La trasformazione del titolo pensionistico

Pasquale De Feo
Funzionario Inps - Direzione Generale

(Articolo già pubblicato sulla rivista "Lavoro e Previdenza oggi" - maggio 2005)

 

Sommario:

  1. Introduzione.
  2. Dal principio dell’alternatività preclusiva…
  3. … alla mutabilità del titolo pensionistico.
  4. Sentenze delle Sezioni unite in materia di trasformazione del titolo pensionistico: n. 8433 del 4 maggio 2004 e n. 9492 del 19 maggio 2004.
  5. Trasformazione della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia: automaticità o necessità di un’istanza di parte?

1. Introduzione

Le Sezioni unite della Corte di Cassazione con due sentenze del 2004, la n. 9492 e la n. 8433, hanno risolto il contrasto tra orientamenti giurisprudenziali che si era determinato in ordine all’individuazione, nel nostro sistema previdenziale, di un principio generale che consentisse il mutamento del titolo pensionistico.

La querelle nasce dalla specifica struttura del sistema previdenziale.

Nell’assicurazione generale obbligatoria, infatti, da un lato sono tipizzate diverse fattispecie di prestazioni previdenziali, ciascuna delle quali correlata ad un evento-rischio (invalidità, vecchiaia, anzianità) oggetto di tutela. Dall’altro il versamento di contribuzione da parte del soggetto obbligato avviene indistintamente per ogni prestazione prevista dalle leggi previdenziali.

Ne consegue che, naturalmente, l’assicurato nei confronti del quale si siano verificati i requisiti di legge richiesti per diverse fattispecie pensionistiche ha la facoltà di optare per il trattamento a lui più favorevole, a nulla rilevando quale degli eventi-rischio si sia verificato per primo.

Il punto controverso concerne possibilità che tale facoltà di scelta possa essere riconosciuta anche a chi sia già titolare di trattamento pensionistico. In tal caso anche al pensionato dovrebbe essere riconosciuta la facoltà di optare per la liquidazione di un diverso tipo di pensione in sostituzione della precedente, in virtù di requisiti di legge perfezionati successivamente alla decorrenza della prestazione originaria.

In merito si sono registrati due contrapposti orientamenti che hanno diviso tanto la dottrina quanto la giurisprudenza.

Secondo un primo orientamento al titolare di un trattamento pensionistico sarebbe preclusa la trasformazione del titolo in quanto nel nostro sistema previdenziale vige un principio generale di divieto del mutamento del titolo, detto anche di “alternatività preclusiva” delle prestazioni. Tale principio comporterebbe che, quantunque la contribuzione versata copra indistintamente i vari rischi oggetto di tutela, una volta verificatosi uno dei rischi compresi nel rapporto assicurativo e riconosciuto il relativo diritto al trattamento pensionistico, si costituisce una posizione di diritto soggettivo che rende giuridicamente impossibile conseguire un’altra prestazione relativa ad altro evento protetto.

Secondo un diverso orientamento nel nostro sistema previdenziale sussisterebbe l’opposto principio generale di “mutabilità del titolo pensionistico”, in virtù del quale sarebbe sempre consentito al titolare di un trattamento pensionistico di conseguire, all’interno del medesimo rapporto assicurativo, un diverso tipo di pensione del quale si siano successivamente verificati i presupposti.

Sulla questione le disposizioni normative risultano scarne.

L’unica ipotesi di trasformazione del titolo espressamente disciplinata dal legislatore è quella prevista dall’articolo 1, comma 10, della legge n. 222/1984, in base alla quale l’assegno di invalidità, in presenza di tutti i requisiti, si trasforma automaticamente in pensione di vecchiaia nel momento in cui il titolare raggiunge l’età pensionabile.

Ad essa viene affiancato l’articolo 22, comma 6, della legge n. 153/1969 che prevede che «la pensione di anzianità è equiparata a tutti gli effetti alla pensione di vecchiaia quando il titolare di essa compie l’età stabilita per la pensione di vecchiaia». Tale disposizione sancirebbe un vero e proprio mutamento del titolo della pensione.

Alle norme sopra richiamate possono essere ricondotte tutte le disposizioni previste per consentire a coloro che erano già titolari di pensione al 30 aprile 1968 di optare per la trasformazione della pensione da “contributiva” a “retributiva” (articolo 13, legge n. 153 del 1969 per titolari di pensione di vecchiaia; articolo 14, commi 4 e 5, decreto del Presidente della Repubblica n. 488/1968 e articolo 11, commi 4 e 5, legge n. 153/1969 per i titolari di pensioni di anzianità; articolo 4, decreto legge 30 giugno 1972, n. 267 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 485/1972, per i titolari di pensione di invalidità). Tali disposizioni non prevedono un effettivo mutamento del titolo pensionistico, bensì solo una riliquidazione del medesimo trattamento. Nondimeno ad esse è sottesa la medesima ratio che caratterizza il principio della trasformabilità del titolo pensionistico: consentire a chi sia già titolare di pensione di riutilizzare, applicando le disposizioni al momento vigenti, la contribuzione accreditata (e già utilizzata) al fine di conseguire in sostituzione, un trattamento più favorevole.

Tutte le disposizioni sopra richiamate non sono risultate comunque decisive ai fini della risoluzione della controversia in ordine alla trasformazione del titolo pensionistico, anche perché esse vengono citate da entrambi gli orientamenti come prova della fondatezza delle opposte tesi.

Infatti, da un lato coloro che hanno affermato l’operatività del principio dell’“alternatività preclusiva”, in applicazione dell’antico brocardo ubi lex voluit dixit…, hanno avuto modo di sostenere che se il legislatore ha espressamente previsto, in tali casi, la sostituzione o la riliquidazione di un trattamento pensionistico è perché ciò non può normalmente essere consentito nelle ipotesi non disciplinate.

Dall’altro si è affermato che quelle disposizioni, per la loro rilevanza, sarebbero esse stesse espressione di un principio generale della trasformabilità del titolo pensionistico.

Prima di esaminare le sentenze della Sezioni unite che hanno operato una sintesi dei due orientamenti sopra richiamati è opportuno esaminare le ragioni che sono state poste a fondamento delle rispettive tesi.

Infine, va sottolineato che, dopo le sentenze delle Sezioni unite, con le quali è stata risolta la controversia in ordine all’operatività del principio del mutamento titolo, rimaneva comunque da chiarire, una questione particolarmente rilevante sul piano amministrativo: una volta precisati i limiti e i presupposti entro cui può avvenire la trasformazione del titolo pensionistico anche nelle ipotesi non espressamente disciplinate dalla legge, va chiarito se ciò debba avvenire automaticamente al verificarsi dei nuovi presupposti, applicando quindi la regola dell’articolo 1, comma 10, della legge n. 222/1984, o se invece sia comunque necessaria una previa istanza dell’interessato.

Sul punto si è pronunciata, da ultimo, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 622 del 14 gennaio 2005.

2. Dal principio di alternatività preclusiva…

La dottrina maggioritaria e l’unanime giurisprudenza di legittimità, almeno fino ai primi anni ‘90, hanno ritenuto operante nel nostro sistema pensionistico il principio dell’alternatività preclusiva delle prestazioni pensionistiche, salvo i casi espressamente disciplinati in maniera diversa.

Tale tesi si fondava innanzitutto su argomentazioni desunte dal dato normativo. In particolare:

1.      l’articolo 45 del regio decreto legge 4 ottobre 1935, n. 1827 e l’articolo 2 del regio decreto legge 14 aprile 1939, n. 636 elencano le prestazioni erogabili nell’assicurazione generale obbligatoria (invalidità e vecchiaia), ponendole in un rapporto di alternatività reciproca;

2.      l’articolo 13 della legge 21 luglio 1965, n. 903 nell’istituire la pensione di anzianità individua quali destinatari della medesima “gli iscritti” all’assicurazione generale, escludendo, pertanto, i pensionati e confermando il rapporto di alternatività esistente tra le prestazioni dell’assicurazione generale;

3.      l’articolo 19 del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1969, n. 488, prevede che i contributi versati o accreditati successivamente alla data di decorrenza del trattamento pensionistico diano diritto ad un supplemento di pensione, escludendo pertanto che essi possano essere utilizzati per conseguire un ulteriore e diverso trattamento; tale esclusione è ancora più esplicitata nell’articolo 26 della legge n. 613/1966: nelle fattispecie ivi disciplinate si prevede infatti che per la contribuzione versata o accreditata successivamente alla data di decorrenza della pensione i pensionati hanno diritto soltanto a supplementi di pensione.

Le disposizioni citate sub a) e sub b) sarebbero espressione, pertanto, del principio di alternatività preclusiva tra le prestazioni dell’assicurazione generale obbligatoria e quelle citate sub c) dimostrerebbero l’operatività di un altro e correlato principio, cioè quello dell’unitarietà della posizione assicurativa. In base a tale principio si afferma che ad un unico rapporto assicurativo non può che corrispondere un parimenti unico trattamento previdenziale4. Allo stesso tempo si consente al pensionato, che comunque non può conseguire un ulteriore trattamento pensionistico, di non perdere la contribuzione eventualmente accreditata dopo la decorrenza della pensione, liquidando, sulla base di quella contribuzione, dei supplementi di pensione.

Un’ulteriore riprova di quanto sopra sostenuto sarebbe l’articolo 22 della legge n. 153/1969. Infatti, se il legislatore ha avvertito la necessità di introdurre una norma che espressamente consenta l’equiparazione tra pensione di anzianità e quella di vecchiaia al verificarsi dei presupposti previsti per quest’ultima è perché nel sistema previdenziale non sarebbe consentito il mutamento del titolo pensionistico.

Alla medesima logica risponderebbe quindi anche la previsione di cui al comma 10 dell’articolo 1 della legge n. 222/1984. I sostenitori del principio dell’alternatività preclusiva hanno avuto buon gioco, inizialmente, nel sostenere che con l’entrata in vigore di questa disposizione che disciplina un’ipotesi di trasformazione automatica di una prestazione previdenziale, è stata introdotta una regola eccezionale, poiché contraria al principio generale operante nell’ordinamento pensionistico, del divieto del mutamento del titolo. In quanto norma eccezionale, la disposizione di cui al comma 10 troverebbe applicazione solo alla fattispecie tassativamente prevista senza alcuna possibilità di applicazione analogica. Infatti la disposizione in esame prevede la trasformabilità del solo assegno di invalidità in pensione di vecchiaia.

Pertanto tale norma non potrebbe essere invocata per consentire la trasformazione del medesimo assegno di invalidità in pensione di anzianità e neppure della pensione di invalidità (il trattamento di invalidità precedente all’assegno) in pensione di vecchiaia.

Anche a voler prescindere dal carattere eccezionale della disposizione di cui al comma 10, non vi sarebbe ragione di una sua applicazione estensiva alle fattispecie sopra richiamate in quanto esse sarebbero di per sé già oggetto di una disciplina che più o meno esplicitamente le prevede.

In particolare a proposito della pensione di invalidità si richiama l’articolo 8 della legge n. 638/1983 il quale prevede la sospensione della prestazione per superamento di determinati limiti di reddito, salvo comunque il ripristino della corresponsione dal mese successivo a quello di compimento dell’età pensionabile. Da questa disposizione si può facilmente argomentare che la precedente prestazione di invalidità rimane tale anche al verificarsi dell’età pensionabile. Per la vecchia pensione di invalidità, quindi, trova conferma il principio di immodificabilità del titolo al verificarsi dei requisiti richiesti per un diverso trattamento.

Le norme sopra richiamate confermerebbero che tutti gli interventi del legislatore finalizzati a consentire l’equiparazione (articolo 22, comma 6, legge n. 153/1969), la trasformazione (articolo 1, comma 10, legge n. 222/1984), o la riliquidazione di un trattamento pensionistico si inseriscono in un contesto normativo che postula il divieto di mutamento del titolo pensionistico.

Anche la Corte Costituzionale ha avuto più volte modo di affermare l’operatività del principio di immutabilità del titolo pensionistico nel nostro ordinamento. Tale principio consente di non limitare la discrezionalità del legislatore nella determinazione dell’ammontare delle prestazioni sociali e delle variazioni delle stesse sulla base di un razionale contemperamento delle esigenze di vita dei lavoratori beneficiari da un lato e delle disponibilità finanziarie dall’altro.

Né si può ritenere che la discrezionalità del legislatore in quest’ambito, e più in generale lo stesso principio di immutabilità del titolo, sconfinino nella violazione del principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione. La preclusione all’accesso ad un tipo di trattamento pensionistico per il titolare di un altro tipo di prestazione può essere concepita come una forma di violazione del principio di uguaglianza solo per chi ritenga che le prestazioni garantite dall’assicurazione generale obbligatoria si differenziano anche in termini di diversa entità della tutela previdenziale. A ben vedere, invece, non esiste alcuna gradualità tra prestazioni, in relazione alla quale un tipo astratto di trattamento, complessivamente considerato, risulti più conveniente di un altro. Ciò in quanto ciascun tipo di prestazione presenta vantaggi e svantaggi tali che non è possibile compiere un giudizio in termini quantitativi. Ad esempio, non si può ritenere che al soggetto che, mentre percepisce un assegno di invalidità, continua a lavorare maturando il diritto a supplementi di pensione, sia garantita una tutela previdenziale complessivamente inferiore a quella riconosciuta al pensionato di anzianità che matura il proprio diritto al raggiungimento di 35 o più anni di contribuzione.

Oltre che su ragioni di tipo giuridico il principio dell’alternatività preclusiva delle prestazioni è stato sostenuto anche sulla base di ragioni, per così dire economiche. Si afferma10, infatti, che la liquidazione della pensione, con utilizzazione dei contributi, esaurisce in maniera definitiva il valore e gli effetti dei contributi, così che essi, come valore disponibile, non esistono più nell’assicurazione obbligatoria, salvo l’eccezionale ipotesi di riviviscenza dei contributi stessi per effetto della soppressione del precedente trattamento come nel caso di revoca della pensione di invalidità. Pertanto, ove fosse stata consentita la possibilità di mutare il titolo della pensione vi sarebbe una doppia utilizzazione economica della contribuzione versata.

3. … alla mutabilità del titolo pensionistico

Mentre si andava consolidando, in dottrina e giurisprudenza, l’orientamento che sosteneva il principio dell’alternatività preclusiva delle prestazioni, veniva progressivamente affermata anche la tesi opposta della possibilità, da parte del titolare di trattamento pensionistico, di mutare il proprio trattamento in un altro avente diverso titolo del quale si siano successivamente perfezionati i requisiti.

Tale tesi, però, inizialmente è stata sostenuta da isolate sentenze di giudici di merito e da una dottrina minoritaria impegnata soprattutto a confutare le argomentazioni sulle quali veniva affermato il principio dell’alternatività preclusiva.

In questo senso sono state facilmente smentite le argomentazioni di ordine economico. È stato detto, infatti, che il mutamento del titolo pensionistico non comporta una doppia utilizzazione economica della contribuzione versata, in quanto la medesima contribuzione dà comunque luogo ad un solo trattamento pensionistico, seppur diverso da quello originariamente liquidato.

Il principio del divieto di riutilizzare la contribuzione che ha già dato luogo alla liquidazione di un trattamento pensionistico, in realtà, non esiste se non come conseguenza del divieto del mutamento del titolo. Pertanto non ne può rappresentare il presupposto.

Venute meno le ragioni economiche, la sussistenza del principio del divieto del mutamento del titolo (o dell’opposto principio della mutabilità) va dimostrata esclusivamente sul piano giuridico e con riferimento al dato normativo.

In questo senso l’orientamento che sostiene la tesi della trasformabilità del titolo ha provato a smentire la tesi tradizionale che affermava che il principio di alternatività preclusiva trovava conferma nel dato normativo.

Innanzitutto è stato sottolineato come l’articolo 45 del regio decreto legge n. 1827 del 1935 non fa che elencare in maniera generica gli scopi, ovvero le prestazioni, dell’assicurazione obbligatoria. Da tale disposizione non può discendere, pertanto, alcuna preclusione se non in virtù di una forzatura interpretativa.

Né si può ritenere che il riferimento ai soli “iscritti” all’assicurazione generale obbligatoria operato dall’articolo 13 della legge 21 luglio 1965, n. 903, consenta di escludere dai destinatari della pensione di anzianità i titolari di pensione di invalidità. Questi ultimi, infatti, continuano ad essere iscritti all’assicurazione generale obbligatoria allorché, continuando a svolgere attività lavorativa, versano la contribuzione.

Più articolata è, poi, l’argomentazione che mira a negare che dalla disciplina dei supplementi possa derivare una preclusione al mutamento del titolo pensionistico.

L’articolo 19 del decreto del Presidente della Repubblica n. 488 del 1968 avrebbe soprattutto la funzione di consentire, a chi faccia valere la contribuzione versata dopo la decorrenza della pensione, l’utilizzazione dei contributi nel caso in cui non siano raggiunti i requisiti stabiliti per il conseguimento di altra prestazione previdenziale.

Anche in questo caso, si dice, solo attraverso una forzatura interpretativa si può far discendere una preclusione al mutamento del titolo della pensione da una disposizione che invece si limita a riconosce una facoltà in favore di chi faccia valere una contribuzione accreditata dopo la decorrenza della pensione.

Se è vero che l’articolo 26 della legge n. 613 del 1996 prevede espressamente che la liquidazione dei supplementi costituisca il solo modo di utilizzazione della contribuzione accreditata dopo la pensione, è altrettanto vero che il legislatore solo in questo caso ha previsto un’esplicita preclusione. Da questa disposizione si può argomentare a contrario che, negli altri casi, non è precluso un impiego diverso della contribuzione accreditata dopo la decorrenza della pensione.

Si sostiene, inoltre, che la disciplina relativa ai supplementi di pensione non può essere considerata decisiva ai fini dell’esclusione della possibilità di mutare il titolo della pensione. Altrimenti si deve ritenere che la trasformazione del titolo è sempre possibile ogniqualvolta non viene utilizzata la contribuzione accreditata dopo la decorrenza del trattamento. In sostanza, il principio di unità della posizione assicurativa, così inteso, non potrebbe impedire al titolare di pensione di invalidità, che abbia un’anzianità contributiva sufficiente per il trattamento di vecchiaia, di conseguire quest’ultimo tipo di pensione al raggiungimento dell’età pensionabile.

Sempre in sede di confutazione delle opposte tesi, si nega che le numerose disposizioni che disciplinano casi di trasformazione o riliquidazione del trattamento pensionistico, debbano essere considerate altrettante eccezioni al principio di immutabilità del titolo.

In questo senso se si esclude che la disposizione di cui all’articolo 1, comma 10, della legge n. 222/1984 ha carattere di eccezionalità, non vi sono ragioni per escludere la sua applicazione estensiva. In particolare essa consentirebbe la trasformabilità anche della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia. A tal fine non può essere di ostacolo il citato articolo 8 della legge n. 638/1983. Come per la disciplina relativa ai supplementi, anche in questo caso non si può far discendere, per l’invalido, una preclusione alla liquidazione di un nuovo trattamento, da una norma che si limita a riconoscere una tutela minima nei confronti di chi non abbia maturato i requisiti per altro trattamento pensionistico.

Peraltro, ancor prima dell’entrata in vigore della legge n. 222/1984 era stata segnalata in dottrina l’incongruenza derivante dall’impossibilità di trasformare la pensione di invalidità in altra prestazione pensionistica: il pensionato di invalidità, le cui condizioni fisiche subiscano un miglioramento tale da comportare una revoca della pensione, può conseguire, occorrendone i requisiti, una pensione di vecchiaia. Pertanto questi si troverà in una migliore condizione rispetto al pensionato che permane nello stato di invalidità senza poter far valere i requisiti nel frattempo maturati per conseguire la più favorevole pensione di vecchiaia.

L’orientamento dottrinario in questione non si è limitato, però, a confutare l’operatività del principio di immodificabilità del titolo, ma ha ritenuto che, al contrario, vi fossero sufficienti ragioni, sia sul piano normativo, che su quello sistematico, per affermare l’operatività del principio opposto della trasformabilità del titolo della pensione.

Sul piano normativo, le numerose disposizioni che disciplinano casi di trasformazione, riliquidazione, equiparazione della pensione, non solo non possono essere considerate eccezioni al principio generale del divieto di mutamento titolo, ma sarebbero esse stesse la dimostrazione dell’esistenza dell’opposto principio di mutabilità del titolo stesso. Sul piano sistematico, invece, diversi sono i principi dai quali si dovrebbe desumere la possibilità di trasformare il titolo pensionistico.

In particolare, dal principio di indisponibilità del diritto a pensione dovrebbe conseguire che, qualora il lavoratore abbia richiesto la prestazione, al verificarsi del primo evento protetto, non si possa ritenere che questi abbia perduto il diritto al trattamento previsto per altro evento protetto.

Inoltre, l’unicità del rapporto assicurativo può voler dire che, soprattutto nei confronti dei titolari di pensione di invalidità soggetta a modifica o revoca ex articolo 10 regio decreto legge n. 636/1939, lo stesso rapporto debba rimanere aperto così da consentire che da esso possano scaturire tutte le forme di tutela assicurativa connesse ad eventi previsti nell’assicurazione generale obbligatoria.

Peraltro, poiché il versamento di contribuzione avviene senza imputazione ad una specifica prestazione assicurativa, si deve poter ritenere che la contribuzione indistintamente e globalmente versata produce i suoi effetti nel corso del rapporto assicurativo a seconda degli eventi che si succedono nel tempo. La scelta tra eventi per i quali si richiede debba essere utilizzata la contribuzione, spetta all’assicurato come al pensionato. Dall’esercizio dello ius variandi compiuto dal pensionato consegue solo lo storno dei contributi da una ad un’altra forma di pensionamento, con revoca del precedente atto di liquidazione.

Sul piano, poi, della legittimità costituzionale, la questione della trasformabilità del titolo pensionistico non può essere affrontata richiamando il principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione, bensì richiamando il più specifico articolo 38, secondo comma. È questa disposizione che impone di prevedere prestazioni previdenziali che assicurino ai pensionati «mezzi adeguati alle loro esigenze di vita». Alla luce di tale disposizione il diritto alle prestazioni previdenziali, come il diritto alla retribuzione, si configura come diritto della personalità, cioè attribuito in funzione dell’attuazione della dignità umana: in quanto tale esso non può soffrire limiti che non siano connessi alla funzione che è destinato a svolgere.

A partire dai primi anni ‘90 si registra un mutamento dell’orientamento giurisprudenziale con sentenze che fanno propria la tesi della trasformabilità del titolo pensionistico. Ad aprire la breccia è la sentenza n. 8820/1992 con la quale la Corte di Cassazione afferma che «lo stesso principio di immutabilità del titolo del trattamento pensionistico, essendo mutato il quadro di riferimento normativo nel quale la giurisprudenza di questa Corte lo ha espresso e ribadito, non è più, ad avviso di questo Collegio caratterizzato da quella illimitata valenza della quale in passato lo si accreditava.».

La stessa sentenza afferma poi che la disposizione di cui all’articolo 1, comma 10, legge n. 222/1984 può essere a sua volta espressione di un principio di mutabilità del titolo trattamento pensionistico. Tale principio, che, peraltro, nella fattispecie in esame era ultroneo ai fini della decisione, è stato motivato in modo più articolato in pronunce successive.

Con la sentenza n. 1821/1998 sono state fatte proprie le argomentazioni dottrinarie sopra richiamate, in particolare al fine di confutare la tesi tradizionale dell’immodificabilità del titolo: «l’alternatività fra i diversi tipi di pensione, atteso lo scopo di individuare e qualificare adeguatamente la situazione di bisogno in cui in un dato istante versa il soggetto protetto, è naturale conseguenza del carattere e della funzione giuridica dello stesso intervento previdenziale, volto com’è a garantire il reddito del soggetto entro limiti e secondo modalità tecnico-operative fissati inderogabilmente dalla legge. La circostanza poi, che lo stato di bisogno non possa che configurarsi come un unico fatto giuridico nell’ambito del regime generale, importa che la prestazione previdenziale sia unica anche nell’ipotesi di concorso di più fattispecie pensionistiche rispetto ad uno stesso interessato, nel senso, cioè, che, se si sono realizzati i requisiti richiesti per più tipi di pensione, al soggetto protetto è dovuto un trattamento pensionistico ed uno soltanto erogato esclusivamente nella misura di cui, a prescindere dal titolo della pensione accordata, è capace la sua posizione assicurativa.

Ne consegue che l’anzidetto principio dell’alternatività preclusiva, concentrando nei confronti di un medesimo assicurato le varie ipotesi pensionistiche nell’unità della prestazione, tende a sorreggere il momento erogativo di quest’ultima e non può, perciò, essere utilizzato per configurare l’inammissibilità dell’esercizio di una facoltà che attiene, invece, al contenuto della posizione assicurativa ed, in particolare, al suo valore economico di bene giuridico.».

La successiva sentenza n. 6603/1998 motiva chiaramente le ragioni per le quali si può ritenere operante nell’ordinamento l’opposto principio della mutabilità del titolo: «È stato così rilevato che l’articolo 1, comma decimo, della legge 12 giugno 1984, n. 222, di revisione dell’invalidità pensionabile, consentendo la trasformazione dello assegno di invalidità in pensione di vecchiaia, in presenza dei requisiti necessari, si ricollega a un concetto, più generale ed immanente nel sistema, di posizione assicurativa, caratterizzata dalla sua unicità quale base fattale che legittima tutti gli interventi di tutela economica possibili in favore del suo titolare e che è di continuo finalizzata a soddisfare quelle esigenze sociali che il legislatore ha tipizzato nelle diverse fattispecie pensionistiche. E tale collegamento (ha osservato ancora la Corte con la sentenza ult. cit. [Corte di Cassazione n. 8820/1992]) consente di configurarla come espressiva di un principio di mutabilità del titolo del trattamento, in considerazione della idoneità alla produzione dell’uno e dell’altro trattamento che la posizione assicurativa può assumere in progresso di tempo.».

In base alle due sentenze testè citate è stata riconosciuta la possibilità di trasformare la pensione di invalidità in pensione di vecchiaia (n. 6603/1998) e l’assegno di invalidità in pensione di anzianità (1821/1998).

In tale contesto, va però sottolineato un aspetto la cui importanza apparirà più chiara in seguito: la possibilità di trasformazione del titolo, nelle fattispecie prese in considerazione dalle due sentenze, non è consentita, in virtù dell’applicazione analogica dell’articolo 1, comma 10, della legge n. 222/1984 (peraltro espressamente esclusa dalla sentenza n. 1821/98), ma piuttosto in virtù dell’applicazione di un principio immanente nel sistema pensionistico, del quale lo stesso comma 10 è espressione, di “trasformabilità del trattamento pensionistico”. Ciò in quanto, le norme più volte citate, tra cui lo stesso comma 10, che prevedono la riliquidazione, l’equiparazione e la trasformazione della pensione sono la prova di come l’ordinamento garantisca sempre all’assicurato/pensionato una progressione nella tutela dell’evento protetto.

Dal principio in questione non può che discendere, anche per il pensionato, la facoltà di accedere comunque, ove si siano verificate le condizioni richieste, al trattamento pensionistico più vantaggioso.

4. Sentenze delle Sezioni unite in materia di trasformazione del titolo pensionistico: 4 maggio 2004, n. 8433 e del 19 maggio 2004, n. 9492

Le pronunce delle Sezioni unite del maggio 2004 (n. 8433 e n. 9492) intervengono quindi in un momento in cui era stato ribaltato il tradizionale orientamento giurisprudenziale dell’alternatività preclusiva per affermare l’opposto principio della trasformabilità del titolo. Nel frattempo però vi erano state anche sentenze che avevano delimitato l’ambito di operatività del principio in questione. In particolare la sentenza n. 5097/2003 aveva riaffermato il divieto di trasformazione per l’assegno di invalidità in pensione di anzianità.

Si rendeva necessario quindi un intervento chiarificatore.

Innanzitutto va precisato come le due sentenze facciano proprie le ragioni dell’orientamento giurisprudenziale più recente, per quanto attiene alla confutazione della tesi tradizionale, affermando cioè che non vi è alcun dato normativo che consente di sostenere che nel nostro ordinamento operi un principio di divieto di trasformazione del titolo pensionistico. In particolare si afferma che «una regola di questo tipo, non può essere ricavata dalle norme dall’articolo 45 del regio decreto legge n. 1827/1935 e dall’articolo 9 del regio decreto legge n. 636/1939. La prima disposizione, nel disporre che l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia ha per scopo principe l’assegnazione di una pensione nel caso di invalidità al lavoro o di vecchiaia non è assolutamente di ostacolo, nel suo contenuto letterale, al mutamento del titolo della pensione, ma solo alla attribuzione congiunta dell’una e dell’altra prestazione; e un contenuto sostanzialmente identico ha la previsione dell’articolo 2, comma primo, parte prima, del regio decreto legge n. 636/1939.

Analoghe considerazioni valgono per le previsioni dell’articolo 9 del medesimo regio decreto-legge n. 636/1939 che, stabilendo i requisiti rispettivamente necessari per l’attribuzione della pensione di vecchiaia e della pensione di invalidità, configurano indubbiamente ipotesi alternative di tutela nell’ambito dell’assicurazione generale obbligatoria, ma non implicano di per sé l’esclusività, nel senso indicato, dell’una e dell’altra prestazione. D’altro canto, le diverse norme, sopra ricordate sub 1.2, che per varie fattispecie, consentono la liquidazione della pensione in godimento in base a diversi criteri, e specialmente la regola di trasformazione dell’assegno di invalidità in pensione di vecchiaia introdotta dall’articolo 1, comma 10, della legge n. 222/1984 sembrano difficilmente riconducibili ad ipotesi eccezionali di deroga ad un divieto generale: esse inducono invece ad escludere la possibilità di giungere, attraverso una ricostruzione sistematica della legislazione previdenziale, all’affermazione (sia) di un principio generale di divieto di mutamento del titolo della prestazione pensionistica…».

Le Sezione unite non fanno propria invece la tesi sostenuta dal più recente orientamento giurisprudenziale laddove, dalle ceneri del defunto principio dell’alternatività preclusiva si faceva nascere il principio inverso, di portata ugualmente generale, di mutabilità del titolo. «Queste opzioni ricostruttive sono infatti destinate ad incontrare un insuperabile ostacolo rappresentato dal carattere estremamente frammentario del complesso normativo, che nella sua evoluzione lascia trasparire opzioni e politiche del diritto mutevoli, perché ispirate dal contingente.».

Viene inoltre negato uno dei presupposti sui quali si basava la tesi della trasformabilità, quello secondo cui il fatto giuridico dal quale conseguiva la tutela previdenziale è comunque unico ed è rappresentato dallo stato di bisogno. A ben vedere non sempre l’intervento previdenziale, nell’ambito del regime generale, è giustificato da una situazione di bisogno. Tale, infatti, non può essere considerata l’anzianità contributiva che è presupposto per la pensione di anzianità. Pertanto se viene meno l’unicità della qualificazione del presupposto giuridico che giustifica le diverse fattispecie pensionistiche dell’assicurazione generale viene meno anche la possibilità di individuare un unico principio generale che consenta, per tutti i tipi di trattamento pensionistico, la trasformazione del titolo. Al contrario affermano le Sezioni unite «Il problema può essere correttamente impostato e risolto, ad avviso di questa Corte, solo nell’ambito della disciplina dei singoli istituti, tenuto conto delle specifiche caratteristiche della tutela accordata con ciascuno di essi dall’ordinamento, anche alla luce dei principi costituzionali in materia». Per cui anche la validità dell’affermato principio di «idoneità della posizione assicurativa a realizzare nel corso del tempo i presupposti per l’attribuzione dell’una o dell’altra prestazione» può essere riconosciuta solo dopo aver indagato i collegamenti esistenti «tra l’una e l’altra prestazione».

A questo punto si può cominciare a comprendere, come sia stato possibile che, dopo aver indagato il rapporto esistente tra le prestazioni di invalidità da un lato e le prestazioni di vecchiaia e anzianità dall’altro, le Sezioni unite, in merito alla trasformabilità del titolo, siano giunte, con due differenti pronunce, ad opposte decisioni.

Sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni unite n. 8433/2004: trasformabilità della prestazione di invalidità in pensione di vecchiaia

Il dato normativo ci consegna diversi casi in cui è possibile cogliere un collegamento tra le prestazioni per l’invalidità e la pensione di vecchiaia. A partire dall’articolo 45 del regio decreto legge n. 1827/1935 e dagli articoli 2 e 9 del regio decreto legge. n. 636/1939 con i quali si indicano nella invalidità e la vecchiaia i due eventi oggetto di tutela nell’assicurazione generale obbligatoria.

Ulteriore prova di tale collegamento è rappresentata dal citato articolo 8 della legge n. 638/1983 che dispone che le pensioni di invalidità sospese per motivi reddituali si ripristinano comunque al raggiungimento dell’età pensionabile.

La Corte Costituzionale ha confermato il medesimo collegamento con sentenza n. 436/1988 laddove ha affermato che le prestazioni di invalidità spettano anche al raggiungimento dell’età pensionabile qualora il lavoratore non avesse ancora raggiunto i requisiti contributivi per conseguire la pensione di vecchiaia.

Infine, proprio l’articolo 1, comma 10, della legge n. 222/1984, nel prevedere la trasformabilità dell’assegno di invalidità in pensione di vecchiaia rappresenta l’esempio limpido del collegamento esistente tra i due tipi di prestazioni.

Tale collegamento trova origine nell’identità della natura del rischio protetto dalle due fattispecie, cioè la situazione di bisogno conseguente la riduzione o la perdita della capacità di lavoro. Non è un caso se l’articolo 38 della Costituzione fa riferimento proprio all’invalidità e alla vecchiaia come casi per i quali devono essere garantiti “gli adeguati mezzi di vita”, imponendo quindi al legislatore di tipizzare, attraverso le due fattispecie pensionistiche le modalità di tutela dello specifico stato di bisogno.

In questo caso l’unicità della natura del rischio protetto consente di sostenere l’idoneità dell’unica posizione assicurativa a realizzare nel corso del tempo i presupposti per l’attribuzione del trattamento di invalidità e di quello di vecchiaia.

Pertanto le Sezioni unite possono concludere che «la regola posta dall’articolo 1, decimo comma della legge n. 222/1984, trova applicazione anche per il trattamento della pensione di invalidità previsto dal precedente regime, in quanto espressivo di un principio generale, affermato con l’entrata in vigore della legge citata, di idoneità dell’unica posizione assicurativa a realizzare i presupposti delle varie forme previdenziali considerate, in funzione della protezione dalla stessa situazione generatrice di bisogno.».

Sentenza della Cassazione, Sezioni unite n. 9492/2004: immutabilità delle prestazioni di invalidità in pensione di anzianità

Le considerazioni svolte dalle Sezioni unite sono invece diverse per quanto riguarda la pensione di anzianità. Per essa, infatti, non è dato rilevare un riferimento normativo che la colleghi in qualche modo alle prestazioni di invalidità. Ciò, soprattutto, perché è diverso il presupposto che giustifica le due diverse tipologie di trattamenti previdenziali. Il trattamento di anzianità non ha infatti la sua ragion d’essere in una situazione generatrice di bisogno oggetto di tutela. «Con riguardo ad essa non opera la suddetta garanzia costituzionale, riservata, come più volte è stato affermato dal giudice delle leggi, alle pensioni che trovano la loro causa nella cessazione dell’attività lavorativa per ragioni di età e non anche a quelle il cui presupposto consiste nel mero avvenuto svolgimento dell’attività stessa per un tempo predeterminato, così come nel caso dei trattamenti pensionistici di anzianità, che corrispondono ad una forma previdenziale affatto diversa, indipendente dall’età e fondata esclusivamente sulla durata dell’attività lavorativa sulla correlativa anzianità di contribuzione effettiva (Corte Costituzionale 2 maggio 1991, n. 194; 28 novembre 1997, n. 372; 4 novembre 1999, n. 416; 19 maggio 2002, n. 70). Tale prestazione rappresenta un “riconoscimento ed un premio per la fedeltà al servizio” (Corte Costituzionale n. 194/1991 cit.), e non è comparabile con le altre forme previdenziali comprese nell’area di tutela dell’articolo 38 Costituzione; la relativa disciplina non può essere dunque richiamata per trarre dalla normativa in tema di pensione di vecchiaia (in quanto caratterizzante il sistema previdenziale “nel suo complesso”, secondo l’opinione seguita da Corte di Cassazione n. 6603/1998 e Corte di Cassazione n. 9462/2003 cit.) una regola di contenuto analogo a quella contenuta nel citato articolo 1, comma 10, della legge n. 222/1984, che consente la conversione del trattamento di invalidità in pensione di anzianità.».

Conclusioni

Da quanto detto sinora si dovrebbe comprendere come sia stato possibile, per le Sezioni unite affermare da un lato, che nella legislazione previdenziale non esiste un principio generale di mutabilità del titolo e dall’altro che esiste invece comunque un principio per il quale, in funzione della protezione della stessa situazione generatrice di bisogno, l’unica posizione assicurativa può realizzare i presupporti sia delle prestazioni di invalidità che di quella di vecchiaia.

Tale apparente discrasia è dovuta alla circostanza che nell’assicurazione generale obbligatoria sono previsti trattamenti previdenziali che hanno funzioni tra loro diverse. Inoltre la tutela previdenziale garantita con l’assicurazione generale è più ampia di quella prevista dall’articolo 38 della Costituzione nel senso che copre eventi ulteriori rispetto a quelli richiamati dal precetto costituzionale. Abbiamo visto come una delle principali motivazioni poste a sostegno della tesi della mutabilità del titolo fosse quella per cui tale principio, realizzando una progressione nella tutela dell’evento-rischio protetto, era in grado di assicurare a pieno, per le situazioni indicate dall’articolo 38, gli «adeguati mezzi di vita». Tale motivazione viene quindi meno allorché la trasformabilità del titolo è funzionale alla tutela di eventi, quali l’anzianità contributiva, che non rientrano tra quelli ai quali fa riferimento l’articolo 38. Neppure si può parlare poi di progressione della tutela dell’evento protetto per i casi in cui la trasformazione avviene tra prestazioni, come quelle di invalidità e di anzianità, per le quali manca l’identità del rischio tutelato.

Certo è che, per poter sostenere che la trasformazione delle prestazioni di invalidità è consentita solo rispetto al trattamento di vecchiaia e non a quello di anzianità, le Sezioni unite hanno dovuto affermare che la pensione di anzianità non ha un diretto fondamento costituzionale nell’articolo 38 della Costituzione.

Una volta però compiuta tale operazione, le conclusioni sono coerenti con le premesse.

5. Trasformazione della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia: automaticità o necessità di un’istanza di parte?

A seguito delle pronunce delle Sezioni unite, quindi, oltre a quella di cui al citato comma 10, l’unica ipotesi di trasformazione del titolo consentita è quella della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia. Nella sentenza che afferma tale principio le Sezioni unite non hanno avuto modo di affrontare la questione relativa alle modalità attraverso le quali deve avvenire tale trasformazione: se essa, cioè, debba essere conseguente comunque ad un’istanza di parte del soggetto che ha perfezionato i requisiti per il trattamento di vecchiaia, o se invece debba avvenire automaticamente al verificarsi di tali requisiti, da accertarsi d’ufficio.

La questione, che pure si era posta prima delle pronunce delle Sezioni unite, presentava allora meno incertezze. Infatti tutte le sentenze che avevano affermato l’operatività del principio generale di mutabilità del titolo avevano anche sostenuto come da tale principio conseguisse una specifica facoltà di opzione (sentenza n. 6603/1998). Pertanto la mutabilità del titolo, almeno in via generale, poteva essere consentita necessariamente previa domanda di parte, salvo l’ipotesi espressamente disciplinata dal comma 10.

Come già precisato, la sentenza n. 1821/1998 della Corte di Cassazione, nell’affermare la trasformabilità dell’assegno di invalidità in pensione di anzianità, ha escluso che ciò possa avvenire in virtù di un’applicazione analogica del comma 10.

Nel momento in cui le Sezioni unite hanno negato il principio generale di mutabilità del titolo stabilendo che solo la pensione di invalidità può essere trasformata in pensione di vecchiaia, si è reso necessario verificare se, i criteri amministrativi precedentemente adottati, continuassero ad essere coerenti con il nuovo indirizzo giurisprudenziale, e in particolare se, per la trasformazione della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia, si dovesse continuare a ritenere necessaria l’istanza di parte, o se invece alla luce delle ultime pronunce si dovesse ritenere operante il meccanismo della trasformazione d’ufficio.

Con la circolare n 134 del 29 settembre 2004 l’INPS, nel recepire i principi affermati dalle Sezioni unite, ha confermato i criteri sino ad allora seguiti in ordine alle modalità di trasformazione del titolo. Pertanto la pensione di invalidità si trasforma, previa domanda, in pensione di vecchiaia.

Le ragioni che depongono a favore di tale soluzione sono diverse. Innanzitutto quando le Sezioni unite affermano che la regola posta dal comma 10 trova applicazione anche per la pensione di invalidità prevista dal precedente regime, si deve ritenere che facciano riferimento esclusivamente alla regola relativa alla trasformabilità della prestazione. Nulla fa presupporre che l’estensione riguardi anche la regola dell’automaticità della trasformazione. A prescindere da ogni tentativo di interpretazione della sentenza delle Sezioni unite, da tali pronunce non è comunque possibile ricavare sufficienti motivazioni che consentono di approdare a soluzioni diverse da quelle precedentemente adottate. Al contrario proprio nella sentenza n. 8433/2004 si ritrovano, seppur espresse in termini diversi, le stesse argomentazioni che già avevano portato la Corte di Cassazione, nelle precedenti pronunce ad affermare la facoltà di opzione per il titolare di pensione. Infatti seppur limitando l’ambito di applicazione ai trattamenti che tutelano la stessa situazione generatrice di bisogno, le Sezioni unite ripropongono il principio di idoneità della posizione assicurativa a realizzare i presupposti dei diversi trattamenti. Da tale idoneità, coerentemente con quanto affermato nelle precedenti sentenze, deriva in capo al titolare della pensione una facoltà di mutamento del titolo del trattamento, la quale non può che essere esercita mediante istanza di parte; appare invece difficile argomentare che, a tale idoneità, si ricolleghi un provvedimento emesso all’esito di un procedimento d’ufficio di accertamento dei presupposti di un diverso trattamento.

Inoltre anche volendosi discostare dalle pronunce delle Sezioni unite va detto che la necessità di richiedere una previa domanda per la trasformazione della pensione di invalidità trae origine da ragioni strettamente sistematiche.

L’attuale ordinamento previdenziale prevede infatti che, a fronte di una situazione giuridica attiva consistente nel perfezionamento dei requisiti previsti per un determinato trattamento previdenziale, l’effetto giuridico della titolarità della prestazione consegue da una manifestazione di volontà dell’interessato.

Pertanto se la regola generale è quella per cui, una volta perfezionati i requisiti, le prestazioni si conseguono a domanda, una disposizione come il comma 10, derogando eccezionalmente a tale regola, non può che avere applicazione circoscritta alla fattispecie espressamente indicata.

È possibile, poi, che si verifichino “situazioni limite” in cui il titolare di una pensione di invalidità abbia interesse a mantenere tale tipo di trattamento, invece di quello di vecchia. In tal caso un’applicazione analogica del comma 10, avverrebbe in malam partem.

Si deve ritenere, quindi, che vi siano sufficienti ragioni per affermare che la trasformazione della pensione di invalidità in vecchiaia possa avvenire solo su istanza di parte.

Questa soluzione è stata da ultimo accolta anche dalla Corte di Cassazione che, nella sentenza n. 622/2005 afferma che «Tuttavia proprio per la mancanza di qualsiasi previsione espressa della legge, non può ipotizzarsi la trasformazione automatica della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia. È quindi indispensabile in primo luogo, secondo la regola generale che presiede alla pensione di vecchiaia, la espressa domanda dell’interessato. La necessità di inoltrare domanda per la pensione di vecchiaia era invero prevista dall’articolo 62 del regio decreto legge 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito in legge 6 aprile 1936, n. 1155, come modificato dall’articolo 18 del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488; lo si desume dal fatto che la data della domanda determinava la decorrenza della prestazione, questa infatti maturava dal primo giorno del mese successivo al compimento dell’età pensionabile, il che però non fa venire meno la necessità della domanda, che viene data come presupposto, contemplando detta disposizione la facoltà dell’assicurato di chiederne la decorrenza dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda.».

Chiarita la questione relativa alla necessità dell’istanza di parte per la trasformazione della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia, resta da approfondire l’aspetto relativo alla decorrenza del trattamento di vecchiaia riconosciuto a seguito della trasformazione della pensione di invalidità.

Sul punto va segnalata una giurisprudenza di merito, anteriore alla sentenza sopra richiamata, che, pur affermando la necessità della previa domanda di parte ai fini della trasformazione del titolo, ritiene comunque che gli effetti della trasformazione debbano retroagire al momento del perfezionamento dei requisiti per la pensione di vecchiaia, con relativa corresponsione di arretrati e interessi. In attesa che su questo aspetto si pronunci in modo definitivo la Corte di Cassazione si può anticipare che vi sono sufficienti ragioni per respingere tale soluzione e sostenere, invece, che la decorrenza della pensione non può essere comunque anteriore al primo giorno del mese successivo a quello della domanda di trasformazione.

La circostanza che la domanda di pensione di vecchiaia, ai sensi dell’articolo 6, legge n. 155/1981, decorre dal momento del perfezionamento dei requisiti pensionistici si giustifica solo con la necessità di riconoscere, comunque, una tutela previdenziale per un periodo in cui non vi è corresponsione né di una retribuzione, né di un trattamento pensionistico, ma al tempo stesso si è già generata una situazione di bisogno.

Tale necessità non si presenta nel caso di trasformazione del titolo, in quanto, per il periodo in cui non viene presentata la domanda di mutamento del trattamento, l’interessato non è privo di tutela previdenziale.

Questa circostanza è decisiva per escludere che la disciplina della decorrenza della pensione di vecchiaia possa essere unica sia per il caso in cui essa sia riconosciuta a seguito di una semplice domanda di pensione, sia per il caso in cui sia riconosciuta a seguito di una domanda di trasformazione.

I due atti introduttivi, anche se danno luogo al medesimo provvedimento, sono tra loro differenti. Infatti, poiché il principio dell’alternatività impedisce la coesistenza di due trattamenti, la domanda di trasformazione deve essere idonea anche a produrre l’effetto della soppressione del precedente trattamento che, nel caso di specie, è una pensione di invalidità. Quest’ultima, infatti, che pure viene riconosciuta a domanda di parte, continua ad essere legittimamente corrisposta fino a quando non interviene una diversa manifestazione di volontà. Affermando che la pensione di vecchiaia decorre in ogni caso dal perfezionarsi dei requisiti pensionistici, si riconosce a tale manifestazione di volontà, e cioè alla domanda di trasformazione, un effetto retroattivo, mutandone, in tal modo, la relativa qualificazione giuridica. Infatti, la domanda di trasformazione del titolo, proprio perché ha come effetto la sostituzione di un precedente trattamento, contiene in sé un’implicita domanda di revoca, con efficacia ex nunc, del trattamento medesimo. Qualora, invece, gli effetti della domanda di trasformazione dovessero retroagire, la medesima domanda, dovrebbe qualificarsi, in modo del tutto anomalo, come “domanda di annullamento” della prestazione in essere, avente efficacia ex tunc.

La preclusione rappresentata da un trattamento previdenziale in essere non consente, quindi, di riconoscere alla domanda di trasformazione un’efficacia retroattiva.

Pertanto, nel momento in cui si afferma la necessità della domanda al fine di consentire la trasformazione della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia, non vi sono motivi per allontanarsi dalla regola generale secondo cui il trattamento previdenziale decorre dal primo giorno del mese successivo a quello della domanda.

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1 In tal senso cfr. Corte di Cassazione n. 4829/2001. In senso opposto cfr. Corte di Cassazione n. 15069/2001 dove si afferma che «al verificarsi dell’evento temporale in questione, la pensione di anzianità liquidata anteriormente non si trasforma in pensione di vecchiaia e non richiede una nuova liquidazione, anche se essa è soggetta alla medesima disciplina di quella di vecchiaia e l’unica conseguenza ricollegabile all’equiparazione consiste nella circostanza che il pensionato è posto nella stessa condizione in cui si sarebbe trovato se fosse stato titolare di pensione di vecchiaia.».

In tale contesto non può non essere richiamata la sentenza del 4 maggio 2004, n. 8435 con la quale, a Sezioni unite, la Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi sull’interpretazione dell’articolo 10 della legge n. 672/1973 che, riguardo alle pensioni di anzianità erogate a carico dei Fondi dei telefonici, contiene una norma identica all’articolo 22, comma 6, della legge n. 153/1969. Infatti, il penultimo comma del citato articolo 10 prevede che «La pensione di anzianità è equiparata a tutti gli effetti alla pensione di vecchiaia quando il titolare di essa compie l’età stabilita per il pensionamento di vecchiaia.». Le Sezioni unite, chiamate a stabilire se «tale equiparazione comporti la determinazione dell’importo della prestazione nella stessa misura della pensione di vecchiaia limitando così, alla soglia temporale dell’età pensionabile la riduzione dell’ammontare della prestazione» hanno affermato che «la risposta deve essere positiva.».

Pertanto, per le prestazioni erogate dal Fondo dei telefonici, l’equiparazione della pensione di anzianità alla pensione di vecchiaia dà luogo comunque ad una riliquidazione. Va verificato in che misura la sentenza richiamata possa favorire una riconsiderazione anche della portata della “disposizione gemella” contenuta nella legge n. 153/1969.

2 A. MANESCHI, Le prestazioni a carico delle gestioni dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, in Rivista Italiana della Previdenza sociale, 1967, 1130 «l’atto di ammissione alla pensione ha carattere definitivo, che dura per tutta la vita del suo titolare, salvo il verificarsi di fatti estintivi del diritto esplicitamene previsti dalla legge, quali la soppressione della pensione d’invalidità ex articolo 10 regio decreto legge. n. 636 del 1939 e l’annullamento del provvedimento d’ammissione ex initio illegittimo.».

3 In particolare cfr.: Corte di Cassazione 16 maggio 1973, n. 1402; Corte di Cassazione 20 giugno 1972, n. 1971; Corte di Cassazione 18 giugno 1975, n. 2457.

4 SQUILLACCIOTTI F., Immutabilità del titolo della pensione, in Previdenza Sociale, 1970, 1932.

5 SQUILLACCIOTTI F., Immutabilità del titolo della pensione, in Previdenza Sociale, 1970, 1932.

6 La legge n. 222/1984 ha ridefinito la disciplina relativa alle prestazioni dovute per l’invalidità sostituendo all’unica prestazione prevista dal regime precedente (la pensione di invalidità) due prestazioni differenti in funzione del diverso grado di invalidità: l’assegno di invalidità previsto in caso di riduzione permanente superiore a due terzi della capacità di lavoro e la pensione di inabilità prevista in caso di invalidità totale.

7 Ad ulteriore conferma di quanto detto si richiama la disposizione di cui all’articolo 2-ter della legge n. 114/1974 che ha riconosciuto anche agli assicurati che hanno già liquidato una pensione a carico di una delle Gestioni speciali dei lavoratori autonomi la possibilità di ottenere a determinate condizioni la pensione nell’assicurazione generale. Ai commi 2 e 3 tale disposizione prevede che «Ai fini del perfezionamento del diritto a pensione nell’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti sono considerati utili anche i contributi della predetta assicurazione eventualmente utilizzati per la liquidazione a carico della gestione speciale ovvero di un supplemento di essa.

La pensione della gestione speciale per i lavoratori autonomi è revocata con effetto dalla data di decorrenza della pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti.».

8 Cfr. Corte Costituzionale, 30 maggio 1995, n. 205.

Corte Costituzionale, 20 dicembre 1988, n. 1116. In quest’ultima sentenza la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità della legge n. 222/1984 nella parte in cui preclude il diritto di conseguire la pensione ordinaria di inabilità ai lavoratori affetti da una causa di assoluta e permanente impossibilita di svolgere qualsiasi attività lavorativa quando siano già titolari di pensione di invalidità con decorrenza anteriore alla data di entrata in vigore della legge. La Corte ha dichiarato la questione infondata in quanto «il discrimine ratione temporis dettato dalle norme impugnate è giustificato dal principio di gradualità dell’intervento legislativo per l’attuazione di un sistema ottimale di prestazioni previdenziali secondo la direttiva dell’articolo 38 Costituzione. Tale principio legittima differenze di trattamento collegate alla successione temporale delle fasi di sviluppo del sistema.».

9 Cfr. Corte di Cassazione 16 maggio 1973, n. 1402.

10 A. MANESCHI, Le prestazioni a carico delle gestioni dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, in Riv. it. prev. soc., 1967, 1130.

11 Cfr. Corte d’Appello di Genova 23 maggio 1970.

12 G. NAPOLITANO in Trattato di previdenza sociale, diretto da B. BUSSI e M. PERSIANI, I, Cedam, Padova, 1974 297.

13 Cfr. Corte d’Appello di Genova 23 maggio 1970.

14 Cfr. Corte d’Appello di Genova 23 maggio 1970.

15 In questo senso anche le Sezioni unite nella sentenza n. 8433/2004 sottolineano che una disposizione analoga (articolo 1, comma 9, legge n. 222/1984) è stata prevista anche per l’assegno di invalidità che, ai sensi del citato comma 10, è trasformabile in pensione di vecchiaia. Ciò dovrebbe confermare come la possibilità di liquidare supplementi di pensione può coesistere con la trasformabilità della pensione medesima.

16 G. NAPOLITANO in Trattato di previdenza sociale, diretto da B. BUSSI e M. PERSIANI, I, Ed. Cedam, Padova, 1974, 301.

17 G. NAPOLITANO in Trattato di previdenza sociale diretto, da B. BUSSI e M. PERSIANI, I, Ed. Cedam, Padova, 1974, 303. In tal senso si veda anche Corte di Cassazione 7 giugno 1998, n. 6603.

18 Cfr. Corte d’Appello di Genova 23 maggio 1970.

19 C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Ed. Cedam, Padova, 1969.

20 Corte di Cassazione 27 luglio 1992, n. 8820.

21 Corte di Cassazione 20 febbraio 1998, n. 1821.

22 Corte di Cassazione 28 luglio 1998, n. 6603.

23 Sulla scia delle sentenze sopra richiamate si collocano anche: Corte di Cassazione 17 novembre 1997, n.11411; Corte di Cassazione 3 aprile 2001, n. 4911; Corte di Cassazione 2 aprile 2001, n. 4829; Corte di Cassazione 22 dicembre 2001, n. 15069; Corte di Cassazione 12 giugno 2003, n. 9462.

24 Corte di Cassazione 4 maggio 2004, n. 8433; Corte di Cassazione 19 maggio 2004, n. 9492.

25 Corte di Cassazione 4 maggio 2004, n. 8433; Corte di Cassazione 19 maggio 2004, n. 9492.

26 Cfr. Corte Costituzionale 14 aprile 1988, n. 436.

27 Corte di Cassazione 4 maggio 2004, n. 8433.

28 Corte di Cassazione 19 maggio 2004, n. 9492.

29 In senso contrario sembrerebbe essersi espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 5097/2004, precedente alle pronunce delle Sezioni unite, con la quale, nell’escludere la trasformabilità delle prestazioni di invalidità in pensione di anzianità si afferma che il principio della trasformazione automatica di cui al comma 10 è previsto «per tutte le prestazioni erogate dall’Inps agli invalidi civili (assegno di invalidità, pensione di inabilità, secondo la suddetta legge n. 222 del 1984, nonché pensione di invalidità, secondo le disposizioni di legge anteriori).».

30 A favore dell’applicazione analogica del comma 10 e quindi dell’automatica trasformabilità della pensione di invalidità si è espressa la Corte di Appello di Ancona, con sentenza del 31 ottobre 2003, n. 543 in cui si legge che «l’unica ragione che ha indotto la Suprema Corte (nelle sentenze n. 4911/2001, n. 4829/2001 e n. 1821/1998) a non applicare in tutto e per tutto alle fattispecie sottoposte al suo esame la disciplina dell’articolo 1, comma 10, legge n. 222/1984, circa l’automatismo della trasformazione della provvidenza dovuta per l’invalidità, va ricercata nel fatto che in quei casi - diversamente dalla specie - le prestazioni in atto dovevano convertirsi in pensione di anzianità. La quale al contrario di quella di vecchiaia, può essere riconosciuta solo a domanda dell’assicurato ed il diritto alla sua erogazione sorge solo nel momento in cui l’assicurato esercita la facoltà di chiedere tale prestazione. Per il che si rende impossibile la conversione automatica di una qualsiasi prestazione previdenziale in atto nella pensione di anzianità.

Ma per il resto il principio ivi applicato è proprio quello mutuato dal disposto del richiamato articolo 1, comma 10, legge n. 222/1984.

D’altronde un caso come quello di specie, relativo alla richiesta di trasformazione di pensione di invalidità anteriore alla legge n. 222/1984, è già stato deciso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 6603 emessa il 7 luglio 1998 della Sezione lavoro. La quale, come correttamente rammentato dalla difesa dell’assicurato, ha statuito che dalle argomentazioni contenute nella sentenza n. 1116/1988 della Corte Costituzionale “circa la sostanziale omogeneità dell’istituto dell’invalidità così come raffigurato nel decreto del Presidente della Repubblica del 1984 (invalidità e inabilità) rispetto all’invalidità prevista nel precedente regime, può anche trarre conforto la tesi che la possibilità di mutare l’assegno di invalidità (olim pensione di invalidità non totale) in pensione di vecchiaia come previsto dall’articolo 1, comma decimo, del decreto del Presidente della Repubblica. n. 222 del 1984 sia indicativa della immanenza nel sistema anche della estendibilità di analoga conversione alla pensione per invalidità non totale del precedente regime”. Per cui l’applicazione analogica della predetta disposizione è ammessa all’ipotesi della trasformazione in pensione di vecchiaia della pensione di invalidità conseguita nel precedente regime previdenziale, in quanto omogenea all’attuale assegno di invalidità per il quale la norma stessa è dettata.

Con la conseguenza che la conversione di un trattamento nell’altro è del tutto automatica, con il raggiungimento dell’età all’uopo prevista ed in presenza del requisito contributivo ed assicurativo, posto che il diritto alla pensione di vecchiaia sorge in presenza di tali condizioni.».

Le argomentazioni svolte dalla Corte di Appello di Ancona non possono essere condivise.

Innanzitutto va ribadito che la pensione di vecchiaia non è diversa da quella di anzianità per quanto riguarda la necessità, ai fini del relativo riconoscimento, di una previa domanda da parte dell’interessato che abbia perfezionato i requisiti previsti.

In secondo luogo, entrando nel merito della pronuncia della Corte di Cassazione n. 6603/1998, va sottolineato come la trasformabilità della pensione di invalidità in vecchiaia è stata comunque riconosciuta a favore di un titolare di pensione di invalidità che aveva presentato domanda che il giudice di merito aveva interpretato come richiesta di mutamento del titolo della prestazione.

31 Su un caso riconducibile a tale fattispecie si è pronunciata la Corte di Cassazione proprio con la sentenza n. 662/2005, che di seguito è riportata. In particolare il ricorrente richiedeva che, ai fini del riconoscimento del beneficio di cui all’articolo 13 della legge n. 257/1992, fosse considerato titolare di pensione di invalidità alla data di entrata in vigore della legge e non invece titolare di pensione di vecchiaia, trattamento per il quale non era stata mai presentata la relativa domanda.

32 Corte di Cassazione 14 gennaio 2005, n. 622.

33 Tribunale di Macerata, sentenza 21 maggio 2003, n. 270, in cui si legge: «Mette peraltro conto di evidenziare che non può essere configurato un obbligo dell’ente previdenziale di disporre la conversione della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia al momento del compimento della relativa età pensionabile, alla stessa stregua di ciò che è previsto per l’assegno di invalidità a mente del comma 10 dell’articolo 1, legge 222/1984, atteso che la trasformazione automatica, che sottende un vero e proprio obbligo dell’ente previdenziale di provvedere alla predetta trasformazione anche in attesa di domanda dell’assicurato, è un’ipotesi speciale, di cui non può essere ammessa l’applicazione al di fuori dei limiti espressamente previsti, mentre per le ipotesi diverse da quella espressamente contemplata nell’articolo 1, comma 10, legge n. 222/1984 si deve ritenere che intanto la trasformazione debba aver luogo in quanto il pensionato abbia svolto l’opzione per il trattamento diverso, avanzando, come di regola, domanda all’ente previdenziale, nell’esercizio del potere di scelta del trattamento pensionistico che l’ordinamento gli riconosce. Come conseguenza di questa impostazione, ferma la decorrenza del diritto a pensione di vecchiaia all’epoca della sussistenza dei requisiti di età, assicurativi e contributivi, è solo dal 121° giorno successivo alla presentazione della domanda amministrativa che decorreranno gli interessi legali sulle reclamate differenze dei ratei già maturati».

Da quanto sopra riportato si desume che il Tribunale ha ritenuto che per stabilire la decorrenza della pensione di vecchiaia conseguita a seguito di trasformazione del titolo si dovesse applicare la norma di cui all’articolo 6, legge n. 155/1981, secondo la quale la pensione decorre dal primo giorno del primo giorno del mese successivo al perfezionamento dei requisiti o, su richiesta dell’interessato, dal primo giorno del mese successivo a quello della domanda.