Evitando il buonismo giustificazionista, sarebbe
utile considerare seriamente il rapporto
devianza-degrado. La preoccupante ricorrenza
di rom tra gli autori di borseggi e piccoli furti
è in larga misura legata alle condizioni di vita
di un’etnia emarginata e oggetto
di giudizi spesso immotivati
Più popoli su uno stesso territorio. Storie che s’intrecciano e abitudini
che si scontrano. In Italia come altrove, la presenza dei rom ha da sempre
generato sospetto e diffidenza; mai condivisione e rispetto. Eppure, a
giudicare dalle fonti storiche, i rom sono presenti ormai da secoli in
Europa. Nella nostra penisola, da settecento anni. Ma non sono loro a
riempire più spesso le pagine di cronaca quanto piuttosto quei rom che, di
recente insediamento, finiscono nelle maglie della malavita locale
alimentandola a colpi di furti e borseggi. Una piccola parte – questa – se
si pensa alla totalità del loro gruppo, ma sufficiente – per taluni – a
etichettare un’intera comunità. I rom in Italia sono circa 140mila, di cui
più della metà ha meno di 14 anni. Una percentuale pari allo 0,2% della
popolazione italiana: come a dire una persona su 400, un adulto su 800. Una
cifra che restituisce chiaramente la piccola entità di questo popolo,
giudicata di recente come minaccia per l’intera collettività italiana.
Ma si sa che molti rom sono proprio italiani? Che vivendo da secoli su
questo territorio hanno assunto cognomi nostrani e vivono vite che si
confondono con le nostre? Sono professori, portieri di stabile, maestre e
impiegati. Su di loro la stampa non spende neppure una parola: non fanno
notizia, nonostante siano circa 70mila. Ossia la metà. Sono italiani e lo
sono iure sanguinis sin dal 1400. Un fatto importante da sottolineare perché
vi è invece la tendenza a considerare i rom come tutti cittadini stranieri.
Non italiani sono in effetti giusto i rom della ex Jugoslavia e quelli
giunti di recente dalla Romania. I primi sono circa 30mila, mentre dei
secondi non esistono ancora stime certe. Tra gli slavi, c’è una larga
presenza delle terze generazioni: ragazzi nati in Italia da genitori
stranieri ma nati essi stessi nel nostro Paese.
A rendere ancor più complicata la situazione, il fatto che molti di loro non
appartengono più, di fatto, allo Stato d’origine e potrebbero, in teoria,
accedere allo status di apolidi; con conseguente rilascio di un titolo di
soggiorno stabile in Italia. Ma non è così semplice. Infatti, con la
scomparsa della Federazione jugoslava, le nuove leggi repubblicane in
materia di cittadinanza hanno previsto requisiti etnici e residenziali per
il riconoscimento o l’acquisto della status civitatis che una buona parte
dei rom stabilitisi in Italia non possiede più, risultando dunque apolide di
fatto. Eppure, la domanda per il riconoscimento dello status di apolide non
viene accettata dal ministero dell’Interno se il richiedente non esibisce,
oltre a ragionevoli prove della sua condizione di apolide, il permesso di
soggiorno e l’iscrizione anagrafica. Insomma un cane che si morde la coda.
D’altra canto, proprio perché apolidi – sebbene raramente riconosciuti tali
– per i rom è più difficile ottenere il permesso di soggiorno come semplici
stranieri, dal momento che la legge sull’immigrazione richiede, a questo
fine, non solo l’inserimento lavorativo, ma anche il possesso di un
passaporto in corso di validità: una richiesta a cui ben difficilmente un
apolide può rispondere positivamente. Una condizione, quella giuridica, che
oltre a rendere impossibile la vita al rom che decida di vivere
regolarmente, impedisce a un giovane di progettare un futuro.
Vari sono i casi di studenti che, giunti al termine delle superiori, si
vedono piombare nel baratro della clandestinità, con l’impossibilità
materiale di accedere poi a un lavoro regolare. Tanto più che sono rom e che
magari vivono in un campo. Comunque, apolidi o meno, i rom dei Balcani
vivono da tempo in Italia (i più da almeno 10-20 anni, e molti sono nati qui
da noi) e proprio loro chiedono a gran voce un riconoscimento giuridico
della loro presenza in questo Paese onde beneficiare di pari diritti e pari
doveri dei nostri connazionali. Una strada lunga e in salita se si pensa che
la questione rom è vissuta come una faccenda da tenere sotto controllo e
arginare piuttosto che conoscere e inserire all’interno di un percorso di
inclusione sociale. A riprova di tutto ciò, la condizione di degrado in cui
vivono da decenni, relegati come sono ai margini delle città in autentiche
bidonville.
Ben lontani dal giustificazionismo buonista, ecco però che spunta il dubbio
sul legame devianza-degrado. E’ evidente, infatti, che in condizioni di
profondo disagio, siano più comuni degenerazioni delle consuetudini e dei
costumi e non c’è poi molto da stupirsi se il furto e il borseggio si
tramutino in espedienti per vivere.
Curioso, in rapporto alla nostra visione dei rom, il caso dei giudici
minorili svizzeri che, negli anni 50, aprirono un dibattito sul forte
coinvolgimento dei minori italiani in procedimenti penali. Una riflessione
che si esaurì man mano che gli immigrati italiani iniziarono a integrarsi,
mentre la giustizia minorile passava a occuparsi dei nuovi immigrati.
Un’analogia che ricorda da vicino le condizioni attuali e di molti rom cui
però, giuridicamente, è preclusa la possibilità di inserimento per i motivi
legali citati in precedenza. Il che, pur non giustificando, spiega perché
esista una preoccupante ricorrenza di rom tra gli autori di borseggi e
piccoli furti.
Borseggi e piccoli furti sono due reati “di sostentamento” che, secondo il
recentissimo rapporto del ministero dell’Interno su criminalità e sicurezza,
si mantengono costanti ormai da un decennio, mentre diminuiscono fortemente
i furti in appartamento e gli scippi. Secondo i dati 2006 del ministero
della Giustizia, su un totale di 19.920 minori segnalati, 2.424 sarebbero
rom. Il 12% in rapporto al 67% di italiani e al 20% di stranieri. Un dato
che ridimensiona la portata dei servizi giornalistici che vedono i rom come
minaccia per il nostro Paese, un Paese che ignora di fatto la verità su
numeri, spesso mai diffusi. A pesare poi come una spada di Damocle sui
ragazzini rom, la pressoché inesistente presa in carico dei minori rom (solo
il 37% viene tutelato dai servizi sociali contro 54% degli stranieri ed il
74% degli italiani), raramente avviati a percorsi di reinserimento sociale.
Come ha notato il Commissario europeo dei diritti umani nel marzo 2006, i
campi-sosta si caratterizzano in Italia per “l’accesso sommario all'acqua e
all'elettricità, assenza di nettezza urbana, di illuminazione, di
evacuazione delle acque reflue o di drenaggio del sito – mentre - le
abitazioni sono delle roulotte vetuste o baracche costruite con materiale di
recupero”. Una condizione che non agevola di certo l’integrazione visto che,
partendo da un tale degrado, difficilmente si potrà produrre una reale
compartecipazione alla vita sociale. Proprio come lamentano molti giovani
rom che, condotti a scuola, sono costretti a recarcisi in condizioni
igienico-sanitarie non idonee e per questo bersagliati di insulti ed
emarginati. Conoscendo meglio la loro situazione, infatti, non è detto che
si possa analizzare diversamente i fatti che la cronaca ci propone ma,
almeno si può tentare di contestualizzarli in un’ottica più corretta.
Per tornare alla questione abitativa, è ben evidente che i rom ‘stranieri’
abitino in autentiche baraccopoli al cui interno i casi di incidenti mortali
sono numerosi (soprattutto le morti da freddo, da incendio e da fuoriuscita
di gas), così come sono alti i tassi di mortalità connessa alle pessime
condizioni di vita. Vere violazioni del diritto ad un abitare dignitoso e
forse, ancor di più, reali violazioni del diritto alla salute, alla vita e
alla sicurezza personale. I campi si trasformano quindi, per il loro
degrado, in bacino da cui attinge la malavita che tutto intorno e al suo
interno agisce indisturbata, forte di una manovalanza che può assoldare a
basso costo. Ma i campi sono anche veri e propri ghetti, luoghi di
segregazione razziale fatti di fango, lamiere e materiali recuperati nelle
discariche.
Ma nell’usare questi toni e indicando tali numeri, anche i più ben disposti
potrebbero obiettare: “Beh, allora è un destino ineluttabile quello che gli
si para di fronte”. Proprio così non è dal momento che, posta da parte la
faccenda giuridica collegata alla cittadinanza, molti rom si sono rimboccati
le maniche per ingegnarsi e proporre mestieri regolari: dalla sartoria alla
riparazione di utensili, dalla compravendita di animali alla lavorazione del
rame. Tutti mestieri tuttavia destinati ed essere sopraffatti dalla nostra
economia.
Quel che è certo è che, verso i rom, si esercitino forme vessatorie e
talvolta fin troppo giustificatorie. Questo avviene anche in Tribunale.
Accade, per esempio, che minori non ancora imputabili, trovati più volte a
rubare, vengano ricondotti alle loro famiglie dalle Forze dell’ordine senza
che il giudice minorile o il servizio sociale territoriale adotti progetti
di intervento per recuperarli o eventualmente proteggerli; e senza curare il
loro reinserimento scolastico. Semplicemente si aspetta che, raggiunti i 14
anni, quei minori entrino nel circuito della giustizia penale minorile per i
successivi reati da loro commessi
In tutto ciò si inserisce il nodo dolente della scolarizzazione, perlopiù
affidata a associazioni vincitrici di bandi da migliaia di euro. Realtà che
non sempre rispettano gli accordi e che non assicurano una reale continuità
nella presenza dei ragazzi agli studi. Quello allo studio, è in Europa, un
diritto garantito ma – come detto – non sempre tanti sacrifici hanno poi una
finalità. Anni di studio, di spese per le famiglie e talvolta di umiliazioni
per i ragazzi, per finire poi maggiorenni nelle schiere della clandestinità.
Una condizione che sbarra la via a ogni possibilità di lavoro regolare e che
porta taluni ad accettare la possibilità di vivere di azioni poco
raccomandabili.
Quanto ai genitori che non iscrivono il figlio a scuola – secondo quanto
dice la legge - dovrebbero prima essere ammoniti e poi denunciati ma ancor
prima sensibilizzati – come spesso avviene – sull’importanza dello studio
per i ragazzi nell’affrancarsi da una condizione che, altrimenti, li
vedrebbe di certo emarginati.
Non è una caso che laddove la cronaca non sappia dare risposte immediate,
attribuisca agli stranieri la matrice di ogni reato. Sono la parte
silenziosa della società, quella che vive nell’ombra. Quella che talvolta si
macchia di crimine, ma che spesso è vittima di generalizzazioni e condanne
medianiche sommarie.
E’ il caso anche dei rom, associati al rapimento di bambini quando i
processi non hanno mai confermato la colpevolezza di un solo membro della
comunità. Di recente il caso del bambino palermitano sulla spiaggia, e
qualche anno fa la vicenda di Denise Pipitone. Tutte storie che, remando
nella direzione del pregiudizio, non fanno che alimentare il clima di
terrore intorno al diverso.
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