"Sindaci sceriffi" contro accattonaggio e prostituzione: la Consulta cancella
le norme
SENTENZA N. 115
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO
Presidente
- Paolo
MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO
”
- Alfonso
QUARANTA ”
- Franco
GALLO ”
- Luigi MAZZELLA
”
- Gaetano
SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE
”
- Giuseppe TESAURO
”
- Paolo Maria
NAPOLITANO ”
- Giuseppe
FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO
”
- Paolo
GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI
”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267, come sostituito dall’art. 6 del
decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza
pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24
luglio 2008, n. 125, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il
Veneto, nel procedimento vertente tra l’associazione «Razzismo Stop» onlus e il
Comune di Selvazzano Dentro ed altri, con ordinanza del 22 marzo 2010, iscritta
al n. 191 del registro ordinanze 2010, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti l’atto di costituzione della associazione «Razzismo Stop» onlus, nonché
l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2011 il Giudice relatore Gaetano
Silvestri;
uditi gli avvocati Francesco Caffarelli per l’associazione «Razzismo Stop» onlus
e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, con ordinanza del 22
marzo 2010, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 5, 6, 8, 13, 16, 17,
18, 21, 23, 24, 41, 49, 70, 76, 77, 97, 113, 117 e 118 della Costituzione –
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali), come sostituito dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio
2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella
parte in cui consente che il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotti
provvedimenti a «contenuto normativo ed efficacia a tempo indeterminato», al
fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minaccino la sicurezza
urbana, anche fuori dai casi di contingibilità e urgenza.
In particolare, la norma indicata sarebbe illegittima «nella parte in cui ha
inserito la congiunzione “anche” prima delle parole “contingibili e urgenti”».
Nel giudizio principale è censurato un provvedimento sindacale con il quale si è
fatto divieto di «accattonaggio» in vaste zone del territorio comunale,
prevedendo, per i trasgressori, una sanzione amministrativa pecuniaria, con
possibilità di pagamento in misura ridotta solo per le prime due violazioni
accertate. Oggetto del divieto, in particolare, è la richiesta di denaro in
luoghi pubblici, effettuata «anche» in forma petulante e molesta, di talché il
provvedimento sindacale si estende, secondo il rimettente, alle forme di
mendicità non «invasiva o molesta».
1.1. – Il giudizio a quo è stato introdotto dal ricorso di una associazione
onlus denominata «Razzismo Stop», che ha dedotto molteplici vizi del
provvedimento impugnato. Tale provvedimento sarebbe stato deliberato, anzitutto,
in violazione del principio di proporzionalità, nonché dell’art. 54, comma 4,
del d.lgs. n. 267 del 2000 e dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241
(Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso
ai documenti amministrativi). In particolare, non risulterebbe allegato e
documentato alcun grave pericolo per l’incolumità pubblica e la sicurezza
urbana, e non sussisterebbero quindi, nel caso concreto, le necessarie
condizioni di contingibilità e urgenza. L’atto impugnato sarebbe illegittimo
anche in forza della sua efficacia a tempo indeterminato, incompatibile,
appunto, con i limiti propri delle ordinanze contingibili e urgenti.
Farebbero inoltre difetto, nella specie, i requisiti di proporzionalità e
coerenza, posto che almeno il divieto di mendicità «non invasiva» contrasterebbe
con le «statuizioni» della sentenza della Corte costituzionale n. 519 del 1995
(dichiarativa della parziale illegittimità dell’art. 670 del codice penale) e
con le indicazioni recate dal decreto ministeriale 5 agosto 2008 (deliberato dal
Ministro dell’interno a norma del comma 4-bis dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del
2000), che si riferiscono solo a forme di mendicità moleste, o attuate mediante
lo sfruttamento di minori o disabili.
La previsione della confisca del denaro versato in violazione del divieto, a
titolo di sanzione accessoria, avrebbe derogato alle norme del codice civile in
materia di donazione ed ai criteri di proporzionalità e pari trattamento.
Inoltre sarebbe illegittima, sempre secondo l’associazione ricorrente, la deroga
alle disposizioni ordinarie in materia di ammissione al pagamento in misura
ridotta per le infrazioni amministrative (art. 18 della legge 24 novembre 1981,
n. 689, recante «Modifiche al sistema penale»).
1.2. – Il Comune interessato, secondo quanto riferito dal Tribunale rimettente,
si è costituito nel giudizio amministrativo, chiedendo fosse dichiarata
l’inammissibilità del ricorso. L’eccezione è stata respinta dal giudice adito
con provvedimento del 4 marzo 2010, mentre è stata accolta la domanda, proposta
dalla ricorrente, per una sospensione cautelare degli effetti del provvedimento
impugnato.
1.3. – Il giudice a quo osserva preliminarmente, in punto di rilevanza della
questione, che sussiste la legittimazione al ricorso dell’associazione «Razzismo
Stop», la quale risulta da lungo tempo impegnata, anche nello specifico ambito
territoriale, in azioni mirate allo sviluppo dei diritti umani e civili, della
solidarietà nei confronti degli indigenti e della integrazione in favore degli
stranieri. La stessa associazione, inoltre, è iscritta all’elenco ed al registro
previsti rispettivamente dagli artt. 5 e 6 del decreto legislativo 9 luglio
2003, n. 215 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento
tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica).
Il rimettente evidenzia, in particolare, che le associazioni iscritte in un
apposito elenco (approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche
sociali e del Ministro per le pari opportunità) sono legittimate ad agire, anche
in assenza di specifiche deleghe, nei casi di discriminazione collettiva,
qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone offese
dal comportamento discriminatorio. La ricorrente è poi iscritta nel registro,
istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per le
pari opportunità, delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel
campo della lotta alle discriminazioni e della promozione della parità di
trattamento, e che rispondono a determinate caratteristiche di stabilità ed
affidabilità.
La pertinenza del provvedimento impugnato al tema della discriminazione su base
razziale, nella prospettazione del rimettente, deriva dal chiaro rapporto tra
«accattonaggio», povertà ed esclusione sociale, e dal rischio elevato che in
tali condizioni si trovino persone nomadi o migranti, appartenenti a gruppi
etnici minoritari. D’altro canto – prosegue il Tribunale – la legge sanziona
anche la discriminazione esercitata in forma indiretta, e cioè i casi nei quali
«una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento
apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od
origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre
persone» (art. 2, comma 1, lettera b, del d.lgs. n. 215 del 2003). Esattamente
quel che accadrebbe nella specie, ove un divieto, pure formalmente riferibile
alla generalità dei dimoranti nel territorio comunale interessato, avrebbe
assunto specifico e particolare rilievo per gli
appartenenti a minoranze etniche ed a gruppi di migranti.
Ciò premesso, il rimettente valuta che sussistano l’interesse e la
legittimazione ad agire della onlus «Razzismo Stop», posta l’integrazione, nel
caso concreto, dei criteri elaborati dalla stessa giurisprudenza amministrativa
(posizione dell’ente quale stabile punto di riferimento del gruppo portatore
dell’interesse pregiudicato, corrispondenza della tutela di detto interesse alle
finalità annoverate nello statuto della formazione, collegamento specifico e non
occasionale con l’ambito territoriale interessato dalla lesione denunciata).
La natura fondamentale del diritto eventualmente violato, e la previsione ad
opera della legge di una specifica azione civile contro gli atti discriminatori
(art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante «Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero»), non varrebbero ad escludere, sotto un diverso
profilo, l’ammissibilità del ricorso al giudice amministrativo. Questi può
infatti conoscere vizi dell’atto che risultino pertinenti alla lesione di
diritti fondamentali della persona (è citata, tra l’altro, la sentenza della
Corte costituzionale n. 140 del 2007). Al tempo stesso, la disponibilità di un
mezzo specifico di tutela contro i fatti di discriminazione non potrebbe inibire
il ricorso agli ordinari strumenti di garanzia nei confronti della pubblica
amministrazione.
1.4. – Il Tribunale amministrativo del Veneto osserva, sempre in punto di
rilevanza della questione, come le censure della ricorrente siano
prevalentemente costruite sulla carenza delle condizioni di contingibilità ed
urgenza per l’adozione del provvedimento impugnato. Il Comune resistente, dal
canto proprio, ha rivendicato la legittimazione del sindaco ad emettere
ordinanze ad efficacia non limitata nel tempo, evidenziando il contenuto
innovativo della disposizione applicata, che consente ormai l’adozione di
ordinanze «anche» contingibili e urgenti, e dunque non solo di provvedimenti
destinati a regolare situazioni transitorie od eccezionali.
Il giudice a quo ritiene che, in ragione dell’attuale sua formulazione, la norma
censurata conferisca effettivamente al sindaco, in assenza di elementi utili a
delimitarne la discrezionalità, un potere normativo vasto e indeterminato,
idoneo ad esplicarsi in deroga alle norme di legge ed all’assetto vigente delle
competenze amministrative, semplicemente in forza del dichiarato orientamento a
fini di protezione della sicurezza urbana. Proprio tale potere sarebbe stato
esercitato nella specie, fuori da concrete condizioni di contingibilità e
urgenza, cosicché l’accoglimento della questione sollevata esplicherebbe sicuri
effetti sulla decisione del ricorso.
1.5. – A parere del rimettente la portata della norma oggetto di censura non
sarebbe suscettibile di un’interpretazione restrittiva, che valga a recuperarne
la compatibilità con i parametri costituzionali evocati.
Sarebbe inequivoco, in particolare, il significato letterale e logico che alla
norma deriva dall’inserimento della congiunzione «anche», tale appunto da
estendere la competenza sindacale a provvedimenti non contingibili e urgenti.
Detto inserimento non potrebbe d’altra parte definirsi casuale o «involontario»,
dato che deriva dall’approvazione di uno specifico emendamento del Governo nel
corso dei lavori parlamentari per la conversione del decreto-legge n. 92 del
2008.
La possibilità per il sindaco di adottare provvedimenti efficaci a tempo
indeterminato sull’intero territorio comunale conferirebbe alle «nuove»
ordinanze una marcata valenza normativa, indipendentemente dalla formale
persistenza dell’obbligo di motivazione, che la legge del resto esclude per gli
atti normativi e quelli a contenuto generale (è citato il comma 2 dell’art. 3
della legge n. 241 del 1990).
Non potrebbe d’altro canto condividersi l’orientamento restrittivo che, muovendo
dalla perdurante necessità di osservanza dei principi generali dell’ordinamento,
include tra detti principi quello della tipicità e della conformità alla legge
degli atti amministrativi, della riserva di legge e della competenza. La
soluzione, nella sua attitudine ad escludere ogni iniziativa extra ordinem del
sindaco, «anche» per i casi di contingibilità e urgenza, finirebbe col
sopprimere una risorsa tradizionale e indispensabile allo scopo di fronteggiare
gravi pericoli che incombano sulla sicurezza dei cittadini e non siano
governabili mediante gli strumenti ordinari.
La Corte costituzionale, già chiamata a valutare in diversa prospettiva la
legittimità della norma censurata, avrebbe riconosciuto la portata
essenzialmente normativa dei nuovi poteri conferiti al sindaco, là dove ha
evidenziato la possibilità che questi emani anche «provvedimenti di ordinaria
amministrazione a tutela di esigenze di incolumità pubblica e sicurezza urbana»
(è citata la sentenza n. 196 del 2009).
Il rimettente ricorda come la stessa Corte, pronunciando sulla norma concernente
i poteri di ordinanza del prefetto (art. 2 del regio decreto 18 giugno 1931, n.
773, recante «Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza»),
abbia dapprima optato per una sentenza interpretativa di rigetto, in base
all’assunto che detta norma non conferisse il potere di emanare provvedimenti ad
efficacia illimitata nel tempo (sentenza n. 8 del 1956). Qualche anno dopo,
tuttavia, la Corte ha constatato il perdurare della prassi prefettizia di
adottare ordinanze a carattere permanente, e per tale ragione si è determinata
ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale della norma
censurata (sentenza n. 26 del 1961).
Il Tribunale assume che un fenomeno analogo segnerebbe le «nuove» ordinanze
sindacali, posto che numerosi provvedimenti sono stati deliberati, in
applicazione del comma 4 dell’art. 54, con il più vario oggetto, spesso
imponendo divieti od obblighi di tenere comportamenti significativi sul piano
religioso o su quello delle tradizioni etniche. Una «interpretazione
adeguatrice» risulterebbe quindi «impraticabile», a fronte di una realtà che
vede esercitare in modo incontrollato poteri di normazione, secondo le opzioni
politiche individuali dei sindaci, su materie inerenti ai diritti ed alle
libertà fondamentali.
1.6. – Nel merito, secondo il rimettente, la disposizione oggetto di censura,
interpretata come impone la presenza della congiunzione «anche» prima delle
parole «contingibili e urgenti», contrasterebbe con i principi costituzionali di
legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità, enucleabili dagli
artt. 23, 97, 70, 76, 77 e 117 Cost. (sono citate, quali decisioni della Corte
costituzionale che avrebbero «chiaramente sancito» il rilievo costituzionale dei
principi richiamati, le sentenze n. 8 del 1956, n. 26 del 1961, n. 4 del 1977 e
n. 201 del 1987).
Contingibilità e urgenza, infatti, dovrebbero rappresentare «presupposto,
condizione e limite» per una disciplina che consenta il superamento, sia pure
nell’ambito dei principi generali dell’ordinamento, delle disposizioni vigenti
in rapporto ad una determinata materia, e che attribuisca un potere siffatto «in
capo ad un organo monocratico, in luogo di quello ordinariamente deputato». Per
tale ragione, le norme in materia di ordinanze dovrebbero assicurare
indefettibilmente il contenuto provvedimentale delle medesime, in rapporto
all’obbligo di motivazione e all’efficacia nel tempo.
Anche nel caso di provvedimenti a contenuto normativo – prosegue il rimettente –
non sarebbe consentita alcuna funzione innovativa del diritto oggettivo, ma solo
una funzione di deroga, in via eccezionale e provvisoria, alle norme ordinarie.
La disposizione censurata, invece, avrebbe disegnato una vera e propria fonte
normativa, libera nel contenuto ed equiparata alla legge, così violando tutte le
regole costituzionali che riservano alle assemblee legislative il compito di
emanare atti aventi forza e valore di legge (artt. 23 e 97, nonché artt. 70, 76,
77 e 117 Cost.).
1.7. – Il comma 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, a parere del giudice
a quo, viola anche la riserva di legge ed il principio di legalità sostanziale
in materia di sanzioni amministrative (artt. 3, 23 e 97 Cost.).
L’art. 23 Cost., in particolare, stabilisce che le prestazioni personali e
patrimoniali sono imposte ai singoli in base alla legge. Tale riserva è solo
relativa, ma la giurisprudenza costituzionale avrebbe da tempo chiarito come gli
spazi discrezionali per la pubblica amministrazione non possano estendersi
all’oggetto della prestazione ed ai criteri per identificarla (sono citate le
sentenze n. 4 del 1957 e n. 447 del 1988).
La norma censurata, invece, avrebbe attribuito un potere normativo sganciato dai
presupposti fattuali della contingibilità ed urgenza, dunque tendenzialmente
illimitato e capace di incidere sulla libertà dei singoli di tenere ogni
comportamento che non sia vietato dalla legge. Una indeterminatezza non ridotta,
nella prospettazione del rimettente, dal decreto ministeriale adottato (il 5
agosto 2008) a norma del comma 4-bis dello stesso art. 54, dato che il
provvedimento sarebbe a sua volta generico, e privo di una chiara definizione
del concetto di «sicurezza urbana».
A conferma della situazione descritta varrebbe, ancora una volta, la casistica
dei provvedimenti assunti in applicazione della norma censurata: da casi di
sovrapposizione con norme penali (come per talune ordinanze che vietano la
vendita di alcolici a minori infrasedicenni o proibiscono la cessione di
stupefacenti) a casi nei quali vengono incise libertà fondamentali direttamente
garantite da precetti costituzionali. Assumerebbero particolare rilievo, in tale
prospettiva, l’art. 13 Cost. in materia di libertà personale, l’art. 16 Cost.
sulla libertà di circolazione e soggiorno, l’art. 17 Cost. sulla libertà di
riunione, l’art. 41 Cost. in materia di iniziativa economica (è fatto a questo
proposito l’esempio di ordinanze che fissano limiti minimi di reddito, ed
obblighi di documentazione circa la fonte, per ottenere iscrizioni anagrafiche).
Anche la potestà legislativa riservata alle Regioni sarebbe direttamente
vulnerata (art. 117 Cost.).
1.8. – La possibilità, introdotta dalla norma censurata, che l’esercizio di
diritti fondamentali della persona venga diversamente regolato sulla ristretta
base territoriale dei singoli Comuni comporta, secondo il Tribunale
amministrativo del Veneto, un irragionevole frazionamento, ed un regime di
disuguaglianza incompatibile con l’art. 3 Cost. Sarebbero violati inoltre i
principi di unità ed indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), di legalità
(art. 97 Cost.), di riparto delle funzioni amministrative (art. 118 Cost.).
1.9. – A parere del rimettente la capacità «invasiva» che il comma 4 dell’art.
54 conferisce ai provvedimenti sindacali rispetto a materie riservate alle
attribuzioni consiliari (come ad esempio il regolamento di polizia urbana)
comporta un’irragionevole alterazione del riparto di competenze all’interno
della stessa organizzazione comunale. L’assunzione delle decisioni spettanti
all’assemblea, che rappresenta la generalità dei cittadini, da parte di un
organo monocratico che nella specie agisce quale ufficiale di Governo, «finisce
per contraddire» la necessità di pluralismo della quale sono espressione gli
artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e 49 Cost.
1.10. – Sarebbero violati infine, secondo il Tribunale, gli artt. 24 e 113
Cost., in ragione della vastità e della indeterminatezza dei poteri attribuiti
al sindaco, tali da rendere eccessivamente difficoltosa la possibilità di un
sindacato giurisdizionale effettivo delle singole fattispecie.
2. – Con atto depositato il 20 luglio 2010, è intervenuto nel giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato.
La difesa statale, dopo aver riassunto le questioni proposte dal rimettente,
chiede che le stesse siano dichiarate inammissibili o infondate.
2.1. – La norma censurata avrebbe potenziato gli strumenti a disposizione del
sindaco alla luce dell’esigenza di valorizzare il ruolo degli enti locali anche
in materia di sicurezza pubblica (è citata, in proposito, la relazione al
decreto-legge n. 92 del 2008).
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 196 del 2009, avrebbe già rimarcato
come la novella abbia introdotto, al fianco del potere di provvedere in
situazioni di contingibilità e urgenza, la possibilità per i sindaci «di
adottare provvedimenti di ordinaria amministrazione a tutela di esigenze di
incolumità pubblica e sicurezza urbana». Lo stesso art. 54, d’altra parte,
avrebbe fissato alcuni parametri di contenimento e indirizzo del potere
sindacale. Sarebbe infatti richiesta una situazione di «pericolo, attuale o
potenziale, di minaccia all’incolumità pubblica e alla sicurezza urbana». Il
pericolo, in tale contesto, dovrebbe essere «grave», ed il provvedimento
dovrebbe assicurare, per essere legittimo, una «funzione risolutiva». Di tali
condizioni l’ordinanza del sindaco dovrebbe dare conto nella relativa
motivazione, espressamente richiesta dalla legge.
Proprio dall’obbligo di motivazione, secondo l’Avvocatura generale, dovrebbe
desumersi l’erroneità dell’assunto che attribuisce la valenza di provvedimento
normativo alle nuove ordinanze. D’altro canto il dovere di osservanza dei
principi generali dell’ordinamento implicherebbe la necessaria applicazione dei
criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, inteso quest’ultimo come
elemento di coerenza interna del provvedimento sindacale e di sua congruenza
rispetto alla fattispecie da regolare.
Una ulteriore definizione dell’ambito applicativo della norma censurata è poi
intervenuta, secondo la difesa statale, ad opera del d.m. 5 agosto 2008, cui la
giurisprudenza amministrativa avrebbe già riconosciuto tale efficacia e la
capacità di contemperare esigenze locali e carattere unitario dell’ordinamento.
Il decreto in particolare, con le previsioni contenute nelle lettere da a) ad e)
dell’art. 2, avrebbe delimitato specifiche aree di intervento, tutte
riconducibili all’attività di prevenzione e repressione dei reati, di competenza
esclusiva dello Stato (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 196
del 2009). Lo stesso decreto, inoltre, prescriverebbe che l’azione
amministrativa «si eserciti nel rispetto delle leggi vigenti», ponendo quindi un
ulteriore e più stringente limite, tale da escludere la funzione normativa delle
ordinanze, e da configurare le medesime quali strumenti per concrete
prescrizioni a tutela della vita associata.
L’indeterminatezza dei poteri attribuiti al sindaco sarebbe esclusa anche in
forza della necessaria interlocuzione preventiva con il prefetto, che varrebbe
ad assicurare l’efficace coordinamento tra competenze locali e competenze
statali, ulteriormente favorito dalle possibilità di intervento sostitutivo e di
convocazione della conferenza prevista dal comma 5 dello stesso art. 54.
Tale ultima norma, in definitiva, avrebbe semplicemente perfezionato
l’inserimento dell’ente locale nel sistema nazionale della sicurezza pubblica,
senza alcuna violazione dei principi di legalità, tipicità e delimitazione della
discrezionalità.
3. – Con atto depositato il 15 giugno 2010, si è costituita nel giudizio
l’associazione onlus «Razzismo Stop», in persona del Presidente in carica,
costituito allo scopo procuratore speciale dall’assemblea dei soci.
Secondo la parte privata, la norma censurata dovrebbe essere dichiarata
costituzionalmente illegittima.
3.1. – Il comma 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, in effetti, avrebbe
dato vita ad una fonte normativa «libera», di valore equiparato a quello della
legge, con conseguente violazione della riserva di legge di cui agli artt. 23 e
97 Cost., e delle competenze legislative che la Costituzione affida in via
esclusiva alle assemblee elettive dello Stato e delle Regioni (artt. 70, 76, 77
e 117 Cost.).
La giurisprudenza costituzionale avrebbe già chiarito – si osserva – che solo
situazioni straordinarie e temporanee possono legittimare l’assunzione di poteri
extra ordinem da parte delle autorità amministrative. La norma censurata
consentirebbe invece veri e propri atti di normazione a carattere generale, come
documentato dallo stesso caso di specie (ove è stato introdotto a tempo
indeterminato, mediante ordinanza sindacale, un divieto di donazione). La legge
non delimiterebbe, in particolare, né l’oggetto né i margini discrezionali della
potestà conferita al sindaco, una volta reciso il legame con i presupposti
fattuali della contingibilità ed urgenza, ed una volta stabilito quale unico
limite contenutistico la necessaria osservanza dei principi generali
dell’ordinamento (senza che possano valere, in senso contrario, le generiche
indicazioni provenienti dal decreto ministeriale del 5 agosto 2008).
In questo contesto, oltre che i parametri espressivi del principio di legalità
(l’art. 23 e l’art. 97 Cost.), la parte costituita evoca il principio di
legalità sostanziale, argomentando come la riconosciuta possibilità di
introdurre precetti assistiti da una sanzione possa condurre ad arbitrarie
limitazioni delle libertà individuali (art. 3 Cost.).
3.2. – Al sindaco sarebbe stata riconosciuta addirittura, secondo l’associazione
«Razzismo Stop», la possibilità di sovrapporre proprie arbitrarie prescrizioni
alle norme penali e, comunque, alle regole di garanzia dei diritti individuali.
La norma censurata determinerebbe quindi una violazione di competenze esclusive
dello Stato, in contrasto con gli artt. 13, 16, 17 e 41 Cost., nonché (quanto
alle competenze legislative regionali) con l’art. 117 Cost. Non sono legittimi –
si osserva – provvedimenti non legislativi che conculchino libertà individuali,
fino a disciplinare «a livello condominiale» una variabile conformazione di
obblighi e divieti.
Lo stesso inevitabile frazionamento delle fonti, con regole di comportamento
diverse su ristretta base territoriale, in violazione del principio di pari
garanzia delle libertà fondamentali, implicherebbe la pratica impossibilità per
i consociati di conoscere e rispettare le regole vigenti in tutte le porzioni di
territorio da loro attraversate. Di qui l’asserita violazione del principio di
ragionevolezza (art. 3 Cost.), di «uguaglianza di cui all’art. 2» Cost., di
unità ed indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), di legalità (art. 97
Cost.), di riparto delle funzioni amministrative (art. 118 Cost.).
3.3. – L’associazione costituita in giudizio riprende anche le osservazioni del
rimettente circa l’attrazione alla competenza sindacale di scelte e
provvedimenti che, per la loro natura normativa, dovrebbero essere rimessi alla
dialettica ed al pluralismo tipici dell’assemblea comunale elettiva.
Un’attrazione che, oltretutto, il sindaco esercita in quanto ufficiale del
Governo, sganciandosi finanche dal «mandato» che gli deriva in esito alle
elezioni municipali. Viene prospettata, di conseguenza, una violazione degli
artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e 49 Cost.
3.4. – Da ultimo, la parte privata prospetta una concomitante violazione degli
artt. 24 e 113 Cost., posto che vastità ed indeterminatezza dei poteri conferiti
al sindaco sarebbero tali da rendere eccessivamente difficoltoso l’esercizio di
un sindacato giurisdizionale effettivo delle singole fattispecie.
4. – In data 22 febbraio 2011, la stessa associazione «Razzismo Stop» ha
depositato una memoria, insistendo affinché sia dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000, in riferimento
agli artt. 2, 3, 5, 6, 8, 13, 16, 17, 18, 21, 23, 24, 41, 49, 70, 76, 77, 97,
113, 117 e 118 Cost.
La memoria ribadisce gli argomenti già proposti con l’atto di costituzione. Si
aggiunge che l’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 sarebbe illegittimo anche
nella parte in cui attribuisce al Ministro dell’interno il potere di
regolamentare l’ambito applicativo dei nuovi poteri sindacali, e dunque una
funzione normativa non conforme all’ordinamento costituzionale. Tra l’altro, il
decreto ministeriale 5 agosto 2008 avrebbe introdotto anche disposizioni
innovative rispetto alla stessa previsione censurata, così palesando ulteriori
profili di illegittimità.
La correttezza delle ordinanze extra ordinem legittimate dalla novella del 2008
non sarebbe assicurata, secondo la parte privata, né dalla troppo generica
prescrizione del rispetto dei principi generali dell’ordinamento, né dalla
necessaria interlocuzione del sindaco con il prefetto. Tale interlocuzione non
integra un rapporto di subordinazione gerarchica tra il primo ed il secondo, né
una immedesimazione organica tra il sindaco e l’Amministrazione dell’interno.
Tanto che – si osserva – la giurisprudenza riferisce al Comune, e non allo
Stato, la responsabilità risarcitoria per danni derivati da ordinanze
contingibili e urgenti (è citata la sentenza del Consiglio di Stato n. 4529 del
2010).
5. – In data 1° marzo 2011 il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato
memoria, al fine di ribadire la richiesta d’una pronuncia di inammissibilità e,
comunque, di infondatezza delle questioni sollevate.
La difesa statale assume, nell’occasione, che la norma censurata, pur nella
versione scaturita dal recente intervento di riforma, avrebbe conservato
sostanzialmente l’impianto originario. In particolare, aumentando poteri già
tipicamente riconosciuti al sindaco quale ufficiale di Governo, la norma avrebbe
implementato gli strumenti di raccordo tra l’azione sindacale e l’attività del
prefetto, cui la legge attribuisce funzione di interlocuzione preventiva, di
sostituzione e di stimolo. Sarebbe dunque smentito l’assunto del rimettente
circa l’ampiezza e l’indeterminatezza dei provvedimenti oggi consentiti al
sindaco.
La norma censurata – si ammette – configura una nuova classe di provvedimenti
«ordinari», non condizionati dalla contingibilità e dall’urgenza. Tali
provvedimenti, tuttavia, sarebbero vincolati nel fine, dovrebbero rispettare i
«principi fondamentali» (espressi, secondo la memoria, dalle norme
costituzionali, sovranazionali e comunitarie), principi tra i quali sono
comprese la proporzionalità e la ragionevolezza, e infine richiederebbero
adeguata motivazione (dal che risulterebbe smentita la loro natura normativa).
La discrezionalità riconosciuta al sindaco sarebbe ulteriormente limitata,
sempre a parere del Presidente del Consiglio dei ministri, dalle definizioni e
dalle prescrizioni contenute nel decreto del Ministro dell’interno in data 5
agosto 2008.
La pertinenza della fonte alla materia della sicurezza pubblica, ribadita dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 226 del 2010, varrebbe a documentare che
i provvedimenti sindacali non servono «a introdurre nuove discipline
tendenzialmente generali, ma contengono le misure concrete» volte ad assicurare
«il risultato dell’effettivo rispetto delle norme poste da altre fonti a tutela
della vita associata». Non solo, quindi, sarebbe confermata la compatibilità tra
la norma censurata e la previsione costituzionale di cui all’art. 117, secondo
comma, lettera h), Cost., ma andrebbe «superato ogni dubbio di indeterminatezza»
della norma medesima.
Infine, e comunque, la piena sindacabilità delle ordinanze in sede
giurisdizionale, confermata dalla giurisprudenza già pronunciatasi in materia,
renderebbe inammissibili le questioni sollevate dal Tribunale amministrativo
veneto.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, con ordinanza del 22
marzo 2010, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 5, 6, 8, 13, 16, 17,
18, 21, 23, 24, 41, 49, 70, 76, 77, 97, 113, 117 e 118 della Costituzione –
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali), come sostituito dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio
2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella
parte in cui consente che il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotti
provvedimenti a «contenuto normativo ed efficacia a tempo indeterminato», al
fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minaccino la sicurezza
urbana, anche fuori dai casi di contingibilità e urgenza.
In particolare, la norma indicata sarebbe illegittima «nella parte in cui ha
inserito la congiunzione “anche” prima delle parole “contingibili e urgenti”».
1.1. – La disposizione censurata violerebbe anzitutto, ed in particolare, gli
artt. 23, 70, 76, 77, 97 e 117 Cost., ove sono espressi i principi
costituzionali di legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità. In
base ai principi citati, una disciplina che consenta l’adozione di disposizioni
derogatorie alle norme vigenti in rapporto ad una determinata materia, e che
attribuisca un potere siffatto «in capo ad un organo monocratico, in luogo di
quello ordinariamente deputato», sarebbe legittima solo in quanto configuri una
situazione di contingibilità ed urgenza quale «presupposto, condizione e limite»
per l’esercizio del potere in questione.
Gli stessi parametri costituzionali sarebbero violati anche perché la
disposizione censurata, secondo il rimettente, istituisce una vera e propria
fonte normativa, libera nel contenuto ed equiparata alla legge (in quanto idonea
a derogare alla legge medesima), in contrasto con le regole costituzionali che
riservano alle assemblee legislative il compito di emanare atti aventi forza e
valore di legge.
Il Tribunale propone poi un’ulteriore questione con riferimento agli artt. 3, 23
e 97 Cost., che pongono la riserva di legge ed il principio di legalità
sostanziale in materia di sanzioni amministrative. Infatti la norma censurata,
rimuovendo i presupposti fattuali della contingibilità ed urgenza, avrebbe
conferito al sindaco un potere discrezionale e tendenzialmente illimitato di
conculcare la libertà dei singoli di tenere ogni comportamento che non sia
vietato dalla legge.
Ancora, il comma 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 violerebbe gli artt.
13, 16, 17 e 41 Cost., ciascuno dei quali espressivo di una riserva di legge a
tutela di diritti e libertà fondamentali della persona (in particolare, la
libertà personale, la libertà di soggiorno e circolazione, la libertà di
riunione, la libertà in materia di iniziativa economica), che la disposizione
censurata renderebbe suscettibili di compressione per effetto di provvedimenti
non aventi rango di legge.
Una censura ulteriore è proposta dal rimettente in relazione all’art. 117 Cost.,
perché il potere di normazione conferito dalla disposizione censurata
consentirebbe l’invasione degli ambiti di competenza legislativa regionale.
Ancora, la norma in oggetto sarebbe illegittima in ragione del suo contrasto con
gli artt. 2 e 3 Cost., poiché implica che la disciplina di identici
comportamenti – anche quando espressivi dell’esercizio di diritti fondamentali,
e dunque necessariamente garantiti in modo uniforme sull’intero territorio
nazionale – venga irragionevolmente differenziata in rapporto ad ambiti
territoriali frazionati (fino al limite rappresentato dal territorio ripartito
di tutti i Comuni italiani). L’indicato frazionamento, d’altra parte,
comporrebbe una lesione dei principi di unità ed indivisibilità della Repubblica
(art. 5 Cost.), di legalità (art. 97 Cost.), di riparto delle funzioni
amministrative (art. 118 Cost.).
Il Tribunale rimettente prospetta poi un’ulteriore violazione, relativamente
agli artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e 49 Cost., che pongono il principio
costituzionale del pluralismo, anche sotto il profilo culturale, politico,
religioso e scientifico: la norma censurata, infatti, conferirebbe una potestà
normativa, tendenzialmente libera se non nell’orientamento finalistico, ad un
organo monocratico che nella specie opera quale ufficiale di Governo, derogando
alle competenze ordinarie dell’assemblea comunale elettiva, in materia tra
l’altro di regolamento della polizia urbana.
Infine, con il comma 4 del d.lgs. n. 267 del 2000, si sarebbe determinata una
violazione degli artt. 24 e 113 Cost., in ragione della vastità ed
indeterminatezza dei poteri attribuiti al sindaco e della conseguente ampia
discrezionalità esercitabile dal sindaco medesimo, tale da rendere
eccessivamente difficoltosa la possibilità di un effettivo sindacato
giurisdizionale delle singole fattispecie.
2. – Preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità
sollevata dalla difesa dello Stato, sulla scorta del rilievo che le ordinanze
oggetto del presente giudizio sarebbero pienamente sindacabili in sede
giurisdizionale, e che i vizi di legittimità costituzionale denunciati dal
rimettente costituirebbero in realtà vizi dell’atto amministrativo, i quali ben
potrebbero determinare, se accertati, l’annullamento o la disapplicazione delle
ordinanze stesse nelle sedi giudiziarie competenti.
Il giudice a quo ha adottato un significato della disposizione censurata, in
base al quale non sarebbe rinvenibile, all’interno della stessa, una
configurazione di limiti specifici, che possano consentire al giudice adito di
valutare in concreto la legittimità degli atti impugnati.
Il rimettente è pervenuto a tale conclusione dopo aver esplicitamente scartato
possibili interpretazioni conformi a Costituzione, che pure sono state proposte
da una parte della dottrina. L’atto amministrativo impugnato si presentava
quindi, a parere del giudice rimettente, non in contrasto con l’art. 54, comma
4, del d.lgs. n. 267 del 2000 (nel nuovo testo introdotto nel 2008) e pertanto
il ricorso contro lo stesso avrebbe dovuto essere rigettato. Tuttavia lo stesso
giudice, dubitando della legittimità costituzionale della norma legislativa che
è posta a fondamento dell’atto, e denunciando una serie di presunti vizi
riscontrati, ha sollevato la questione oggetto del presente giudizio.
In definitiva, la rilevanza della questione nel processo principale è motivata
in modo plausibile.
3. – Nel merito, la questione è fondata.
3.1. – Occorre innanzitutto procedere ad una analisi dell’enunciato normativo
contenuto nella disposizione censurata.
Si deve notare, al riguardo, che nell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del
2000 è scritto: «Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto
motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi
generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli
che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana».
Si può osservare agevolmente che la frase «anche contingibili e urgenti nel
rispetto dei principi generali dell’ordinamento» è posta tra due virgole. Si
deve trarre da ciò la conclusione che il riferimento al rispetto dei soli
principi generali dell’ordinamento riguarda i provvedimenti contingibili e
urgenti e non anche le ordinanze sindacali di ordinaria amministrazione.
L’estensione anche a tali atti del regime giuridico proprio degli atti
contingibili e urgenti avrebbe richiesto una disposizione così formulata:
«adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti, nel
rispetto dei principi generali dell’ordinamento […]».
La dizione letterale della norma implica che non è consentito alle ordinanze
sindacali “ordinarie” – pur rivolte al fine di fronteggiare «gravi pericoli che
minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana» – di derogare a norme
legislative vigenti, come invece è possibile nel caso di provvedimenti che si
fondino sul presupposto dell’urgenza e a condizione della temporaneità dei loro
effetti. Questa Corte ha infatti precisato, con giurisprudenza costante e
consolidata, che deroghe alla normativa primaria, da parte delle autorità
amministrative munite di potere di ordinanza, sono consentite solo se
«temporalmente delimitate» (ex plurimis, sentenze n. 127 del 1995, n. 418 del
1992, n. 32 del 1991, n. 617 del 1987, n. 8 del 1956) e, comunque, nei limiti
della «concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare» (sentenza n.
4 del 1977).
Le ordinanze oggetto del presente scrutinio di legittimità costituzionale non
sono assimilabili a quelle contingibili e urgenti, già valutate nelle pronunce
appena richiamate. Esse consentono ai sindaci «di adottare provvedimenti di
ordinaria amministrazione a tutela di esigenze di incolumità pubblica e
sicurezza urbana» (sentenza n. 196 del 2009).
Sulla scorta del rilievo sopra illustrato, che cioè la norma censurata, se
correttamente interpretata, non conferisce ai sindaci alcun potere di emanare
ordinanze di ordinaria amministrazione in deroga a norme legislative o
regolamentari vigenti, si deve concludere che non sussistono i vizi di
legittimità che sono stati denunciati sulla base del contrario presupposto
interpretativo.
4. – Le considerazioni che precedono non esauriscono tuttavia l’intera
problematica della conformità a Costituzione della norma censurata. Quest’ultima
attribuisce ai sindaci il potere di emanare ordinanze di ordinaria
amministrazione, le quali, pur non potendo derogare a norme legislative o
regolamentari vigenti, si presentano come esercizio di una discrezionalità
praticamente senza alcun limite, se non quello finalistico, genericamente
identificato dal legislatore nell’esigenza «di prevenire e di eliminare gravi
pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana».
Questa Corte ha affermato, in più occasioni, l’imprescindibile necessità che in
ogni conferimento di poteri amministrativi venga osservato il principio di
legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Tale principio non
consente «l’assoluta indeterminatezza» del potere conferito dalla legge ad una
autorità amministrativa, che produce l’effetto di attribuire, in pratica, una
«totale libertà» al soggetto od organo investito della funzione (sentenza n. 307
del 2003; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 32 del 2009 e n. 150 del
1982). Non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela
di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia
determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente
una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa.
5. – Le ordinanze sindacali oggetto del presente giudizio incidono, per la
natura delle loro finalità (incolumità pubblica e sicurezza urbana) e per i loro
destinatari (le persone presenti in un dato territorio), sulla sfera generale di
libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di
comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati
alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o
minore misura, restrizioni ai soggetti considerati. La Costituzione italiana,
ispirata ai principi fondamentali della legalità e della democraticità, richiede
che nessuna prestazione, personale o patrimoniale, possa essere imposta, se non
in base alla legge (art. 23).
La riserva di legge appena richiamata ha indubbiamente carattere relativo, nel
senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di regolazione
delle fattispecie in tutti gli ambiti non coperti dalle riserve di legge
assolute, poste a presidio dei diritti di libertà, contenute negli artt. 13 e
seguenti della Costituzione. Il carattere relativo della riserva de qua non
relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione
sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero
richiamo formale ad un prescrizione normativa “in bianco”, genericamente
orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata,
dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale
di libertà dei cittadini.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, costante sin dalle sue prime
pronunce, l’espressione «in base alla legge», contenuta nell’art. 23 Cost., si
deve interpretare «in relazione col fine della protezione della libertà e della
proprietà individuale, a cui si ispira tale fondamentale principio
costituzionale»; questo principio «implica che la legge che attribuisce ad un
ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente
impositore la determinazione della prestazione» (sentenza n. 4 del 1957). Lo
stesso orientamento è stato ribadito in tempi recenti, quando la Corte ha
affermato che, per rispettare la riserva relativa di cui all’art. 23 Cost., è
quanto meno necessario che «la concreta entità della prestazione imposta sia
desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività
dell’amministrazione» (sentenza n. 190 del 2007).
È necessario ancora precisare che la formula utilizzata dall’art. 23 Cost.
«unifica nella previsione i due tipi di prestazioni “imposte”» e «conserva a
ciascuna di esse la sua autonomia», estendendosi naturalmente agli «obblighi
coattivi di fare» (sentenza n. 290 del 1987). Si deve aggiungere che
l’imposizione coattiva di obblighi di non fare rientra ugualmente nel concetto
di “prestazione”, in quanto, imponendo l’omissione di un comportamento
altrimenti riconducibile alla sfera del legalmente lecito, è anch’essa
restrittiva della libertà dei cittadini, suscettibile di essere incisa solo
dalle determinazioni di un atto legislativo, direttamente o indirettamente
riconducibile al Parlamento, espressivo della sovranità popolare.
6. – Nella materia in esame è intervenuto il decreto del Ministro dell’interno 5
agosto 2008 (Incolumità pubblica e sicurezza urbana: definizione e ambiti di
applicazione). In tale atto amministrativo a carattere generale, l’incolumità
pubblica è definita, nell’art. 1, come «l’integrità fisica della popolazione»,
mentre la sicurezza urbana è descritta come «un bene pubblico da tutelare
attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del
rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni
di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale».
L’art. 2 indica le situazioni e le condotte sulle quali il sindaco,
nell’esercizio del potere di ordinanza, può intervenire, «per prevenire e
contrastare» le stesse.
Il decreto ministeriale sopra citato può assolvere alla funzione di indirizzare
l’azione del sindaco, che, in quanto ufficiale del Governo, è sottoposto ad un
vincolo gerarchico nei confronti del Ministro dell’interno, come è confermato
peraltro dallo stesso art. 54, comma 4, secondo periodo, del d.lgs. n. 267 del
2000, che impone al sindaco l’obbligo di comunicazione preventiva al prefetto
dei provvedimenti adottati «anche ai fini della predisposizione degli strumenti
ritenuti necessari alla loro attuazione». Ai sensi dei commi 9 e 11 dello stesso
articolo, il prefetto dispone anche di poteri di vigilanza e sostitutivi nei
confronti del sindaco, per verificare il regolare svolgimento dei compiti a
quest’ultimo affidati e per rimediare alla sua eventuale inerzia.
La natura amministrativa del potere del Ministro, esercitato con il decreto
sopra citato, se assolve alla funzione di regolare i rapporti tra autorità
centrale e periferiche nella materia, non può soddisfare la riserva di legge, in
quanto si tratta di atto non idoneo a circoscrivere la discrezionalità
amministrativa nei rapporti con i cittadini. Il decreto, infatti, si pone esso
stesso come esercizio dell’indicata discrezionalità, che viene pertanto limitata
solo nei rapporti interni tra Ministro e sindaco, quale ufficiale del Governo,
senza trovare fondamento in un atto avente forza di legge. Solo se le
limitazioni e gli indirizzi contenuti nel citato decreto ministeriale fossero
stati inclusi in un atto di valore legislativo, questa Corte avrebbe potuto
valutare la loro idoneità a circoscrivere la discrezionalità amministrativa dei
sindaci. Nel caso di specie, al contrario, le determinazioni definitorie, gli
indirizzi e i campi di intervento non potrebbero essere ritenuti
limiti validi alla suddetta discrezionalità, senza incorrere in un vizio logico
di autoreferenzialità.
Si deve, in conclusione, ritenere che la norma censurata, nel prevedere un
potere di ordinanza dei sindaci, quali ufficiali del Governo, non limitato ai
casi contingibili e urgenti – pur non attribuendo agli stessi il potere di
derogare, in via ordinaria e temporalmente non definita, a norme primarie e
secondarie vigenti – viola la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23
Cost., in quanto non prevede una qualunque delimitazione della discrezionalità
amministrativa in un ambito, quello della imposizione di comportamenti, che
rientra nella generale sfera di libertà dei consociati. Questi ultimi sono
tenuti, secondo un principio supremo dello Stato di diritto, a sottostare
soltanto agli obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via generale
dalla legge.
7. – Si deve rilevare altresì la violazione dell’art. 97 Cost., che istituisce
anch’esso una riserva di legge relativa, allo scopo di assicurare l’imparzialità
della pubblica amministrazione, la quale può soltanto dare attuazione, anche con
determinazioni normative ulteriori, a quanto in via generale è previsto dalla
legge. Tale limite è posto a garanzia dei cittadini, che trovano protezione,
rispetto a possibili discriminazioni, nel parametro legislativo, la cui
osservanza deve essere concretamente verificabile in sede di controllo
giurisdizionale. La stessa norma di legge che adempie alla riserva può essere a
sua volta assoggettata – a garanzia del principio di eguaglianza, che si
riflette nell’imparzialità della pubblica amministrazione – a scrutinio di
legittimità costituzionale.
La linea di continuità fin qui descritta è interrotta nel caso oggetto del
presente giudizio, poiché l’imparzialità dell’amministrazione non è garantita ab
initio da una legge posta a fondamento, formale e contenutistico, del potere
sindacale di ordinanza. L’assenza di limiti, che non siano genericamente
finalistici, non consente pertanto che l’imparzialità dell’agire amministrativo
trovi, in via generale e preventiva, fondamento effettivo, ancorché non
dettagliato, nella legge.
Per le ragioni esposte, la norma censurata viola anche l’art. 97, primo comma,
della Costituzione.
8. – L’assenza di una valida base legislativa, riscontrabile nel potere
conferito ai sindaci dalla norma censurata, così come incide negativamente sulla
garanzia di imparzialità della pubblica amministrazione, a fortiori lede il
principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giacché gli stessi
comportamenti potrebbero essere ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda
delle numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di
competenza dei sindaci. Non si tratta, in tali casi, di adattamenti o
modulazioni di precetti legislativi generali in vista di concrete situazioni
locali, ma di vere e proprie disparità di trattamento tra cittadini, incidenti
sulla loro sfera generale di libertà, che possono consistere in fattispecie
nuove ed inedite, liberamente configurabili dai sindaci, senza base legislativa,
come la prassi sinora realizzatasi ha ampiamente dimostrato.
Tale disparità di trattamento, se manca un punto di riferimento normativo per
valutarne la ragionevolezza, integra la violazione dell’art. 3, primo comma,
Cost., in quanto consente all’autorità amministrativa – nella specie
rappresentata dai sindaci – restrizioni diverse e variegate, frutto di
valutazioni molteplici, non riconducibili ad una matrice legislativa unitaria.
Un giudizio sul rispetto del principio generale di eguaglianza non è possibile
se le eventuali differenti discipline di comportamenti, uguali o assimilabili,
dei cittadini, contenute nelle più disparate ordinanze sindacali, non siano
valutabili alla luce di un comune parametro legislativo, che ponga le regole ed
alla cui stregua si possa verificare se le diversità di trattamento giuridico
siano giustificate dalla eterogeneità delle situazioni locali.
Per i motivi esposti, la norma censurata viola anche l’art. 3, primo comma,
della Costituzione.
9. – Si devono ritenere assorbite le altre censure di legittimità costituzionale
contenute nell’atto introduttivo del presente giudizio.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali), come sostituito dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio
2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella
parte in cui comprende la locuzione «, anche» prima delle parole «contingibili e
urgenti».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 4 aprile 2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2011.