Pensione: i benefici contrattuali si applicano alle singole scadenze
(Corte dei Conti, Sez. III^ giurisdizionale d'appello, Sentenza 23.2.2005 n° 348)

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

Sezione terza giurisdizionale centrale d'appello

composta dai magistrati:

dott. A.D.M.                              Presidente

dott. Giorgio Capone                                 Consigliere

dott. Enzo Rotolo                                       Consigliere

dott. Amedeo Rozera                                 Consigliere

dott. S.N.                             Consigliere relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

(Numero 348/2005)

nel giudizio pensionistico d'appello iscritto al n° 19xx del registro di segreteria,

a istanza

dell'Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell'Amministrazione pubblica [Inpdap], in persona del Commissario straordinario, con domicilio eletto in Roma rap­pre­sentato e difeso dall'avv. D.M.,

contro

il sig. O.L., rappresentato e difeso dall'avv. A.M.,

avverso

la sentenza della Sezione giurisdizionale per la regione Puglia 28 agosto 2003 n° 789/2003.

Visti la sentenza impugnata, l'atto di appello e ogni altro atto e documento di causa.

Uditi nella pubblica udienza del 23 febbraio 2005, con l'assi stenza del segretario sig.ra Lucia Bianco, il relatore consi­gliere S.N. e l'avv. A.M..

Ritenuto in

FATTO

Con l'impugnata sentenza la Sezione giurisdizionale per la regione Puglia, in composizione monocratica, ha dichiarato il diritto del sig. O.L., ex dirigente dello I.A.C.P. di Bari cessato dal ser­vizio a far tempo dal 1 febbraio 1988, “a vedersi riliquidato il tratta­mento pensionistico in godimento, a ciascuna delle date previste dall’ art. 46 del D.P.R. n. 333/1990, tenendo conto degli aumenti sti­pen­diali recati dallo stesso articolo, senza che sia operato alcun rias­sor­bimento in relazione agli aumenti della pensione spettanti per ef­fetto della perequazione automatica ai sensi dell'art. 21 della legge n. 730/ 1983, i quali devono essere, invece, corrisposti, alle date previ­ste, sull'importo della pensione, quale spettante per effetto della sud­detta rili­quidazione”, oltre benefici accessori sulle maggiori somme dovute a tale titolo.

Avverso la pronuncia ha interposto appello l'Istituto nazio­nale di previdenza per i dipendenti dell'Amministrazione pubblica [In­pdap], chiedendone l'annullamento e contestando, a tal fine, la viola­zione e falsa applicazione delle norme di cui sopra, nonché la viola­zione del principio di uguaglianza, la manifesta disparità di tratta­mento e la vio­lazione e falsa applicazione dell'art. 3 Costituzione.

L'appellante sostiene che il cumulo in discussione è precluso poiché determina l'illegittima dupli­cazione di benefici che rivestono in sostanza analoga funzione di “adeguamento delle pensioni” ; precisa  pertanto che il trattamento di quiescenza dell'appellato è stato calco­lato alla luce della circolare del Ministero del tesoro 15 dicembre 1987 n° 72, con  attribuzione della sola perequazione automatica, in quanto più favorevole, alle date del 1 luglio 1988 e del 1 ottobre 1989 e rico­noscimento invece dell'incremento contrat­tuale alla data del 1 luglio 1990.

Inoltre lamenta che la diversa opinione comporta una dispa­rità di trattamento rispetto ai dipendenti in attività di servizio e desti­natari del medesimo con­tratto collettivo, i quali, all'atto dell'integrale applicazione dell'accordo, verrebbero a percepire uno stipendio infe­riore all'importo della pensione del personale già posto in con­gedo.

Il sig. O.L. si è costituito in giudizio col patrocinio dell'avv. A.M., il quale, con memoria depositata il 7 giugno 2004, ha contestato:

1. l'inammissibilità del gravame per difetto di un autonomo interesse a promuoverlo, palesato dalla circostanza che l'appellante si è limi­tato a riportare acriticamente il contenuto della circolare del Mini­stero del tesoro 15 dicembre 1987 n° 72, tenendo quindi un com­portamento proces­suale non coerente con l'interesse pubblico affi­dato alle proprie cure e che addirittura si pone in contrasto col prin­cipio di imparzia­lità sancito dall'art. 97 Costituzione;

2. l'inammissibilità del gravame, perché il lamentato vizio di violazione di legge non costituisce idoneo motivo d'impugnazione [la censura viene riferita anche all'ipotesi che le argomentazioni svolte dall'Istituto previdenziale vengano interpretate nel senso di essere rivolte a contestare la contraddittorietà della motivazione della sentenza di prime cure];

3. l'infondatezza della tesi della incumulabilità dei benefici in discus­sione;

4. l'inammissibilità dell'altro motivo d'appello, non potendo costituire vizio di incostituzionalità l'interpretazione che il Giudice faccia di una norma; ovvero l'infondatezza della censura medesima, per non essere rinvenibile nella fattispecie alcuna rilevante disparità di trat­tamento.

Con successiva memoria, depositata il 1 febbraio 2005, il le­gale ha ribadito la propria linea difensiva, operando tra l'altro richiamo anche alla circolare Ministeriale 3 settembre 1991 n° 8/I.P. e conte­stando il secondo motivo d'appello, interpretandolo quale formale ec­ce­zione di incostituzionalità.

All'udienza dibattimentale del 23 febbraio 2005 l'avv. A.M. ha con­cluso, svolgendo ulteriori argomentazioni, richiamando e confermando il contenuto degli atti scritti; inoltre ha depositato la pro­pria nota spese.

In tale stato il giudizio è passato in decisione.

Considerato in

DIRITTO

1. Osserva preliminarmente il Collegio che il Giudice di prime cure ha ritenuto che la vertenza promossa dal sig. O.L. riguardasse esclusivamente la posizione dell'Inpdap [cfr. l'epigrafe della pronuncia impugnata], secondo una rituale disamina della problematica della cui analisi era stato investito e in ossequio del resto alla stessa lettera dell'originario gravame, esplicitamente limitato al predetto Ente e alla Direzione generale degli Istituti di previdenza, gestione quest'ultima pure assorbita dalle competenze del primo.

Non essendovi censura sul punto, deve ritenersi, al di là di ogni ulteriore notifica degli atti che hanno dato ingresso al giudizio di primo grado e al presente d'appello, operata nei confronti di altri sog­getti giuridici, che nes­sun vulnus alla regolarità del contraddittorio possa desumersi dalla mancata esibizione, da parte dell'appellante, della documentazione attestante l'avvenuta notifica del decreto di fissazione della data del dibattimento [all'uopo comunicatogli il 17 settembre 2004], assumendo esclusivo rilievo in proposito la pre­senza in udienza del difensore dell'appellato, unica parte del resto regolarmente costituitasi in giudizio a seguito della vocatio che ne occupa.

2. Vanno quindi disattese le varie eccezioni di inammissibilità mosse dall'appellato avverso l'impugnativa promossa dall'Inpdap.

Al riguardo basti osservare che:

·   l'Istituto previdenziale contesta l'avvenuta violazione di alcune norme [di rango costituzionale, ovvero contenute in leggi ordinarie o in accordi nazionali collettivi], censura questa che appare piena­mente riconducibile al dettato dell'art. 1, comma 5, decreto legge 15 no­vembre 1993 n° 453, convertito in legge 14 gennaio 1994 n° 19 [nel testo recato dall'art. 1, comma 1, decreto legge 23 ottobre 1996 n° 543, convertito in legge 20 dicembre 1996 n° 639], a norma del quale l'appello per “motivi di diritto” alle Sezioni giurisdi­zionali cen­trali della Corte dei conti è ammesso in materia pensio­nistica;

·   nel gravame l'appellante chiarisce in maniera puntuale il primo mo­tivo d'impugnazione, operando altresì richiamo, a conferma della propria tesi, al contenuto della circolare ministeriale citata in narra­tiva [circostanza questa che certo non palesa l'affermata carenza di interesse all'azione promossa, né si pone in contrasto con l'interesse pubblico affidato in tutela all'Istituto previdenziale e con il princi­pio di imparzialità ex art. 97 Costituzione, atteso che questi ultimi rilevano, con tutta evidenza, anche con riguardo alla corretta ge­stione delle risorse collettive, di cui il ricorso de quo costituisce comunque espressione, fatta salva la verifica nel merito della pre­tesa attoria];

·   quanto innanzi precisato vale altresì a disattendere il secondo mo­tivo di inammissibilità ricordato in narrativa, peraltro formulato in maniera generica con riferimento al lamentato vizio di violazione di legge [riguardo all'altro aspetto, relativo alla contraddittorietà di mo­tivazione, va invece rilevato che la questione esula dal presente giudizio, non avendo formato motivo di censura da parte dell'appellante];

·   il Giudice è tenuto comunque a fornire, in ordine a qualsiasi disci­plina che venga sottoposta al suo esame, l'interpretazione che ri­sulti conforme ai princìpi costituzionali, per cui deve ritenersi ammissibile una censura rivolta a contestare la lettura di una norma che si discosti dal dettato dei princìpi fondamentali [ferma restando comunque la necessità di verificare la fondatezza della doglianza].

3. Venendo al merito dell'impugnativa e precisato, in estrema sintesi, che la materia dei contendere riguarda la possibilità di cumu­lare, in favore del sig. O.L., i benefici perequativi  previsti dalla legge 27 dicembre 1983 n° 730 con l'integrale riconosci­mento in pensione degli in­crementi retributivi di cui all'accordo collettivo recato dal dr 3 agosto 1990 n° 333, va subito chiarito che la tesi negativa fatta valere sul punto dall'Inpdap, fondata sull'affermazione della sostanziale identità di natura dei due istituti, non può essere condivisa.

In proposito va infatti evidenziato che gli aumenti dovuti ai meccanismi perequativi [previsti dalle leggi 29 aprile 1976 n° 177 e 27 dicembre 1983 n° 730, poi mo­dificati con l'art. 11 decreto legislativo 30 dicembre 1992 n° 503], co­stituiscono meri adeguamenti statistici ai processi inflattivi e hanno quindi il solo scopo di salvaguardare il po­tere di acquisto dei pensionati e non invece quello di aumentare il loro tenore di vita.

Diversa, come ha correttamente concluso il Giudice di prime cure sulla base altresì della lettera dell'art. 21 legge n° 730 citata, è invece la ratio dell'estensione di miglioramenti eco­no­mici ai dipendenti pubblici cessati dal servizio nel periodo di vigenza di un contratto col­lettivo: essa, infatti, rappresenta la conseguenza di clausole stabilite dalle parti contraenti nell'esercizio della loro piena autonomia e intese ad ac­cre­scere il potere di ac­quisto a disposizione del personale di­pendente [pur se scaglionato nel tempo, sotto il profilo economico, per ragioni di contenimento della spesa pubblica, il che ne spiega l'integrale riconoscimento anche a favore dei lavoratori collocati a ri­poso nel triennio di riferimento dell'accordo], con riflessi anche sulle relative posizioni pensionistiche.

A riprova di quanto affermato basti pensare che, opinando nel senso qui avversato, si giungerebbe ad attribuire alla contrattazione collettiva finalità che esorbitano dai limiti rimessi alla medesima [qual è appunto la disciplina del sistema pensionistico, pur se limitatamente all'ambito della perequazione dei trattamenti in essere] e che, in con­trario, possono essere riferite solo alla potestà normativa del Legisla­tore nazionale.

Orbene, la diversità di funzione testé evidenziata rende asso­luta­mente compatibili i due benefici, non potendosi rinvenire alcuna giu­stificazione alla loro applicazione alternativa, sia sul piano norma­tivo che su quello strettamente logico.

Né tale interpretazione si pone in contrasto con i parametri costituzionali richiamati dall'appellante, dato che il lamentato vulnus non è riconducibile a posizioni omogenee [lavoratori in servizio  pen­sionati].

Pertanto, in linea con quanto osservato dalla Sezione territo­riale, deve respingersi la tesi sostenuta dall'Amministrazione previ­denziale con richiamo alla circolare innanzi precisata, che per tale profilo va disapplicata ex art. 5 legge 20 marzo 1865 n° 2248.

Se tale è la conclusione da raggiungere in ordine al punto di diritto sottoposto all'esame della Sezione, nondimeno deve escludersi che il trattamento di quiescenza, determinato nel senso qui sostenuto, possa risultare superiore a quello di attività che sarebbe spettato al dipendente laddove fosse rimasto in servizio alle singole de­correnze previste dall'accordo di categoria in questione, che rappre­senta quindi, di volta in volta, il limite cui parametrare il riconoscimento dei bene­fici pe­requativi.

Tale principio può desumersi, di per sé, dagli stessi criteri che, all'epoca di cui si discute, disciplinavano il calcolo del trattamento di quiescenza con riguardo all'importo di quello di attività, nell'ottica del cosiddetto sistema retributivo [argomenta anche dagli artt. 20 e 37 legge 29 aprile 1976 n° 177].

Comunque ha poi trovato un'espressa con­ferma nella diret­tiva dettata dall'art. 3, comma 1, lett. q), legge 23 ot­tobre 1992 n° 421 [re­cante: “De­lega al Governo per la ra­zionalizza­zione e la revisione delle disci­pline in ma­teria di sanità, di pubblico im­piego, di previdenza e di fi­nanza ter­rito­riale” ], sulla base del quale è stato emanato il citato art. 11 decreto legislativo 30 di­cembre 1992 n° 503.

La norma in questione, infatti, ha previsto che l'emananda di­sciplina della perequazione automatica dei trattamenti di quiescenza dovesse co­munque essere formulata “tenendo anche conto del si­stema rela­tivo ai lavoratori in attività”, volendo in tal modo escludere, in termini vin­colanti per il Legislatore delegato, che il meccanismo potesse com­portare l'effetto qui paventato.

Una condivisibile giurisprudenza [cfr. Sezione giurisdizionale per la regione Campania, 26 marzo 2004 n° 557; Sezione terza giuri­sdizionale centrale d'appello, 30 giugno 2004 n° 356], ha pertanto chiarito che, dovendo il Giudice privilegiare l'interpretazione che assi­curi il rispetto del dettato costituzionale, non potrebbe darsi alla di­spo­sizione contenuta nell'art. 11 decreto legislativo n° 503 del 1992 una lettura contrastante con quella sopra esposta, verifican­dosi altrimenti il vizio di eccesso di delega che renderebbe appunto ille­gittima la norma stessa.

Sulla base di queste argomentazioni, che comunque possono essere ricondotte alla causa petendi offerta dall'appellante, dato che  l'impugnativa ha posto in evidenza l'aspetto in ultimo precisato, deve dichiararsi, in parziale riforma della sentenza appellata, che il tratta­mento pensio­nistico spettante al sig. O.L., sulla base del cumulo dei benefici in di­scussione, non può comunque superare il trattamento di attività al quale egli avrebbe avuto diritto in caso di permanenza in servi­zio alle singole date di decorrenza degli scaglioni di benefici eco­no­mici previsti dall'accordo recato dal dPR 3 agosto 1990 n° 333.

4. Il Collegio ritiene che sussistano valide ragioni per disporre la compensazione delle spese, secondo consolidata giurisprudenza e tenuto in partico­lare conto l'esito parzialmente satisfattivo dell'impugnativa.

PER QUESTI MOTIVI

l'intestata Sezione terza giurisdizionale centrale d'appello, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, definitivamente pro­nunciando in parziale riforma della sentenza impugnata,

ACCOGLIE

l'appello proposto dall'Inpdap, nei limiti precisati in parte motiva.

Spese compensate.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 23 febbraio 2005.

L'ESTENSORE                        IL PRESIDENTE

          F.to  S.N.               F.to  A.D.M.

Depositata in Segreteria il giorno 15 giugno 2005

IL DIRIGENTE

F.to A.D.V.