La carneficina di domenica nelle parole del reporter Abdul-Ahad
Una mattina ad Haifa street
 
 
Tutto è cominciato con una telefonata domenica mattina presto: «Una grossa colonna di fumo su Haifa Street». Che sarebbe successo se me ne fossi tornato a letto, pensavo - ora che arriverò lì sarà tutto terminato.

Sulla strada verso Haifa Street stavo quasi pregando che tutto fosse finito o che gli americani avessero sigillato l'area. Quando sono arrivato lì ho visto centinaia di ragazzini e giovani uomini in mezzo al fumo. «Corri, presto!» qualcuno ha gridato mentre afferravo la mia macchina fotografica e cominciavo a correre. Arrivato a 50 metri dalla colonna di fumo ho sentito un paio di esplosioni e un'altra nuvola di polvere si è alzata attraverso la strada.

La gente continuava a correre verso me a ondate. Sono saltato in un cortile davanti a un negozio appena alle spalle della via, assieme ad altri dieci che stavano nascosti dietro un muro. «E' il rumore delle bombe», mi dice un uomo con la testa attaccata alla mia. Pochi secondi dopo, ho sentito gente gridare e piangere - qualcosa doveva essere accaduto - e mi sono diretto verso il rumore strisciando lungo il muro. Mi sono fermato, ho fatto un paio di foto e ho attraversato la strada dirigendomi verso un gruppo di persone. Gli elicotteri ronzavano ancora, ma piuttosto lontano. Tutti piangevano e si lamentavano attorno a un gruppo di feriti. Un ragazzo, guardando uno di loro, si è messo le mani fra i capelli: «Sei tu fratello mio?». Poi è rimasto lì a guardare la faccia insanguinata del fratello. Un altro uomo se ne stava da solo, coperto di sangue, e si guardava intorno sconvolto dalla scena. La sua maglietta era scura e il sangue correva sulle sue spalle. Due uomini trascinavano via un ragazzo privo di coscienza che aveva perso la parte inferiore di una gamba. Una pozza di sangue e liquido denso si erano formate sotto il moncherino. Anche l'altra gamba era ridotta male. Poi sono tornati gli elicotteri.

Ci muovevamo tutti precipitosamente per trovare riparo in un insieme di costruzioni dove era collocato un prefabbricato usato come deposito di sigarette. Avevo appena raggiunto l'angolo dell'edificio quando ho sentito due esplosioni. Un'ondata di aria calda mi ha investito la faccia mentre qualcosa bruciava sulla mia testa. Strisciando fino al deposito mi ci sono nascosto dentro. Gli elicotteri Usa ruotavano tutto intorno, e mi sono reso conto che ci stavano sparando addosso. Avrei voluto essere invisibile o nascondermi sotto agli altri.

Per le strade i feriti venivano lasciati soli. Un uomo si teneva il braccio, gli mancava un pezzo, la ferita lasciava intravedere l'osso. L'uomo con la gamba spezzata, nel frattempo, continuava a lamentarsi. Io ero così impaurito che non volevo toccarlo. Un suo amico chiedeva aiuto con il cellulare. La sua testa era sul pavimento, i suo occhi erano aperti e lui continuava a rantolare. Cominciai a parlargli, dicendo: «Non ti preoccupare, andrà tutto bene». Dietro di lui, sulla strada, giacevano ancora i feriti. Tre di loro stavano ammucchiati uno sopra l'altro, un altro ragazzo giaceva pochi metri oltre. Era il ragazzo che che si era disperato davanti al corpo del fratello. Chiedeva aiuto ma nessuno l'aiutava. Stava morendo proprio davanti a me. Scivolò giù per terra, e dopo cinque minuti era rigido sull'asfalto. Mi muovevo strisciando. Volevo fotografare il ragazzo che giaceva lì vicino. Sta solo dormendo, cercai di convincermi. Non volevo svegliarlo. Il ragazzo con la gamba amputata era lì anche lui, abbandonato.

Parecchi ragazzini raggiunsero la via, guardando curiosamente i morti e i feriti. Poi qualcuno ha urlato «Elicotteri!». Mi sono voltato e ho visto due piccoli velivoli, neri e malvagi. Terrorizzato corsi indietro verso il mio rifugio da cui sentii due ulteriori esplosioni. L'uomo con il ginocchio piegato aveva perso coscienza, aveva la faccia sulla terra. Alcuni ragazzini, venendomi incontro gridavano, «E' morto». Gli ho urlato contro: «Non dite così! E'ancora vivo!». Poi ho chiesto al ferito se stesse bene senza ottenere risposta. Mi sono lasciato dietro i ragazzini e il ragazzo con la gamba spezzata, quello al cellulare e l'altro con la maglietta scura; erano tutti incoscienti. Li abbiamo lasciati a morire da soli. In poco tempo sono giunte le autoambulanze. Sono corso in strada cercando di portare i feriti all'ambulanza. «No, questo è morto», mi ha detto il conducente. «Portate qualcun'altro». L'autoambulanza li ha portati via e noi ci siamo sparpagliati, pensando a noi stessi: gli americani non avrebbero fatto fuoco sull'ambulanza ma su di noi sì.

Ieri, seduto nell'ufficio, un altro fotografo che stava guardando i miei scatti ha esclamato: «Così il giornalista di al Arabiya era vivo mentre facevi le foto!». «Io non ho visto il giornalista di al Arabiya». Il fotografo mi indica lo scatto col ragazzo con la maglietta scura. Era lui. Era morto. Tutti quelli con cui ho condiviso il mio rifugio erano morti.

Ghait Abdul-Ahad
da The Guardian,
(traduzione di Giada Valdannini)