata a seconda dell'autorità giudiziaria competente a pronunciarsi in ordine
alla domanda risarcitoria. La norma deve essere univocamente interpretata,
invece, nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di
responsabilità per danni all'immagine dell'ente pubblico di appartenenza, non è
configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria.
Del resto, costituisce dato pacifico, come riconosciuto anche da questa Corte
con la sentenza n. 371 del 1998, sulla quale si ritornerà nel prosieguo, che la
limitazione della responsabilità amministrativa, sul piano soggettivo, al dolo o
alla colpa grave, non implica che il dipendente pubblico, qualora la sua
condotta si caratterizzi per la presenza di un minore grado di colpa, possa
essere evocato in giudizio innanzi ad una autorità giudiziaria diversa dal
giudice contabile.
7.- Così definita la portata della disposizione impugnata, si può passare ad
analizzare le singole doglianze prospettate dai giudici a quibus. In questa
analisi si procederà mediante un accorpamento delle diverse questioni, avendo
riguardo ai parametri costituzionali evocati.
8.- In tale indagine, ha carattere prioritario la censura relativa all'art. 77
Cost. In particolare, con la richiamata ordinanza n. 125 del 2010, la sezione
giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lombardia lamenta la
mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza, ai fini dell'emanazione
della norma contestata, che - a suo dire - dovrebbero sussistere anche in
relazione alle norme, quale quella in esame, introdotte soltanto in sede di
conversione in legge del decreto-legge n. 78 del 2009.
La questione non è fondata.
Questa Corte, in passato, ha affermato che, con riferimento alla adozione di
nuove norme da parte del Parlamento nel corso dell'esame di un disegno di legge
di conversione di un decreto-legge, non è pertinente il richiamo all'art. 77
Cost. Ciò in quanto «la valutazione preliminare dei presupposti della necessità
e dell'urgenza investe (...), secondo il disposto costituzionale, soltanto la
fase della decretazione di urgenza esercitata dal Governo, né può estendersi
alle norme che le Camere, in sede di conversione del decreto-legge, possano
avere introdotto come disciplina "aggiunta" a quella dello stesso decreto:
disciplina imputabile esclusivamente al Parlamento e che - a differenza di
quella espressa con la decretazione d'urgenza del Governo - non dispone di una
forza provvisoria, ma viene ad assumere la propria efficacia solo al momento
dell'entrata in vigore della legge di conversione» (sentenza n. 391 del 1995).
Successivamente, però, questa stessa Corte, con la sentenza n. 171 del 2007, ha
mutato orientamento sul punto, precisando - dopo aver ribadito che la legge di
conversione non ha efficacia sanante di eventuali vizi del decreto-legge - che
«le disposizioni della legge di conversione in quanto tali» - nei limiti, cioè,
in cui «non incidono in modo sostanziale sul contenuto normativo delle
disposizioni del decreto», come nel caso (allora) in esame - «non possono essere
valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da
quelle del decreto stesso». La Corte ha aggiunto che «a conferma di ciò, si può
notare che la legge di conversione è caratterizzata nel suo percorso
parlamentare da una situazione tutta particolare, al punto che la presentazione
del decreto per la conversione comporta che le Camere vengano convocate ancorché
sciolte (art. 77, secondo comma, Cost.) e il suo percorso di formazione ha una
disciplina diversa da quella che regola l'iter
dei disegni di legge proposti dal Governo».
Seguendo il suddetto più recente orientamento, va ulteriormente precisato che la
valutazione in termini di necessità e di urgenza deve essere indirettamente
effettuata per quelle norme, aggiunte dalla legge di conversione del
decreto-legge, che non siano del tutto estranee rispetto al contenuto della
decretazione d'urgenza; mentre tale valutazione non è richiesta quando la norma
aggiunta sia eterogenea rispetto a tale contenuto.
Orbene, nella specie, per le ragioni che meglio risulteranno nel prosieguo della
motivazione, la norma contenuta nel comma 30-ter, aggiunto all'art. 17 del
decreto-legge n. 78 del 2009, non si trova in una condizione di totale
eterogeneità rispetto al contenuto del decreto-legge in esame; sicché rispetto
ad essa rileva la indispensabile sussistenza dei requisiti di necessità e di
urgenza.
I giudici remittenti, a questo riguardo, osservano che la norma censurata
sarebbe priva di siffatti requisiti.
A giudizio di questa Corte, invece, deve in contrario osservarsi, innanzi tutto,
che la valutazione in ordine alla sussistenza, in concreto, dei requisiti in
parola è rimessa al Parlamento all'atto della approvazione dell'emendamento ora
oggetto di censure. Tale valutazione non deve tradursi in una motivazione
espressa, che sarebbe incompatibile con le caratteristiche del procedimento di
formazione legislativa. Né, a questo riguardo, può assumere rilievo il contenuto
del preambolo allo stesso decreto-legge che, proveniente dal Governo, concerne
le sole disposizioni originarie del medesimo provvedimento.
In realtà, la suindicata valutazione è rimessa alla discrezionalità delle Camere
e può essere sindacata innanzi a questa Corte soltanto se essa sia affetta da
manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, ovvero per mancanza evidente dei
presupposti (sentenza n. 116 del 2006). Evenienze queste che non possono
ritenersi sussistenti nella specie, in quanto non è dato evincere la carenza,
nella censurata disposizione introdotta dal Parlamento in sede di conversione
del decreto-legge n. 78 del 2009, dei necessari presupposti di necessità ed
urgenza. Né, sotto altro aspetto, può ritenersi che la norma stessa sia del
tutto dissonante rispetto al contenuto della decretazione di urgenza emessa con
il citato decreto-legge nel quadro generale di «provvedimenti anticrisi, nonché
proroga dei termini». E ciò con specifico riguardo alla esigenza di limitare
ambiti, ritenuti dal legislatore troppo ampi (come, d'altronde, dimostrano il
numero delle ordinanze di remissione e - soprattutto -
la tipologia delle contestazioni), di responsabilità dei pubblici dipendenti cui
sia imputabile la lesione del diritto all'immagine delle amministrazioni di
rispettiva appartenenza.
A questo proposito, può ritenersi palese l'intento del legislatore di
intervenire in questa materia sulla base della considerazione secondo cui
l'ampliamento dei casi di responsabilità di tali soggetti, se non
ragionevolmente limitata in senso oggettivo, è suscettibile di determinare un
rallentamento nell'efficacia e tempestività dell'azione amministrativa dei
pubblici poteri, per effetto dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe
ingenerare in coloro ai quali, in definitiva, è demandato l'esercizio
dell'attività amministrativa. D'altronde, a tale precipuo scopo risulta
preordinato lo stesso potere discrezionale del giudice contabile (c.d. "potere
riduttivo") di graduare la condanna sulla base della gravità della colpa, così
determinando il debito risarcitorio del convenuto (sentenze n. 184 e n. 183 del
2007). Ed allo stesso scopo è preordinata anche la limitazione della
responsabilità amministrativa ai casi di dolo o colpa grave (sentenze n. 453 e
n. 371 del 1998).
Sotto altro aspetto, deve pure osservarsi che, nella stessa ottica finalistica,
il legislatore - come emerge chiaramente dal tenore delle rispettive previsioni
normative - ha introdotto, anche in questo caso ex novo nel testo del
decreto-legge n. 78 del 2009, ulteriori disposizioni contenute nei commi 30-bis
e 30-quater. Esse perseguono lo scopo, da un lato, di attenuare il regime dei
controlli della Corte dei conti e, dall'altro lato, di limitare ulteriormente
l'area della gravità della colpa del dipendente incorso in responsabilità,
proprio all'evidente scopo di consentire un esercizio dell'attività di
amministrazione della cosa pubblica, oltre che più efficace ed efficiente, il
più possibile scevro da appesantimenti, ritenuti dal legislatore eccessivamente
onerosi, per chi è chiamato, appunto, a porla in essere.
In definitiva, dunque, la stessa ampiezza della disposizione della rubrica del
decreto-legge in questione, nonché il complessivo quadro legislativo che deriva
dalle originarie disposizioni della decretazione di urgenza e da quelle,
aggiuntive, contenute nella relativa legge di conversione, consentono di
ricondurre anche la norma ora in esame, limitativa della particolare forma di
responsabilità per i danni da lesione dell'immagine della pubblica
amministrazione, all'alveo dei meccanismi, previsti con il citato decreto-legge,
aventi lo scopo di introdurre nell'ordinamento misure dirette al superamento
della attuale crisi in cui versa il Paese.
9.- In più ordinanze di rimessione sono state formulate, sia pure con
argomentazioni non sempre coincidenti tra loro, censure volte a denunciare
l'asserita violazione dell'art. 3 Cost., in alcuni casi richiamato unitamente
all'art. 97 Cost.
Un primo gruppo di ordinanze ha prospettato la irragionevolezza della norma, sul
piano oggettivo, per avere il legislatore limitato il risarcimento del danno ai
soli casi in cui sia stato commesso un delitto contro la pubblica
amministrazione e non anche in presenza di condotte non delittuose altrettanto
gravi (reg. ord. n. 24, n. 27, n. 44 e n. 125 del 2010) ovvero in presenza di
reati diversi da quelli espressamente indicati (reg. ord. n. 26, n. 27 e n. 44
del 2010).
La questione non è fondata.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, rientra, infatti, nella
discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non manifesta
irragionevolezza e arbitrarietà della scelta, conformare le fattispecie di
responsabilità amministrativa, valutando le esigenze cui si ritiene di dover
fare fronte. Senza volere indagare in questa sede quale sia la effettiva natura
della responsabilità derivante dalla lesione del diritto all'immagine di un ente
pubblico, è indubbio che la responsabilità amministrativa, in generale, presenti
una peculiare connotazione, rispetto alle altre forme di responsabilità previste
dall'ordinamento, che deriva dalla accentuazione dei profili sanzionatori
rispetto a quelli risarcitori (sentenze n. 453 e n. 371 del 1998). In questa
prospettiva, il legislatore ha, tra l'altro, il potere di delimitare l'ambito di
rilevanza delle condotte perseguibili, stabilendo, «nella combinazione di
elementi restitutori e di deterrenza», quanto «del rischio
dell'attività debba restare a carico dell'apparato e quanto a carico del
dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per
dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità
ragione di stimolo, e non di disincentivo» (citata sentenza n. 371 del 1998).
Nel caso in esame, il legislatore ha ulteriormente delimitato, sul piano
oggettivo, gli ambiti di rilevanza del giudizio di responsabilità, ammettendo la
risarcibilità del danno per lesione dell'immagine dell'amministrazione soltanto
in presenza di un fatto che integri gli estremi di una particolare categoria di
delitti. La scelta di non estendere l'azione risarcitoria anche in presenza di
condotte non costituenti reato, ovvero costituenti un reato diverso da quelli
espressamente previsti, può essere considerata non manifestamente irragionevole.
Il legislatore ha ritenuto, infatti, nell'esercizio della predetta
discrezionalità, che soltanto in presenza di condotte illecite, che integrino
gli estremi di specifiche fattispecie delittuose, volte a tutelare, tra l'altro,
proprio il buon andamento, l'imparzialità e lo stesso prestigio
dell'amministrazione, possa essere proposta l'azione di risarcimento del danno
per lesione dell'immagine dell'ente pubblico. In altri termini, la
circostanza che il legislatore abbia inteso individuare esclusivamente quei
reati che contemplano la pubblica amministrazione quale soggetto passivo
concorre a rendere non manifestamente irragionevole la scelta legislativa in
esame.
In definitiva, pertanto, la particolare struttura e funzione della
responsabilità amministrativa, unitamente alla valutazione della specifica
natura del bene giuridico protetto dalle norme penali richiamate dalla
disposizione impugnata, rende non palesemente arbitraria la scelta con cui è
stato delimitato il campo di applicazione dell'azione risarcitoria esercitatile
dalla procura operante presso le sezioni della Corte dei conti.
10.- Le medesime ordinanze di rimessione prospettano, inoltre, la violazione
dell'art. 3 Cost., sul piano soggettivo, per la disparità di trattamento che la
norma censurata determinerebbe tra dipendenti e amministratori dell'ente
pubblico, questi ultimi esclusi dall'ambito applicativo della norma per effetto
del richiamo, da parte della disposizione impugnata, all'art. 7 della legge n.
97 del 2001, il quale ammette il risarcimento del danno all'immagine
dell'amministrazione per i soli dipendenti di questa (reg. ord. n. 25, n. 26, n.
27 e n. 125 del 2010). Altro profilo di violazione dell'art. 3 Cost. per
asserita disparità di trattamento è dedotto con riferimento alle posizioni dei
dipendenti, da un lato, e delle persone giuridiche, dall'altro (reg. ord. n. 24
del 2010), o tra la pubblica amministrazione e altri soggetti dell'ordinamento,
«in quanto il deterioramento dell'immagine della prima non è sanzionato se non
in casi limite» rappresentati «dalla commissione di gravi
delitti, mentre quello dei secondi è ben tutelato in tutti i casi di commissione
di illecito di non rilievo penale» (reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010; in analogo
senso reg. ord. n. 125 del 2010).
Le questioni prospettate sono in parte inammissibili e in parte non fondate.
È, innanzi tutto, inammissibile quella relativa alla dedotta disparità di
trattamento tra dipendenti dell'ente pubblico, contemplati espressamente dalla
norma (art. 7 della legge n. 97 del 2001) cui fa rinvio la disposizione
impugnata, e gli amministratori dell'ente stesso cui, invece, le due
disposizioni non fanno riferimento. Ciò in quanto, prescindendo dalla
condivisibilità o meno dell'interpretazione proposta da alcuni dei remittenti
(comunque rimessa ai giudici competenti) che esclude gli amministratori pubblici
dalla sfera di applicazione della norma in esame, in nessuna delle ordinanze di
remissione, che propongono la questione, i giudici a quibus si sono posti il
problema del tipo di responsabilità per danni arrecati dagli amministratori
dell'ente per violazione dell'immagine di quest'ultimo e, conseguentemente,
dell'autorità giudiziaria eventualmente competente a conoscere della correlata
vicenda contenziosa. Essi, infatti, avrebbero dovuto esplorare la percorribilità
di soluzioni costituzionalmente orientate, prima di sollevare la questione di
costituzionalità della norma ora impugnata.
Quanto poi alle restanti censure relative alla presunta disparità di trattamento
tra la situazione giuridica del dipendente, da un lato, e quelle delle persone
giuridiche private e pubbliche, dall'altro, deve rilevarsene la non fondatezza,
attesa la eterogeneità delle situazioni poste a confronto.
11.- Ancora con riferimento all'art. 3 Cost., deve essere esaminata la censura
con cui alcuni remittenti deducono, da un lato, la irragionevolezza derivante
dall'inserimento di una norma, che comporta un maggiore esborso economico, in un
testo legislativo che persegue, quale principale finalità, quella di adottare
misure idonee a fronteggiare l'attuale crisi economica (reg. ord. n. 24, 44 e
125 del 2010), nonché, dall'altro, la mancata valutazione, nel corso della
«brevissima discussione» svolta in sede di conversione, della portata e delle
conseguenze che sarebbero derivate dalla sua applicazione; né sarebbero emerse
esigenze di natura finanziaria o di interesse pubblico idonee a giustificare la
introduzione nel sistema della norma censurata (reg. ord. n. 25 e n. 26 del
2010).
Tali questioni non sono fondate.
A prescindere da valutazioni, sulle quali si ritornerà tra breve, circa la
correttezza dell'assunto secondo cui la norma censurata comporterebbe una
maggiore spesa per la pubblica amministrazione, deve ritenersi, in relazione
alla prima questione, come non possa considerarsi manifestamente irragionevole
il precetto normativo in esame, almeno avendo riguardo alla peculiarietà della
vicenda oggetto del presente giudizio.
Con riferimento poi alla seconda doglianza, è sufficiente rilevare come non
occorra che gli atti legislativi contengano una motivazione, ovvero che questa
comunque risulti dal loro iter di approvazione, circa le esigenze che è
necessario assicurare, essendo sufficiente che la norma stessa non sia viziata
da palese irragionevolezza o arbitrarietà.
12.- Infine, è destituita di fondamento la ulteriore censura, prospettata
anch'essa con riferimento all'art. 3 Cost., con cui si lamenta che la
disposizione in esame comporterebbe una evidente disparità di trattamento tra
dipendenti dell'ente pubblico che, avendo commesso uno dei delitti contro la
pubblica amministrazione, sono sottoposti alla giurisdizione contabile, e
dipendenti che, pur avendo commesso un altro delitto con abuso delle funzioni
ricoperte e nell'esercizio delle stesse, «sono sottoposti, per il risarcimento
del danno all'immagine, alla giurisdizione ordinaria, con un differente regime
processuale e prescrizionale» (reg. ord. n. 44 del 2010).
A tale riguardo, è sufficiente richiamare quanto già sopra precisato (punto 6)
in ordine alla definizione del campo di applicazione della norma e, in
particolare, ai limiti con i quali tale tipologia di responsabilità è stata
configurata dal legislatore e alla esclusione di forme di concorrenza di altre
giurisdizioni in relazione a fattispecie diverse da quelle contemplate dalla
norma stessa.
13.- Sotto altro aspetto taluni giudici remittenti assumono la violazione
dell'art. 2 Cost., in un caso evocato unitamente all'art. 24 Cost. (reg. ord. n.
24 del 2010), in quanto tale norma, da leggere in combinato disposto con l'art.
2059 del codice civile (reg. ord. n. 125 del 2010), imporrebbe una tutela piena,
e non limitata, come nel caso in esame, dei diritti della personalità, tra i
quali deve essere ricompreso quello all'immagine della pubblica amministrazione
(reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 125 del 2010).
La questione non è fondata.
La tutela dei diritti della persona ha conosciuto negli ultimi anni una
complessa evoluzione, con particolare riferimento alla portata e all'ampiezza
del risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla loro lesione.
Come è noto, nelle prime interpretazioni che sono state fornite dell'art. 2059
cod. civ. - nella parte in cui prevede tale forma di risarcimento soltanto nei
casi previsti dalla legge - si riteneva che la legge richiamata fosse
esclusivamente quella penale. In questa prospettiva, diretta a valorizzare il
profilo sanzionatorio del danno non patrimoniale - inteso come danno morale
subiettivo (sentenza n. 184 del 1986) - era, pertanto, necessario che la
condotta posta in essere integrasse gli estremi di un fatto penalmente illecito.
La successiva giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 233 del 2003) e anche
della Corte di cassazione (Cass., Sezioni unite, sentenza 11 novembre 2008, n.
26972) - dopo avere spostato il centro dell'analisi sul danneggiato, e dunque
sui profili restitutori, e dopo avere identificato l'esatta natura del danno non
patrimoniale come avulsa da qualunque forma di rigidità dommatica legata
all'impiego di etichette o fuorvianti qualificazioni - ha allargato le maglie
del risarcimento del danno non patrimoniale, affermando che esso deve essere
riconosciuto, fermo restando la sussistenza di tutti gli altri requisiti
richiesti ai fini del perfezionamento della fattispecie illecita, oltre che nei
casi specificamente previsti dal legislatore, quando viene leso un diritto della
persona costituzionalmente tutelato. In definitiva, l'attuale sistema della
responsabilità civile per danni alla persona, fondandosi sulla risarcibilità del
danno patrimoniale ex art. 2043 cod. civ. e non
patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., è, pertanto, essenzialmente un sistema
bipolare. La Corte di cassazione, riconducendo ad organicità tale sistema, ha,
inoltre, elaborato taluni criteri, legati alla gravità della lesione, idonei a
selezionare l'area dei danni effettivamente risarcibili (citata sentenza n.
26972 del 2008). Di significativo rilievo, in particolare, sono le
considerazioni che le Sezioni unite hanno espresso in ordine al fatto: che la
lesione deve riguardare un interesse di rilievo costituzionale; l'offesa deve
essere grave, nel senso che deve superare una soglia minima di tollerabilità; il
danno deve essere risarcito quando non sia futile, vale a dire riconducibile a
mero disagio o fastidio.
Inoltre, per quanto attiene specificamente alla responsabilità per violazione
dell'immagine dell'ente pubblico, deve rilevarsi, in linea con quanto affermato
dalla Cassazione con la stessa sentenza n. 26792 del 2008, che il relativo
danno, in ragione della natura della situazione giuridica lesa, ha valenza non
patrimoniale e trova la sua fonte di disciplina nell'art. 2059 cod. civ. D'altra
parte, il riferimento, contenuto nella giurisprudenza della Corte dei conti,
alla patrimonialità del danno stesso - in ragione della spesa necessaria per il
ripristino dell'immagine dell'ente pubblico - deve essere inteso come attinente
alla quantificazione monetaria del pregiudizio subito e non alla individuazione
della natura giuridica di esso.
Né può ritenersi che l'inquadramento della responsabilità per la lesione del
diritto all'immagine dell'ente pubblico nell'ambito della responsabilità
amministrativa, devoluta alla giurisdizione contabile della Corte dei conti,
possa condurre ad una diversa qualificazione della peculiare forma di
responsabilità disciplinata dalla norma ora censurata.
Nondimeno, deve rilevarsi che la responsabilità amministrativa presenta, per le
ragioni già esposte, una struttura ed una funzione diverse da quelle che
connotano la comune responsabilità civile. Non si può, pertanto, lamentare, come
fanno taluni giudici a quibus, la violazione dell'art. 2 Cost., evocando
l'elaborazione giurisprudenziale che ha avuto riguardo a tale forma di
responsabilità per violazione di diritti costituzionalmente protetti della
persona umana.
Identificato, infatti, il danno derivante dalla lesione del diritto all'immagine
della p.a. nel pregiudizio recato alla rappresentazione che essa ha di sé in
conformità al modello delineato dall'art. 97 Cost., è sostanzialmente questa
norma costituzionale ad offrire fondamento alla rilevanza di tale diritto.
Né varrebbe richiamare, data la specialità della relativa norma e la ratio che
ne ha giustificato l'introduzione nel sistema, quanto stabilito dall'art. 69 del
decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo
2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico
e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), il quale
riconosce la possibilità, ricorrendo i presupposti specificamente ivi
contemplati, di condannare il dipendente al risarcimento dei danni all'immagine
subiti dall'amministrazione di appartenenza in conseguenza di sue assenze
ingiustificate dal lavoro.
Quanto esposto non significa che non sia possibile riconoscere l'esistenza di
diritti "propri" degli enti pubblici e conseguentemente ammettere forme
peculiari di risarcimento del danno non patrimoniale nel caso in cui i suddetti
diritti vengano violati. Ma tale riconoscimento deve necessariamente tenere
conto della peculiarità del soggetto tutelato e della conseguente diversità
dell'oggetto di tutela, rappresentato dall'esigenza di assicurare il prestigio,
la credibilità e il corretto funzionamento degli uffici della pubblica
amministrazione (sentenza n. 172 del 2005). In questa prospettiva, non è
manifestamente irragionevole ipotizzare differenziazioni di tutele, che si
possono attuare a livello legislativo, anche mediante forme di protezione
dell'immagine dell'amministrazione pubblica a fronte di condotte dei dipendenti,
specificamente tipizzate, meno pregnanti rispetto a quelle assicurate alla
persona fisica.
Sulla base delle suindicate considerazioni, la norma censurata non può ritenersi
in contrasto con l'art. 2 Cost., in quanto la peculiarità del diritto
all'immagine della pubblica amministrazione, unitamente all'esigenza di
costruire un sistema di responsabilità amministrativa in grado di coniugare le
diverse finalità prima richiamate, può giustificare una altrettanto particolare
modulazione delle rispettive forme di tutela.
14.- Secondo taluni giudici remittenti, sarebbe violato, altresì, l'art. 24
Cost., in quanto la previsione contenuta nella disposizione censurata si
risolverebbe in una limitazione del diritto della pubblica amministrazione di
agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi (reg. ord. n. 44 e n.
145 del 2010). Tale parametro costituzionale viene evocato, in alcune ordinanze
(reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 27 del 2010), unitamente all'art. 113 Cost., che
non ammette «alcuna limitazione alla tutela giurisdizionale di diritti ed
interessi legittimi in materia di funzione amministrativa». Secondo, poi,
l'ordinanza n. 125 del 2010, l'art. 24 Cost. sarebbe violato, in quanto
«l'irrazionale e macchinoso "doppio binario"» (giudice contabile, ricorrendo i
presupposti previsti dalla norma censurata, e giudice ordinario negli altri
casi) inciderebbe sulla legittimazione ad agire del pubblico ministero, «con una
presumibile minore tutela dell'erario, in carenza di un organo dotato
di strumenti di indagine e poteri istruttori di cui gli ordinari uffici pubblici
certo non possono disporre».
La questione non è fondata.
La giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che la garanzia
apprestata dall'art. 24 Cost. «opera attribuendo la tutela processuale delle
situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui queste risultano
riconosciute dal legislatore; di modo che quella garanzia trova confini nel
contenuto del diritto al quale serve, e si modella sui concreti lineamenti che
il diritto riceve dall'ordinamento» (ex multis, sentenze n. 453 e n. 327 del
1998). Pertanto, una volta ritenuto che sia esente dai prospettati vizi di
costituzionalità la configurazione ricevuta, nel caso in esame, dalla specifica
situazione giuridica qui in rilievo, non è ravvisabile alcun vulnus alle
conseguenti modalità di tutela processuale.
Per analoghe ragioni non è fondata la censura riferita all'art. 113 Cost.
15.- La lesione del quarto comma dell'art. 81 Cost. ad opera della norma
censurata è prospettata da taluni giudici a quibus, in quanto non sarebbe stata
prevista alcuna copertura finanziaria «della minore entrata imposta agli enti
pubblici a causa del mancato recupero dei danni provocati alle loro finanze di
natura derivata» (in particolare, reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010).
Anche tale questione non è fondata.
La norma costituzionale evocata, prevedendo che la «legge che importi nuove o
maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte», è, nella specie,
inconferente, in quanto l'art. 81 Cost. «attiene ai limiti al cui rispetto è
vincolato il legislatore ordinario nella sua politica finanziaria, ma non
concerne le scelte che il medesimo compie nel ben diverso ambito della
disciplina della responsabilità amministrativa» (sentenze numeri 371 e 327 del
1998).
In ogni caso non può ritenersi che una astratta limitazione del risarcimento del
danno spettante alla pubblica amministrazione, determinando una possibile minore
entrata, comporti «nuove o maggiori spese». In altri termini, non è possibile
porre una equiparazione fra «nuova o maggiore spesa» ed il mancato risarcimento
di danni cagionati ad una pubblica amministrazione (sentenza n. 46 del 2008).
Del resto, non potendosi procedere alla quantificazione delle minori entrate,
essendo tale diminuzione eventuale e comunque connessa a variabili concrete non
determinabili a priori, non sarebbe neanche possibile, come sottolineato
dall'Avvocatura generale dello Stato nelle sue difese, prevedere la necessaria
copertura finanziaria.
16.- Alcune ordinanze di remissione evocano, sia pure sotto diversi angoli
prospettici, talora in connessione con l'art. 54, l'art. 97 Cost. per lamentarne
la violazione. In particolare, si osserva che, sebbene il buon andamento e
l'imparzialità non costituiscano il «fondamento costituzionale della tutela
dell'immagine pubblica», la «stretta relazione tra l'immagine pubblica e l'agire
corretto» e la circostanza che essi costituiscono «criteri cui deve essere
improntata l'azione amministrativa affinché il prestigio pubblico non venga
leso», comportano che «una ridotta tutela della prima inevitabilmente
indebolisce il diritto sostanziale dell'amministrazione ad agire, attraverso i
propri funzionari, in modo corretto, imparziale, efficace ed efficiente» (reg.
ord. n. 24 del 2010). In altre ordinanze si assume che la norma impugnata violi
l'evocato parametro costituzionale in quanto: a) «determina un'alterazione della
funzionalità degli enti pubblici sotto il delicato profilo
della reputazione e della conseguente fiducia dei cittadini nei confronti delle
istituzioni» (reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010); b) «contraddice» il principio
di imparzialità «che si risolve essenzialmente nel rispetto della giustizia
sostanziale» e per « gli evidenti effetti distorsivi che ciò comporta
sull'organizzazione della pubblica amministrazione sotto il duplice profilo
della ridotta potenzialità operativa ed efficienza nella cura dell'interesse
pubblico» (reg. ord. n. 145 del 2010); c) favorisce «l'irresponsabilità dei
dipendenti pubblici, non più soggetti al giudizio di responsabilità innanzi alla
Corte dei conti in caso di comportamenti illeciti causativi di danno
all'immagine dell'ente di riferimento al di fuori delle ipotesi di reato» (reg.
ord. n. 125 del 2010); d) da un lato, «indebolisce l'efficacia deterrente del
giudizio di responsabilità; dall'altro, come nella presente fattispecie ed in
ipotesi similari, comporta il dispendio di maggiori risorse a
carico dell'erario per l'attivazione di plurimi giudizi volti ad ottenere
l'"integrale" risarcimento del danno all'immagine, pur essendo state poste in
essere condotte da parte di un pubblico dipendente in un unico contesto
criminoso, integranti sia le ipotesi delittuose di cui al capo I del titolo II
del libro II del codice penale che altre fattispecie delittuose» (reg. ord. n.
44 del 2010).
Anche tali questioni non sono fondate.
L'art. 97 Cost. impone la costruzione, sul piano legislativo, di un modello di
pubblica amministrazione che ispiri costantemente la sua azione al rispetto dei
principi generali di efficacia, efficienza e imparzialità. Si tratta di regole
che conformano, all'"interno", le modalità di svolgimento dell'attività
amministrativa.
È indubbio come sussista una stretta connessione tra la tutela dell'immagine
della pubblica amministrazione e il rispetto del suddetto precetto
costituzionale. Può ritenersi, infatti, che l'autorità pubblica sia titolare di
un diritto "personale" rappresentato dall'immagine che i consociati abbiano
delle modalità di azione conforme ai canoni del buon andamento e
dell'imparzialità. Tale relazione tendenzialmente esistente tra le regole
"interne", improntate al rispetto dei predetti canoni, e la proiezione "esterna"
di esse, giustifica il riconoscimento, in capo all'amministrazione, di una
tutela risarcitoria.
Il legislatore, nell'esercizio non manifestamente irragionevole della sua
discrezionalità, ha ritenuto che tale tutela sia adeguatamente assicurata
mediante il riconoscimento del risarcimento del danno soltanto in presenza di
condotte che integrino gli estremi di fatti di reato che tendono proprio a
tutelare, tra l'altro, il buon andamento e l'imparzialità dell'azione
amministrativa. In altri termini, il legislatore ha inteso riconoscere la tutela
risarcitoria nei casi in cui il dipendente pubblico ponga in essere condotte
che, incidendo negativamente sulle stesse regole, di rilevanza costituzionale,
di funzionamento dell'attività amministrativa, sono suscettibili di recare un
vulnus all'immagine dell'amministrazione, intesa, come già sottolineato, quale
percezione esterna che i consociati hanno del modello di azione pubblica sopra
descritto.
Sotto altro profilo, neppure può ritenersi che una modulazione del giudizio di
responsabilità, che tenga conto dei diversi interessi in gioco, possa in qualche
modo incidere negativamente sulle regole di efficienza, efficacia e imparzialità
dell'azione amministrativa.
17.- In alcune ordinanze si assume anche la violazione dell'art. 103, secondo
comma, Cost., in quanto non sarebbe consentito «escludere apoditticamente la
giurisdizione della Corte dei conti con riferimento ad ipotesi specifiche di
responsabilità rientranti tradizionalmente e genericamente nella materia della
contabilità pubblica» (reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 27 del 2010). Si assume,
inoltre, la violazione del primo comma dell'art. 25 Cost., non essendo possibile
distogliere la controversia dal giudice naturale «successivamente al verificarsi
del fatto generatore, sia nel senso di attribuzione ad altro organo giudiziario
che di esclusione di ogni forma di giurisdizione» (reg. ord. n. 25 del 2010;
reg. ord. n. 24 e n. 125 del 2010, ove si evocano, contestualmente, gli artt.
125 e 103 Cost.).
La questione non è fondata.
Il secondo comma dell'art. 103 Cost. prevede che la Corte dei conti ha
giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate
dalla legge.
La giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che «la puntuale
attribuzione della giurisdizione in relazione alle diverse fattispecie di
responsabilità amministrativa», non operando automaticamente in base al disposto
costituzionale, è rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario (da
ultimo sentenza n. 46 del 2008).
Nel caso in esame va osservato - come si è già chiarito - che il legislatore non
ha neanche inteso attribuire la cognizione di talune fattispecie di
responsabilità amministrativa ad una diversa autorità giudiziaria, essendosi
limitato a conformare, su un piano sostanziale, la disciplina di un particolare
profilo della responsabilità amministrativa dei pubblici dipendenti (sentenza n.
371 del 1998).
Per quanto attiene, poi, all'asserita violazione dell'art. 25 Cost., é
sufficiente rilevare come non sia la Corte dei conti «il giudice naturale della
tutela degli interessi pubblici e della tutela da danni pubblici» (sentenza n.
641 del 1987). A ciò si aggiunga che, nel caso in esame, il legislatore ha
ridefinito i contorni, sul piano sostanziale ed oggettivo, della responsabilità
amministrativa, escludendo la possibilità di proporre l'azione risarcitoria in
mancanza degli elementi indicati dalla norma censurata, senza incidere in alcun
modo sulle modalità di individuazione del giudice competente.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibile l'intervento in giudizio dei signori G.A.N., P.G., G.B.,
G.G., R.R.;
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell'articolo 17, comma 30-ter, periodi secondo, terzo e quarto, del
decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di
termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come
modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera c), numero 1, del decreto-legge 3
agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78
del 2009), convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141,
sollevate, in riferimento, da un lato, nel complesso, agli artt. 3, 24, primo
comma, 54, 81, quarto comma, 97, primo comma, 103, secondo comma, e 111 della
Costituzione, dall'altro, agli artt. 3, 24, 25 e 97 Cost., rispettivamente dalla
Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Umbria e dalla Corte dei
conti, sezione prima giurisdizionale centrale d'appello, con le ordinanze,
indicate in epigrafe, iscritte al n. 331 del 2009 e al n. 162 del
2010 del registro ordinanze;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del
predetto art. 17, comma 30-ter, quarto periodo, del decreto-legge n. 78 del
2009, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 111 Cost., dalla Corte
dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, con l'ordinanza,
indicata in epigrafe, iscritta al n. 95 del 2010;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del
predetto art. 17, comma 30-ter, quarto periodo, del decreto-legge n. 78 del
2009, sollevata, in riferimento nel complesso agli artt. 3, 24, 103 Cost., dalla
Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, con
l'ordinanza, indicata in epigrafe, iscritta al n. 27 del 2010;
4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del
predetto art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, del decreto-legge n. 78
del 2009, sollevate, in riferimento all'art. 3 Cost., sotto il profilo della
disparità di trattamento tra dipendenti dell'ente pubblico ed amministratori
dello stesso, dalla Corte dei conti, sezioni giurisdizionali per la Campania e
per la Lombardia, con le ordinanze, indicate in epigrafe, iscritte
rispettivamente ai numeri 25, 26 e 27 del 2010 ed al n. 125 del 2010.
5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del predetto
art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, del decreto-legge n. 78 del
2009, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 54, 77, 81, 97, 103, e
113 Cost., dalla Corte dei conti, sezioni giurisdizionali per le Regioni
Calabria, Campania, Lombardia e Toscana, nonché dalla sezione giurisdizionale
per la Regione siciliana, con le ordinanze, indicate in epigrafe, iscritte
rispettivamente ai numeri 24, 25, 26, 27, 125 e 145 del 2010 ed al n. 44 del
2010.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, l'1 dicembre 2010.