Sulla stampa Usa le testimonianze dei soldati al fronte: «Non ci vogliono»
I marines: «Ma che facciamo qua?»
 
 
«Perché siamo qui?». E' l'interrogativo che rimbalza tra i militari delle basi americane in Iraq. A dargli risonanza internazionale sono l'Herald Tribune e il Boston Globe, alle cui pagine è affidato il doloroso messaggio. Tanto più che, come ricorda il caporale David Goward - «gli iracheni non ci vogliono nel loro paese e la nostra presenza non fa che aumentare le violenze che siamo venuti a combattere». Dai quotidiani americani arriva quindi l'eco di un dissenso profondo alla "missione": l'affondo parte da marines di Ramadi, una tra le basi statunitensi più bersagliate dalla resistenza irachena.

Nelle parole di molti soldati l'invito a riflettere sulla moralità di un'operazione che volge ormai in un'ecatombe.

Ciò che più destabilizza le truppe - sottolinea Goward - è la consapevolezza che «l'esercito americano continuerà a lungo ad indugiare in quei territori. Sebbene sia ormai chiaro che la popolazione civile non vuole il nostro aiuto». «E a questo punto - commenta con rammarico - credo che neppure ai miei uomini interessi più nulla di questo Paese». Nel disincanto del caporale c'è tutto il disappunto degli uomini e delle donne che stanno «perdendo il senso della loro presenza in questo paese». Di militari il cui obiettivo «è solo quello di tornare sani e salvi a casa».

Alla polemica si uniscono anche i "Gi" di Falluja, molti dei quali partecipano alle missioni in Iraq per la seconda volta. In effetti ricorda Goward - «molti degli uomini torneranno qui per la terza volta se l'esercito americano ne avrà bisogno, tanto più che a breve dovranno garantire la sicurezza alle elezioni del nuovo governo iracheno».

Come a confermare il clima di scoramento che regna nelle caserme Usa in Iraq, il Washington Post recitava un mesto mea culpa nell'edizione di ieri. Fulmineo quanto inaspettato Thomas Ricks, corrispondente al Pentagono, ammette di aver «sottostimato l'importanza degli articoli che criticavano il punto di vista della Casa Bianca». E aggiunge: «Nel periodo immediatamente precedente il conflitto, le dichiarazioni dell'amministrazione stavano a pagina uno. Ogni elemento di dissenso a pagina 18». E nell'arco di pochi giorni - ricorda - «finivano addirittura a pagina 24». Dal canto suo, il redattore capo Leonard Downie Jr, tenta di smorzare i toni: «Eravamo talmente occupati a cercare di comprendere cosa facesse l'Amministrazione, che non abbiamo dato abbastanza spazio a tutti coloro che vedevano di cattivo occhio la guerra».

Sullo sfondo delle asserzioni di colpa si profila l'ormai consolidata critica ai giornali statunitensi, che ancor prima dello scoppio della guerra in Iraq hanno prestato il fianco al conflitto ingaggiato contro il regime di Bagdad. Nel vivo di questa polemica si inserisce lo stesso Bob Woodward, lo stesso che trenta anni fa scoprì lo scandalo del Watergate, e che oggi riconosce il fallimento della guerra preventiva: «Noi abbiamo fatto il nostro lavoro, ma non abbiamo fatto abbastanza. Avremmo dovuto avvertire i lettori che sapevamo che non c'erano i presupposti». E ora che le presunte armi di distruzione di massa in possesso di Saddam non sono state trovate, conclude: «E' esattamente il genere di informazioni che doveva essere pubblicato in prima pagina».

Giada Valdannini