REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dai seguenti Magistrati:

Sergio Mattone - Presidente

Donato Figurelli - Consigliere

Pietro Cuoco - Consigliere

Antonio Lamorgese - Consigliere

Alessandro De Renzis - Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Banco Po. di Ve. e No. Società Cooperativa a responsabilità limitata, in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione avv. Ca. Fr. Pa., con sede in Ve., alla piazza No. n. 2, già Banca Po. di No. Soc. Coop. a r.l., e ciò in virtù di atto di fusione del 21 maggio 2002, a rogito notaio Ru. Pi. di Ve., rep. 83349, racc. 14681, registrato a Ve. il 23 maggio 2002 al n. 2383/1 Banca Po. di No. scarl, a sua volta incorporante l'Istituto Nazionale di Credito Edilizio (INCE) S.p.a., giusta atto di fusione a rogito del notaio En. Co. di No., in data 12 dicembre 1995" rep. 123590;

Banca Po. di No. S.p.a., in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione avv. Fr. Za., con sede in No., alla via F.lli Ne. n, 12, quale cessionaria di ramo d'azienda della Banca Po. di No. Soc. Coop. a r.l., in virtù di atto a rogito notaio Pi. Ma. di Mi., rep. 17052, racc. 4971; entrambe elettivamente domiciliate in Ro., alla via Pi. da Pa. n. 63, presso lo studio dell'avv. Ma. Co. e del prof. avv. Gi. Co., che le rappresentano e difendono, giuste procure in calce al ricorso,

ricorrenti;

CONTRO

Al. La.,

intimato;

per l'annullamento della sentenza non definitiva della Corte d'Appello di Roma, Sezione Lavoro, in data 4 aprile 2002 - 14 aprile 2003, n. 1623/2003, R.G. n. 33384/2000;

udita la relazione della causa svolta dal consigliere Donato Figurelli nella pubblica udienza del 17 febbraio 2005;

udito l'avv. Ma. Co. per le società ricorrenti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. Carlo Destro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.1. Con ricorso depositato il 21 giugno 2000 il signor Al. La. proponeva appello avverso la sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Roma in data 4 febbraio 2000 n. 7106/2000, con cui, in parziale accoglimento della domanda proposta nei confronti della Banca Po. di No. S.p.a., era stata dichiarata la sua illegittima adibizione a mansioni, inferiori a quelle originariamente svolte, dal 20 gennaio 1994 al 12 gennaio 1998, con condanna della resistente a risarcire nei suoi confronti il danno liquidato, in via equitativa, in misura pari al 30% del trattamento economico corrisposto nello stesso periodo, oltre accessori, e rigettata la domanda di risarcimento del danno biologico e quella volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità delle note caratteristiche del 1996. Deduceva, al riguardo, che, a seguito di incorporazione dell'lNCE nella banca resistente, il 12 dicembre 1995 era divenuto dipendente della società convenuta e che, dopo aver avuto dei buoni giudizi per gli anni 1991-1995 (culminati nel 1994 e 1995 in distinto), aveva ricevuto, per l'anno 1996, il giudizio di mediocre. Deduceva, altresì, che, per quasi quattro anni, era stato adibito a mansioni dequalificanti, rispetto a quelle originarie. Censurava l'impugnata sentenza in ordine alla quantificazione del danno professionale -non avendo il primo giudice tenuto debitamente conto del demansionamento subito, sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo-, al mancato riconoscimento del danno biologico ed al rigetto della domanda concernente le note caratteristiche per il 1996.

Concludeva: a) in via preliminare per la revoca dell'ordinanza del giudice di primo grado in data 29 ottobre 1999, con la quale era stato dichiarato inammissibile il deposito dei documenti allegati alla memoria depositata nella data predetta (e venuti ad esistenza dopo l'inizio della causa), in quanto portatori di una domanda nuova nel presente giudizio, e con la quale era stata negata l'ammissione della CTU sulla persona del ricorrente al fine di quantificare il danno biologico; b) nel merito, "condannare la BPN a risarcire il danno professionale da dequalificazione e illegittimo esercizio dello "jus variandi", derivato al dipendente Al. La. dall'illegittima assegnazione a mansioni inferiori, da liquidarsi in misura non inferiore ad una mensilità di retribuzione, calcolata al lordo, per ogni mese di declassamento (dal 20 gennaio 1994 al 12 gennaio 1998, giorno di effettiva reintegra in posizione equivalente), oltre interessi e rivalutazione calcolati sul periodo considerato; condannare la B.P.N. al risarcimento del danno biologico e del danno psichico derivato al ricorrente per stato ansioso depressivo insorto nel 1994, sovrapponibile al codice 300.40 del DSM III-R con complicazioni ansiose, danno da determinarsi in via equitativa e comunque in misura non inferiore a Lire 50.000.000; accertare e dichiarare la illegittimità delle note caratteristiche espresse dalla società per l'anno 1996 e, conseguentemente, revocare il provvedimento ordinando la ripetizione del procedimento di valutazione", con vittoria di entrambi i gradi del giudizio.

L'appellata chiedeva il rigetto dell'appello di controparte e proponeva a sua volta appello incidentale, volto al rigetto integrale anche della domanda di risarcimento del danno da dequalificazione.

1.2.1 Con sentenza in data 4 aprile 2002-14 aprile 2003 la Corte d'Appello di Roma, non definitivamente pronunciando, in accoglimento per quanto di ragione dell'appello principale e, così, in riforma della sentenza gravata, condannava la Banca Po. di No. S.p.a. al risarcimento del danno da dequalificazione professionale cagionato all'appellante in misura pari al 50% -anziché al 30%, come statuito in I grado- del trattamento economico corrisposto per il periodo 20 gennaio 1994-12 gennaio 1998, oltre ad interessi dalle scadenze al soddisfo e rivalutazione dalle scadenze "ad oggi", così assorbito l'appello incidentale; dichiarava la nullità delle note caratteristiche relative al ricorrente per l'anno 1996, e disponeva con separata ordinanza in ordine alla prosecuzione del giudizio.

1.2.2. Osservava la Corte territoriale:

a) II motivo di appello principale relativo alla quantificazione del danno da demansionamento e l'appello incidentale, volto alla sua esclusione, andavano esaminati congiuntamente.

b) La sentenza impugnata aveva accertato l'avvenuta adibizione a mansioni inferiori di Al. La. per il periodo "de quo" (successivamente al quale il lavoratore era stato assegnato all'Ufficio Servizi Contabili, con mansioni pacificamente corrispondenti a quelle in precedenza svolte), sulla base dell'espletata istruzione.

c) Tale accertamento non meritava censura, poiché era emerso che il lavoratore, assunto dall'INCE nel giugno del 1991, con contratto di formazione e lavoro, aveva svolto la sua attività fino al giugno del 1993 presso l'Ufficio Sistemi Informatici, provvedendo alla registrazione informatica di dati, alla predisposizione di prospetti e tabulati e, successivamente al giugno 1993, presso l'Ufficio Ragioneria, dove si occupava dell'inserimento dei dati relativi al pagamento delle rate di mutuo da parte della clientela, dei censimenti anagrafici, del rilascio delle informazioni contabili, relative alla istruttoria delle pratiche dei clienti mutuatari (teste Te.).

d) A partire dal gennaio 1994, e per circa quattro anni, fu destinato, invece, all'Ufficio Corriere, dove la sua scrivania "era completamente sgombra" (teste Ca.). La sua attività consisteva, in mancanza di altri colleghi, nell'apertura e timbratura e successivo smistamento della corrispondenza in arrivo, cui fu aggiunta successivamente quella di prelievo pratiche dall'archivio e fotocopiatura dei documenti (testi Mo. e Ch.).

e) Trattavasi di mansioni meramente esecutive, sicuramente deteriori rispetto a quelle svolte in precedenza, e non corrispondenti all'inquadramento contrattuale del Al. La. (impiegato di I categoria), sia che si rapportassero con quelle svolte presso l'Ufficio Sistemi Informatici, sia che si rapportassero con quelle espletate presso l'Ufficio Ragioneria.

f) II demansionamento, come accertato all'esito dell'istruttoria e rimarcato dal lavoratore in sede di gravame, aveva avuto sia carattere qualitativo (mansioni inferiori) che quantitativo, essendo emerso che l'appellante era rimasto di fatte senza alcuna mansione, provvedendo alla sostituzione dei colleghi in caso di assenza.

g) Come affermato dalla Corte di Cassazione, il disposto dell'art. 2103 c. c., concernente il diritto del lavoratore ad essere adibito a mansioni corrispondenti alla propria qualifica, è violato, non soltanto quando il dipendente sia assegnato a mansioni inferiori, ma anche quando veda modificate le proprie mansioni con una imponente riduzione in termini quantitativi delle stesse (Cass. n. 10405/95).

h) A fronte di tali risultanze, la Banca Po. di No. S.c. a r.l. (di seguito indicata, per brevità, quale BPN) -oltre a ribadire la sostanziale equivalenza delle mansioni- sosteneva da un lato che il mutamento nell'ufficio di assegnazione del lavoratore era stato comunque determinato da una "situazione di crisi", dall'altro che era stato lo stesso Al. La. a richiedere lo spostamento all'Ufficio Protocollo.

Tali contraddittorie deduzioni erano comunque prive di pregio: esclusa l'equivalenza delle mansioni (quelle da ultimo svolte non comportanti attività di concetto e di applicazione intellettuale), la dedotta "situazione di crisi" non aveva, invece, influenzato la posizione lavorativa di altri dipendenti (teste Ca.), che avevano continuato a svolgere le stesse mansioni svolte in precedenza, mentre le mansioni svolte in precedenza da Al. La. erano state poi assegnate ad altro dipendente. Quanto alla richiesta di trasferimento da parte di Al. La. -peraltro non espressamente indirizzata verso l'ufficio di nuova assegnazione-, essa non avrebbe certamente giustificato l'adibizione a mansioni inferiori.

i) Alla luce di tali risultanze, il risarcimento, così come limitato nella sentenza impugnata al 30% della retribuzione, appariva non integralmente satisfattivo delle lagnanze del lavoratore e, stante la necessità di una valutazione equitativa ed onnicomprensiva del danno risarcibile, tenuto conto del periodo in cui si era protratta la lamentata situazione di illegittimità (circa quattro anni) e di tutte le circostanze del caso, esso andava riconosciuto nella più congrua maggior misura del 50% della retribuzione per il corrispondente periodo.

l) L'impugnata sentenza aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico, per mancanza di prova del nesso di causalità fra la dedotta patologia ansioso-depressiva ed il demansionamento. Tate impostazione non era condivisibile, avendo il lavoratore, nell'atto introduttivo del giudizio, posto la lesione alla sua integrità psico-fisica in relazione non solo al subito demansionamento, ma al "globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro" (pag. 14), e segnalato una serie di comportamenti ed episodi, verificatisi nell'ambito lavorativo, che avrebbero contribuito a determinare l'insorgere della denunciata patologia.

m) Anche se la qualificazione di detto "comportamento globale" quale "mobbing" era successiva all'introduzione del giudizio, non trattavasi di domanda "nuova", tanto più che il concetto di "mobbing" aveva carattere metagiuridico ed al momento mancava di una espressa previsione normativa. Fermo restando l'approfondimento di tale tematica in sede di pronuncia definitiva, gli episodi denunciati erano stati sostanzialmente confermati nel corso dell'espletata istruttoria, da cui era emersa una situazione lavorativa per il Al. La. quanto mai difficile, in quanto i rapporti personali con gli altri dipendenti erano diventati "particolarmente tesi" (teste Su.) ed il lavoratore era continuamente soggetto a scherzi verbali, azioni di disturbo, via via appesantitisi nel tempo e di cui era "certamente a conoscenza il capo contabile della ragioneria il quale non si adoperò perché cessassero" (teste Ca.).

n) Andava quindi ammessa, sul punto, la richiesta CTU medico-legale, essendo la situazione lavorativa di Al. La., astrattamente idonea a determinare l'insorgere della patologia di cui trattavasi. All'uopo andava disposta l'acquisizione dei documenti di cui al verbale di udienza del 29.10.1999 -non ammessi dal primo giudice-, trattandosi di documenti successivi (o comunque successivamente venuti in possesso dell'appellante) all'introduzione del giudizio.

o) Quanto al motivo di appello, relativo alle note di qualifica per il 1996, l'appellante aveva dedotto, al riguardo, che il giudice avrebbe dovuto sindacare la legittimità dei criteri adottati nella fattispecie in esame, perché non attinenti esclusivamente alle specifiche qualità di prestatore d'opera -bensì relativi alla disamina di motivi inerenti la sfera privata, quali i rapporti con i colleghi, l'atteggiamento verso il proprio lavoro-, e perché il datore di lavoro aveva fatte riferimento a categorie, quali i già richiamati rapporti con i colleghi, nonché al comportamento e senso di responsabilità, che non attengono alla prestazione, ma alla persona.

Premesso che la valutazione espressa dal datore di lavoro, all'atto della formazione delle note di qualifica, è una prerogativa di potere -connotata da una larga disponibilità discrezionale-, che caratterizza la figura dell'imprenditore nell'ambito del rapporto di lavoro, sta di fatto che l'esercizio di tale potere imprenditoriale è assoggettato alle regole generali di correttezza e buona fede, fissate dagli artt. 1175 e 1375 c. c., di modo che i dipendenti possano controllare l'attività dell'imprenditore, relativa allo svolgimento del rapporto di lavoro, provocando il sindacato giurisdizionale sull'osservanza di quelle regole fissate dall'ordinamento.

Nella fattispecie in esame detti principi erano stati violati, atteso che la valutazione espressa con le note di qualifica non era improntata ad un obiettivo apprezzamento qualitativo e -per quanto emergeva "ex actis"- era stata espressamente adottata per ragioni attinenti non alle qualità lavorative del Ca. (e, in ogni caso, la valutazione era stata comunque falsata dal fatto di riferirsi alle mansioni "dequalificanti" svolte nel corso del 1996 e non a quelle proprie della rivestita qualifica).

Si leggeva, infatti, nella motivazione del Comitato di valutazione: "... il signor Al. La. è stato invitato ad assumere questa valutazione come elemento di reciproca utilità per migliorare la prestazione lavorativa, evidenziando il fatto che le ansie che esprime, al di là dei motivi delle stesse, possono avere influenze negative".

Ciò esauriva la controversia sul punto, dovendosi escludere "in nuce" che la valutazione contestata fosse stata "ancorata a dei criteri chiari e trasparenti, ed immune da qualsiasi censura", come affermato dal Tribunale.

"Ad abundantiam" non erano condivisibili le osservazioni della società, secondo cui il giudizio "de quo" sarebbe stato determinato dal mutamento della metodologia di valutazione.

Pur, infatti, a fronte di un "generale abbassamento dei giudizi espressi in relazione alla generalità dei dipendenti" (teste Pe.), il giudizio assegnato al Ca., senza apparente motivazione, era stato inferiore di ben tre livelli di voto su sei (da distinto a mediocre) ed era stato l'unico -fatta eccezione per un'altra dipendente poi licenziata per giusta causa-. In riforma della sentenza gravata, pertanto, le note caratteristiche espresse dalla società nei confronti di Al. La. per l'anno 1996 andavano annullate, essendo, al giudice investito della relativa controversia, concesso solo tale potere, con esclusione di quello relativo all'attribuzione di una diversa qualifica, ritenuta conforme alla situazione accertata.

1.3 Avverso detta sentenza le società indicate in epigrafe hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a 5 motivi, e depositato memoria ex art. 378 c. p.c. L'intimato Ca. non si è costituito in giudizio, e ha depositato istanza per una sollecita decisione della causa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, denunziando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2095 e 2103 c. c. (art. 360 n. 3 c. p.c.), nonché omessa, e comunque insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, le società ricorrenti, richiamata la motivazione della sentenza impugnata, di cui sub 1.2.2.e) della narrativa della presente sentenza, deducono che -come già riconosciuto dal 1° giudice- la c. d. prima categoria impiegatizia definisce un quadro del tutto generico e prossimo a quello iniziale, cioè a quello di impiegato di seconda categoria, per cui la qualifica assegnata ad Al. La. si collocava "come del tutto prossimale alla stessa"; che l'attività di Al. La., indicata al punto 1.2.2.d) della presente sentenza, di smistamento della corrispondenza, realizzava funzione di concetto, in quanto nessun altro ufficio curava l'arrivo dei pieghi nel giusto luogo di destinazione, ed a tate attività era adibito l'Ufficio Protocollo (c.d. "corriere"), appositamente concepito, come risultava dalle deposizioni dei testi Ca., Te., Me., Ch.; che, in altre parole, si trattava di individuare il contenuto della corrispondenza, di selezionarla in ragione di detto suo contenuto e di inviarla all'impiegato o alla funzione appropriata (servizio legale, ufficio tecnico, servizi di accensione delle ipoteche), tutti compiti di sintesi, basati su una chiara visione del modo di maturarsi delle pratiche e, in più, vi erano compiti di addestramento nei confronti di personale meno esperto; che con ciò si voleva individuare quell'indice di "sviamento del potere", preso in considerazione dai criteri coinvolgenti la struttura motivazionale della sentenza, tenuto anche conto che l'ufficio era composto oltre che da un capo reparto, da due impiegati di prima categoria e da due di seconda -troppi per svolgere un compito meramente esecutivo-, ed il capo reparto e l'altro impiegato di prima categoria non si erano mai sentiti sminuiti, nella loro professionalità, per le mansioni loro affidate; che, in definitiva, sussistevano palesi indici di insufficiente motivazione in ordine alla valutazione delle prove ed all'attribuzione di carattere meramente esecutivo delle prestazioni espletate da Al. La. -che svolgeva, comunque, mansioni di carattere impiegatizio-, e doveva escludersi un intento di demansionamento ascrivibile alla parte datoriale; che la Corte non aveva valutato la rispondenza di detti compiti allo svolgimento delle corrispondenti mansioni dell'impiegato.

1.2. Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha accertato il "demansionamento" di Al. La. rispetto alle precedenti mansioni. Trattasi di giudizio di fatto, congruamente e logicamente motivato.

Le ricorrenti, comunque, non precisano neppure -sebbene deducano la "prossimità" tra la 1 a e la 2 a categoria- quali siano i diversi profili delle categorie stesse. E, in relazione a ciò, la censura presenta aspetti di inammissibilità, per violazione del principio di autosufficienza del ricorso.

Comunque, indipendentemente dalle mansioni corrispondenti alla qualifica, lo "jus variandi" del datore di lavoro non può attribuire mansioni inferiori a quelle in precedenza svolte dal lavoratore, e ciò è, invece, avvenuto, come, nella specie, accertato nella sentenza impugnata.

La equivalenza delle mansioni, che condiziona la legittimità dell'esercizio dello "jus variandi", a norma dell'art. 2103 cod. civ. -e che costituisce oggetto di un giudizio di fatto (nella specie, come si è detto, congruamente e logicamente motivato dalla Corte di Appello, e pertanto incensurabile in cassazione)- va verificata, infatti, sia sul piano oggettivo, e cioè sotto il profilo della inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sul piano soggettivo, in relazione al quale è necessario che le due mansioni siano "professionalmente affini", nel senso che le nuove si armonizzino con le capacità professionali già acquisite dall'interessato durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi (Cass. n. 11457/2000).

2.1. Con il secondo motivo, denunziando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2095 e 2103 c. c., in relazione anche all'art. 1218 c. c., e degli artt. 2082 e 2086 c. c. (art. 360 n. 3 c. p.c.), nonché omessa, e comunque insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia (art. 360 n. 5 c. p.c.), le società ricorrenti, richiamata la motivazione della sentenza impugnata, di cui ai punti 1.2.2. f) e g), cioè demansionamento del lavoratore sia qualitativo che quantitativo, deducono che sussisteva profondo stato di crisi incidente sull'ex INCE, per la crisi del sistema bancario, seguita da drastiche cure dimagranti, nell'ultimo decennio -stato di crisi verificatosi anche per la B.P.N., confermato dalla fusione dell'INCE nella B.P.N., cui aveva fatto poi seguito la successiva analoga operazione, che aveva coinvolto quella che a suo tempo era stata l'incorporante-; che i testi Su. e Mo., proprio con riferimento al numero dei "plichi in arrivo", avevano precisato che da un giro di trenta-quaranta pratiche "pro die" si era giunti a livello zero -non solo, dunque, diminuzione di incarichi, ma azzeramento pure dei pieghi postali-; che la situazione dimostrava il crollo dell'attività e l'impegno della parte datoriale -INCE- nel mantenere integro il posto di lavoro a favore di tutti i collaboratori, per evitare sfoltimenti selvaggi; che non andavano quindi imposte soluzioni rigide, ove non oggettivamente attuabili, ed andava negata la responsabilità datoriale, ove risultasse accertato che alcune opzioni concrete non dipendevano da colpa del datore di lavoro -in tal senso andavano intese Cass. nn. 12692/2002, 11624/2002, 9852/2002, che rispondevano ad orientamenti equilibrati e funzionali per trovare il punto di equilibrio tra i diversi diritti- che le riduzioni dell'attività lavorativa erano state imposte dal momento economico o dalla situazione di crisi, e, sul punto, i responsabili della struttura avevano attestato che, per tempi assai consistenti, le sopravvenienze commerciali erano scese a livello zero; che, in tale ottica, l'orientamento della Corte territoriale non era giustificato e corretto, allorché aveva addebitato alla parte datoriale un decremento dell'attività lavorativa, trascurando l'indagine sulla sussistenza della crisi -emergente dalle deposizioni testimoniali, anche di parte attrice, e dalle scelte d'impresa (incorporazioni)- e che, per l'effetto delle circostanze, il lavoro poteva ridursi anche "a macchia di leopardo" (e tanto veniva dedotto dalle ricorrenti in relazione alla motivazione della sentenza impugnata, di cui ai punti sub 1.2.2. g) e h); che la Corte territoriale non aveva accertato se la minor quantificazione della prestazione fosse giustificabile rispetto allo stato dell'impresa.

2.2. Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha, invero, accertato che al posto di Al. La. era stato assegnato altro lavoratore.

Gli argomenti addotti dalle ricorrenti sono, comunque, generici -e, in quanto tali, inammissibili- e non escludono, peraltro, l'illegittimità del "demansionamento", ravvisato dalla Corte territoriale.

3.1. Con il terzo motivo, denunziando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 163, 414 e 112 c. p.c. (art. 360 n. 4 c. p.c.), le società ricorrenti, richiamata la motivazione della sentenza impugnata, di cui al punto 1.2.2.d), deducono che l'affermazione contrasta con quanto esposto nel ricorso introduttivo di Al. La., giusta il quale egli sarebbe stato assegnato al medesimo "ufficio corriere" nel 1995 e quivi sarebbe rimasto fino ai primi di gennaio del 1998; che sul punto specifico (periodo di assegnazione a quell'ufficio) non erano insorte contestazioni e non era stata espletata alcuna diversificante istruttoria; che alla pag. 7 di detto ricorso poteva invero leggersi che, dopo il giugno 1995, Al. La. aveva "svolto.... e svolge tuttora (siamo al 1996) i propri compiti presso l'ufficio protocollo" (o "corriere", che dir si voglia) -si trattava dunque di vizio di motivazione e violazione del disposto dell'art. 112 c. p.c.-.

3.2. Il motivo è infondato.

Si tratta di un motivo inammissibile, a fronte di congrua e logica motivazione della Corte territoriale, che ha preso atto (v. in narrativa, al punto 1.1.) che il primo giudice aveva accertato e dichiarato la illegittima adibizione di Al. La. a mansioni, inferiori a quelle originariamente svolte, "dal 20 gennaio 1994 al 12 gennaio 1998", e ha altresì accertato (punto 1.2.2.d) che, "a partire dal gennaio 1994 e per circa quattro anni" Al. La. "fu destinato, invece, all'Ufficio Corriere, dove la sua scrivania "era completamente sgombra (teste Ca.)".

Le stesse ricorrenti, poi, deducono che sul punto specifico -periodo di assegnazione di Al. La. all'Ufficio protocollo- "non erano insorte contestazioni", né deducono di aver in precedenza sollevato la questione -a seguito della pronuncia del Tribunale- e denunziato la violazione dell'art. 112 c. p.c.

Ma è, comunque, decisivo il fatto che, contraddicendo quanto dedotto con la presente censura (pagg. 28 e s. del ricorso), nel trattare il quarto motivo, a pag. 35 del ricorso, le ricorrenti espressamente "ammettono" che gli "eventi" si sono verificati dopo il 20 gennaio 1994, allorché erano cessate le prestazioni di Al. La. presso l'Ufficio Ragioneria "per effetto di migrazione verso l'Ufficio Protocollo".

4.1. Con il quarto motivo, denunziando violazione e o falsa applicazione degli artt. 163, 414 e 112 c. p.c., nonché degli artt. 188, 189 e 190 c. p.c., e degli artt. 420 e 345 c. p.c. (art. 360 n. 4 c. p.c.), nonché omessa, e comunque insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia (art. 360 n. 5 c. p.c.), le società ricorrenti deducono che, modificando le opzioni del primo giudice, i giudici di appello hanno ritenuto ammissibile una CTU, non ammessa dal primo giudice (pag. 7 sentenza impugnata); che si tratta di determinazione, che va attentamente sceverata sul piano processuale, anche per definire le componenti dell'accertamento, eventualmente caratterizzabili come "sentenza", dalle altre confinabili in un assetto di "ordinanza" (e che, secondo tale qualificazione, non sarebbero attualmente neppur suscettibili di impugnazione); che il capo di pronunzia gravato "potrebbe" avere natura di sentenza, laddove nega la ragione di inammissibilità individuata dal primo giudice (novità della domanda), e "sembra" rivestire l'assetto di ordinanza, allorché si sofferma a discorrere del nesso di causalità e della eventuale responsabilità della parte datoriale, e ciò anche per la riserva contenuta nella motivazione -"fermo restando l'approfondimento di tale tematica in sede di pronunzia definitiva"-; che è, infine, decisamente ordinanza la determinazione della Corte territoriale, laddove dispone per la CTU (Cass. n. 1503/2001); che, ad ogni modo -e pur nella consapevolezza della temporanea "limitabilità'' dell'impugnazione, nei sensi sopraddetti-, vengono impugnate le diverse proposizioni contenute alla pag. 7 della sentenza.

4.2. Sulla esclusione della qualificazione del "mobbing" quale domanda nuova da parte della Corte territoriale, e sulla eventuale responsabilità della parte datoriale in ordine allo stesso, di cui alla motivazione della sentenza impugnata -v. punto 1.2.2.m) della narrativa della presente sentenza-, le ricorrenti deducono che esattamente il primo giudice aveva ritenuto improponibile la domanda, come prospettata al momento della decisione, non per mere ragioni "nominalistiche", ma per più complesse ragioni sostanziali, in quanto l'oggetto della domanda, quale prospettato da Al. La. nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, era ben definito -nella conclusione d) a pag. 16 del ricorso-, nel senso della richiesta di condanna della BPN "al risarcimento del danno biologico e del danno psichico derivato al ricorrente per stato ansioso/depressivo insorto nel 1994..."; che la domanda formulata con detto ricorso, depositato nel giugno del 1996, non contemplava e non poteva contemplare fatti successivi al tempo del deposito; che ciò che configura il "mobbing" non è solo l'individualità degli episodi, ma la loro considerazione finalistica, che finisce per farne una categoria separata, caratterizzata nel senso di comportamenti compositi, unificabili e "finalizzati", laddove, nel ricorso introduttivo (pagg. 12 e 13) era stata solo denunciata "un'illegittima mutatio in pejus delle mansioni di Al. La.", in violazione del divieto di cui all'art. 2103 c. c., con il demansionamento del lavoratore; che certa era la novità della domanda "per la diversa qualificazione del fatto giuridico posto a suo fondamento"; che era rilevante la circostanza che, di fronte ad un'azione risarcitoria, in concreto esercitata, l'indagine era stata rivolta a comportamenti considerati singolarmente, mentre, in ipotesi di "mobbing", la rilevanza "andrebbe assegnata alle classi comportamentali e non ai singoli episodi"; che erroneamente, pertanto, la Corte territoriale -contrariamente al primo giudice- aveva escluso che si trattasse di domanda nuova.

4.3. In ordine all'ammissione della CTU medico legale -di cui al punto 1.2.2.n) della narrativa della presente sentenza-, le società ricorrenti deducono che mancava, nella sentenza impugnata, ogni discussione ed ogni accertamento sui singoli episodi (non si identificava il tipo di azione proposta e non si configurava, in funzione di questa, la fonte della responsabilità della parte datoriale), laddove era solo indicato quanto riportato al punto 1.2.2.m), relativamente alla situazione lavorativa "quanto mai difficile" per Al. La., in relazione agli episodi di "mobbing", neppure contrastati dal capo contabile della ragioneria; che la difficile situazione lavorativa di Al. La. esprimeva un concetto ben diverso rispetto alla configurazione di un "mobbing"; che la motivazione fornita era quella tipica di un mezzo istruttorio, che non poteva in alcun modo comportare un accertamento definitivo, atto alla formazione di un giudicato; che l'unico elemento rivolto verso la parte datoriale sembrava fondato sulla consapevolezza della situazione da parte di un capo contabile della ragioneria, che non si sarebbe adoperato per la cessazione di alcuni scherzi, ma i fatti si sarebbero verificati dopo il 20 gennaio 1994, allorché le prestazioni di Al. La. presso l'Ufficio Ragioneria erano cessate, per effetto del trasferimento del medesimo all'Ufficio Protocollo, con la conseguenza che detto capo contabile del Servizio di Ragioneria -"con un grado di un certo rilievo"- non era più un superiore di Al. La., e non era, pertanto, tenuto ad assumere alcuna iniziativa nei confronti di detto lavoratore; che, comunque, l'eventuale comportamento emissivo del capo contabile non era atto a coinvolgere la parte datoriale.

4.4.1. In ordine alla censura relativa all'ammissione di CTU, la statuizione ha effettivamente natura di ordinanza, e come tale non impugnabile con ricorso per cassazione. E' pertanto, in conseguenza, inammissibile la relativa censura, proposta tuzioristicamente dalle ricorrenti. Ha invece natura di sentenza, come indicato successivamente, la statuizione della Corte relativa al "nesso di causalità" ed alla "responsabilità della parte datoriale", in ordine alla domanda di risarcimento del danno dovuto a comportamento integrante "mobbing".

4.4.2. In ordine alla dedotta novità della domanda relativa al "mobbing" -rilevato che, come è pacifico, la diversa qualificazione del fatto giuridico non comporta "domanda nuova"- si osserva che la Corte territoriale, con motivazione congrua e logica, ha innanzi tutto, evidenziato (v., in narrativa, punto 1.2.2. lett. l) che il lavoratore, nell'atto introduttivo del giudizio, ha posto la lesione della sua integrità psico-fisica in relazione non solo al subito demansionamento, ma al "globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro" (pag. 14).

E, successivamente (punto 1.2.2.m), ha evidenziato che, anche se la qualificazione di detto "comportamento globale", quale "mobbing" era successiva alla introduzione del giudizio, non trattavasi di domanda "nuova", tanto più che il concetto di "mobbing" aveva carattere metagiuridico ed al momento mancava di una espressa previsione normativa. Deve, peraltro, al riguardo, precisarsi che, successivamente alla sentenza impugnata (pronunziata il 4.4.2002 e depositata il 14.3.2003), come evidenziato dalla sentenza della Corte Costituzionale in data 19 dicembre 2003, n. 359 -pur in assenza di una specifica disciplina a livello di normazione di rango primario- per quel che riguarda gli atti interni statali, l'inserimento del "mobbing" trova conferma sia nel punto 4.9 del d.P.R. 22 maggio 2003, con il quale è stato approvato il Piano sanitario nazionale 2003-2005, sia nel punto BS11 della delibera, sempre del 22 maggio 2003, contenente l'accordo tra il Ministro della Salute, le regioni e le province autonome sul "bando di ricerca finalizzata per l'anno 2003 per i progetti ex art. 12 bis del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502". Ma già, in precedenza, per quel che riguarda gli atti comunitari, la risoluzione del Parlamento europeo n. AS-0283/2001 del 21 settembre 2001, avente ad oggetto "Mobbing sul posto di lavoro", al punto 13, esortava la Commissione ad "esaminare la possibilità di chiarificare o estendere il campo di applicazione della direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro oppure di elaborare una nuova direttiva quadro, come strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie (...).

E la richiamata sentenza del giudice di legittimità delle leggi -dopo aver osservato che la giurisprudenza ha, prevalentemente, ricondotto le concrete fattispecie di "mobbing" nella previsione dell'art. 2087 c. c. (v., in tema, Cass. n. 143/2000, in motiv.) -ha affermato che "la disciplina del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell'ordinamento civile (art. 117, c. 2, Cost.) e, comunque, non può non mirare a salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt. 2 e 3, c. 1, Cost.)".

4.4.3. Sul "nesso causale" e sulla "responsabilità datoriale" il provvedimento impugnato, come si è già anticipato, ha -contrariamente a quanto assumono le ricorrenti- che, comunque, hanno tuzioristicamente impugnato la relativa statuizione - natura di "sentenza", peraltro, con le precisazioni di seguito indicate, con riferimento al "nesso causale".

Non vi è dubbio che la Corte territoriale ha accertato e dichiarato che era stato posta in essere una condotta, imputabile all'azienda, che era elemento costitutivo della fattispecie del "mobbing".

Il giudice del merito ha, infatti accertato non solo il "demansionamento" di Al. La., ma che vi era stato un "globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro", consistito in una serie di comportamenti ed episodi, verificatisi nell'ambito lavorativo, denunziati e sostanzialmente confermati nel corso dell'istruttoria espletata. Da questa era emersa -come indicato in narrativa (punto 1.2.2.m)- una situazione lavorativa per Al. La. quanto mai difficile, in quanto i rapporti personali con gli altri dipendenti erano diventati "particolarmente tesi" -come riferito dal teste Su.-, ed il lavoratore era continuamente soggetto a scherzi verbali, azioni di disturbo, via via appesantitisi nel tempo e di cui era "certamente a conoscenza il capo contabile della ragioneria il quale non si adoperò perché cessassero" -come riferito dal teste Ca.-.

A fronte di tali precise risultanze probatorie, evidenziate nella sentenza impugnata, sono del tutto inconsistenti i rilievi delle ricorrenti, che, nel dedurre, come già in precedenza indicato, che "gli eventi si sono comunque verificati dopo il 20.01.1994, allorquando cioè le prestazioni del sig. Al. La. presso l'Ufficio Ragioneria erano venute a cessare per effetto di migrazione verso l'Ufficio Protocollo", assumono di non essere coinvolte in tali episodi -che, a loro avviso, non configuravano, comunque, una condotta propria del "mobbing"-, in quanto imputabili ai "collaboratori", sebbene tra questi vi fosse anche un collaboratore "con un grado di un certo rilievo", indicato in ricorso quale "appartenente" al Servizio di Ragioneria (di fatto "capo contabile della ragioneria", come leggesi nella sentenza del Tribunale, v. sopra), già superiore di Al. La. L'inconsistenza della censura è di tutta evidenza, in quanto per la molteplicità degli episodi, a conoscenza anche di un funzionario "di un certo rilievo" -che non si era adoperato perché tali comportamenti vessatori cessassero- non solo i responsabili aziendali non potevano non essere a conoscenza di tali fatti -il che le ricorrenti stesse non sembrano dedurre, allorché affermano che gli eventi si "sono" comunque verificati dopo il 20.01.1994-, ma essi erano pienamente "coinvolti" dai comportamenti scorretti dei loro collaboratori, sia per la richiamata norma dell'art. 2087 c. c. (sulla tutela delle condizioni di lavoro), che obbliga l'imprenditore ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che sono necessarie a tutelare "l'integrità fisica e la personalità morale" del prestatore di lavoro, sia in base ai richiamati principi di cui agli artt. 117, c. 2, e 2 e 3, c. 1, Cost. con particolare riguardo alla salvaguardia sul luogo di lavoro della "dignità" e dei "diritti fondamentali" del lavoratore.

A nulla pertanto rileva, ai fini dell'accertata condotta integrante elemento costitutivo del "mobbing" -"che indica l'aggredire la sfera psichica altrui" (così sinteticamente, ma efficacemente, la citata Cass. n. 143/2000, in motiv.)- l'inciso, contenuto nella sentenza impugnata ("Fermo restando l'approfondimento di tale tematica in sede di pronuncia definitiva"), che, all'evidenza, costituisce un "obiter", che non può infirmare (o rinviare al definitivo) quanto è stato dalla Corte già accertato e dichiarato.

In ordine al "nesso causale" tra condotta integrante elemento costitutivo del "mobbing" ed insorgenza della denunciata patologia ansioso-depressiva (con lesione dell'integrità psico-fisica del lavoratore) risulta, inequivocabilmente, dalla sentenza impugnata (v. punto 1.2.2.n), che la Corte si è limitata ad affermare che "la situazione lavorativa di Al. La." (sia per il "demansionamento" sia per il "globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro", richiamati alla lettera l) era "astrattamente idonea" a determinare l'insorgere della patologia di cui trattavasi, con necessità di espletamento, "sul punto", della richiesta CTU medico-legale.

Chiaramente pertanto la Corte ha rimesso al definitivo l'accertamento "in concreto" dell'esistenza e della entità della denunciata patologia, e del "concreto nesso causale" tra (eventuale) patologia e comportamento complessivo antigiuridico ascrivibile alla parte datoriale, e, pertanto, la risarcibilità o meno del "danno biologico".

4.4.4. E' riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 16819/2003; e v., pure, Cass. n. 7546/2002) che il danneggiato possa far valere nel corso di tutto il giudizio di primo grado, la modificazione quantitativa del risarcimento del danno in origine richiesto, intesa anche come richiesta dei danni, provocati dallo stesso fatto che ha dato origine alla causa, che si manifestano solo nel corso del giudizio, e quindi anche per i danni maturati per la persistenza di tale fatto, dopo l'inizio della lite, in quanto i termini della contestazione rimangono inalterati (nella specie, invero, il risarcimento del danno è stato richiesto per il perpetuarsi del fatto antigiuridico, dopo la proposizione della domanda nel giugno 1996, fino al 12 gennaio 1988).

Le ricorrenti si limitano peraltro a tale infondato rilievo solo in relazione alla domanda proposta da Al. La. per il "risarcimento del danno biologico e del danno psichico derivato al ricorrente per stato ansioso/depressivo insorto nel 1994..." (conclusione d) a pag. 16 del ricorso al Pretore di Roma), ma nulla deducono al riguardo in ordine all'accoglimento detta domanda, in primo grado ed in appello, relativa al risarcimento del danno per dequalificazione, liquidato in percentuale del trattamento economico corrisposto nel periodo "dal 20 gennaio 1994 al 12 gennaio 1998".

Risulta infatti dalla sentenza impugnata che "l'appellata... proponeva a sua volta appello incidentale, volto al rigetto integrale della domanda di risarcimento del danno da dequalificazione".

Di tal che, non risultando che sulla questione relativa al periodo determinato dal giudice di primo grado, per la liquidazione del danno, sia stata proposta impugnazione, e risultando invece che per lo stesso periodo la Corte territoriale ha determinato una maggiore percentuale del danno risarcibile, in relazione al trattamento economico corrisposto, "così assorbito l'appello incidentale", sulla questione -sollevata, peraltro, di sfuggita, dalle ricorrenti- si è formato il giudicato interno, valido anche per l'eventuale liquidazione del danno biologico (v., in tema, Cass. nn. 4612/1999, 822/2000, sulla impossibilità di dedurre per la prima volta in sede di ricorso per cassazione la violazione dell'art. 112 c. p.c., quando essa non abbia formato oggetto di uno specifico motivo di appello).

5.1. Con il quinto ed ultimo motivo, denunziando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2103 e 1418 c. c., nonché degli artt. 1427 e ss. e 1441 e ss. c. c. (art. 360 n. 3 c. p.c.), ed omessa, e comunque insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia (art. 360 n. 5 c. p.c.), le società ricorrenti, con riferimento al punto 1.2.2.o) della narrativa della presente sentenza, relativo alle c. d. "note di qualifica" deducono che: a) nel dispositivo la Corte romana ha ritenuto di "dichiarare la nullità delle note" -con espressione che dovrebbe essere frutto di un "lapsus calami"-, laddove tutta la motivazione confluisce verso un enunciato "capo", rivolto a supportare una pronuncia di annullamento ("le note caratteristiche... per l'anno 1996 vanno annullate..."); in tal modo, integrando il dispositivo con la motivazione, sembra alle ricorrenti, che la fattispecie realizzi una pronuncia di annullamento e non una declaratoria di nullità; laddove si pervenisse, invece, all'opposta affermazione -dichiarazione, da parte della Corte, "proprio" della nullità delle note-, la sentenza impugnata andrebbe cassata per assoluto difetto di motivazione, in quanto non identificante alcuna ipotesi di nullità; non si intendevano le ragioni del pronunciato annullamento, avendo la Banca fissato un criterio -quanto più possibile uniforme ed esteriorizzabile, correlato al comportamento dei propri collaboratori-, che facilitava il percorso dell'organismo chiamato a configurare le note di qualifica, che muovevano dalla proposta del capo servizio, secondo criteri uguali per tutti i collaboratori; tale percorso era stato regolarmente seguito, con l'attribuzione di punteggi numerici, in relazione ai singoli comportamenti: ogni voce era stata corredata da un commento esplicativo ed il colloquio con l'interessato aveva fornito risposte altrettanto esaustive; il giudizio di mediocrità -diverso da quello di insufficienza- non comportava conseguenze economiche, in occasione della sua prima attribuzione, e prevedeva una modesta incidenza sulla gratifica in occasione di una prima reiterazione, e comportava la perdita della gratifica soltanto con il terzo giudizio di mediocrità; sul complessivo assetto dei colloqui era stato sentito il teste Pe. -già sindacalista, e che aveva assistito Al. La. nel colloquio esplicativo-, che aveva confermato gli assunti della Banca; quanto alla motivazione della sentenza impugnata, riportata nel primo periodo del punto 1.2.2.o) -illegittimità dei criteri adottati per la redazione delle note di qualifica per il 1996-, per le ricorrenti doveva dissentirsi dall'apprezzamento della Corte territoriale, stanti gli aspetti di discrezionalità, propri del datore di lavoro, anche in sede di giudizio relativo alla redazione di note caratteristiche del lavoratore; il giudizio era circoscritto alla qualità della prestazione, ma correlato anche ad eventuale comportamento scostante del lavoratore con clienti e colleghi (rapporti interpersonali verso i colleghi e la clientela, e, in particolare, nei confronti della clientela, doveva essere apprezzato il modo di atteggiarsi del lavoratore); non si intravedeva, quindi, alcuna ragione di annullamento delle predette note di qualifica, essendo state ben ponderate le specifiche componenti della prestazione del lavoratore, che non aveva neppure dimostrato -come avrebbe dovuto- spettargli una votazione più elevata; quanto all'invito rivolto ad Al. La. per il miglioramento della prestazione lavorativa (quarto periodo del punto sub 1.2.2.o), la Corte territoriale era caduta in errore, ben potendo le note di qualifica coniugarsi con un colloquio con il lavoratore, comportante incoraggiamenti e moniti; la motivazione era, quindi, insufficiente e/o contraddittoria; b) quanto ai non specifici accenni di ragioni di "annullabilità", sparsi nella pronunzia, essi non fornivano fattori aggiuntivi per supportare la sentenza impugnata, perché: 1) il preteso demansionamento appariva estraneo alla fattispecie; 2) l'affermazione, secondo cui la valutazione non sarebbe stata "ancorata a dei criteri chiari e trasparenti, ed immune da qualsiasi censura" (quinto periodo del punto sub 1.2.2.o), non era condivisibile, perché carente nel ragionamento e sostanzialmente apodittica (dovendo il vizio, in materia di annullamento, essere dimostrato dalla parte "attrice", e dovendo l'eventuale annullamento dell'atto essere disposto "titolatamente" dal giudice); 3) quanto alla motivazione "ad abundantiam" della sentenza impugnata -in relazione al mutamento della metodologia di valutazione (periodi sesto e settimo di cui sub 1.2.2.o)-, le vicende della Banca avevano comportato che soltanto nel 1997 si era pervenuti ad una calibratura diretta dei singoli collaboratori (divenuti ormai, da poche centinaia, circa settemila dipendenti), ricevendo ognuno il voto che gli spettava, con scarti significativi per i meno meritevoli (e così "distinti" di basso conio avevano subito contrazioni molto consistenti); Al. La. aveva subito un decremento di tre livelli (ed anche il Pe. aveva subito una contrazione di ben due livelli), ma con esplicitazione della situazione, con un ampio colloquio informatore ed altrettanto utili esortazioni; il discorso proposto era, quindi, orientato a dimostrare che un paio di livelli potevano andare persi per la semplice mutazione dei criteri di valutazione; era inefficace la comparazione tra due diversi collaboratori, non potendo il raffronto essere condotto tra due soggetti diversi, avendo ciascuno diritto alla valutazione personale.

5.2.1. Le ricorrenti non spiegano, innanzi tutto, quali siano le conseguenze derivanti dalla diversa "terminologia", usata dalla Corte territoriale nel dispositivo della sentenza impugnata -"nullità delle note caratteristiche"-, e nella motivazione della stessa -"le note caratteristiche vanno annullate"-, poiché la qualificazione giuridica (di nullità o annullamento), usata promiscuamente dalla Corte (in dispositivo e motivazione), intende, comunque, riferirsi alla "invalidità" dell'atto datoriale, contrario alle norme di correttezza e buona fede. E, sulla "invalidità" di tale atto -alla quale la Corte intende sostanzialmente ed inequivocabilmente riferirsi- v. la ritenuta "invalidità" dell'atto datoriale, in tema di promozione alla qualifica superiore, allorché contrario ai principi generali di correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c. c. (Cass. n. 11291/2000).

Di regola, peraltro, in relazione agli atti datoriali, contrastanti con i principi di correttezza e buona fede, la giurisprudenza usa il termine di "illegittimità" dell'atto. E, sulla "illegittimità" per abuso del comportamento della parte, in violazione dei canoni ermeneutici del principio di buona fede, v., tra le altre, Cass. n. 11271/1997 (e, in particolare, sulla "legittimità" del trasferimento del lavoratore secondo i principi generali di correttezza e buona fede, v., Cass. n. 11957/2003).

Il termine "illegittimità" dell'atto datoriale è mutuato anche dall'esercizio "illegittimo" della funzione pubblica (v. Cass., Sez. Un., n. 500/1999).

In tema di "note caratteristiche" v., sulla "illegittimità" delle stesse, per violazione delle prescrizioni di lealtà e correttezza, Cass. n. 206/2001 (in particolare, nella motivazione, per il richiamo alla "illegittimità'' in tal caso, della nota di qualifica).

E' chiaro dunque che, quale sia stata la terminologia usata, la Corte territoriale ha inteso riferirsi alla "invalidità/illegittimità" delle note caratteristiche, relative ad Al. La., per l'anno 1996.

5.2.2. Comunque, le ricorrenti non censurano adeguatamente la motivazione della Corte territoriale (punto 1.2.2.o) sulla violazione dei principi di correttezza e buona fede (e, sul rispetto dell'obbligo generale di correttezza e buona fede, in tema di "note di qualifica" del dipendente v., pure, tra le altre, Cass. n. 5289/1996). Risulta infatti, secondo la Corte territoriale romana, "ex actis" che la nota di qualifica, relativa ad Al. La., per l'anno 1996, era stata adottata non per ragioni attinenti alle qualità lavorative del medesimo, essendo, tra l'altro, la valutazione datoriale falsata dal "demansionamento" e dalle conseguenti mansioni inferiori svolte da Al. La., che non era stato valutato, in relazione alle mansioni corrispondenti alla qualifica a lui spettante. E, del resto, le stesse ricorrenti evidenziano le conseguenze negative, anche sotto il profilo economico (sia pur non immediate), derivanti da eventuale reiterazione del giudizio di "mediocre", assegnato ad Al. La. per l'anno 1996, giudizio che aveva comportato per il medesimo un decremento di ben tre livelli (da "distinto" a "mediocre"), nelle note di qualifica; e ciò, pur "a fronte di un generale abbassamento dei giudizi espressi in relazione alla generalità dei dipendenti", dedotto dalle ricorrenti. La Corte territoriale evidenzia, però, che il giudizio assegnato ad Al. La. per l'anno 1996, "senza apparente motivazione", era stato l'unico (ad eccezione di altra dipendente, valutata "insufficiente", e poi licenziata).

5.5.3. In definitiva, anche il quinto ed ultimo motivo di ricorso è infondato.

6.1. Consegue il rigetto del ricorso.

6.2. Nulla per le spese del giudizio, non essendo l'intimato Al. La. costituito nel presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di cassazione.