Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 17 giugno 2004, n. 11353
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato
in data 25 marzo 1993, SC conveniva in giudizio innanzi al Pretore di Bari
l'Ente Ferrovie dello Stato, in persona del legale rappresentante pro tempore e,
premesso di essere affetto da tecnopatia dipendente da causa di servizio con
effetti permanenti sulla propria capacità lavorativa e di avere sperimentato con
esito negativo il prescritto iter amministrativo, chiedeva la condanna dell'Ente
al riconoscimento della infermità denunziata, con la corresponsione di ogni
beneficio di legge per la menomazione dell'integrità fisica.
Dopo la costituzione del contraddittorio e l'espletamento di una consulenza
tecnica d'ufficio, il Pretore accoglieva la domanda e, per l'effetto, dichiarava
che la malattia del ricorrente (spondiloartrosi lombare) era dipendente da causa
di servizio e che lo stesso aveva diritto alla corresponsione dell'equo
indennizzo, corrispondente alla tabella A, cat. 7, del d.P.R. 834/1981, e
condannava le Ferrovie dello Stato al pagamento della somma ex lege dovuta a
titolo di equo indennizzo oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.
Avverso tale sentenza proponeva gravame la spa Ferrovie dello Stato dolendosi
dell'accoglimento della domanda attrice e contestando i risultati dell'espletata
consulenza per mancanza di prova sulle mansioni in concreto svolte dal SC.
Dopo la ricostituzione del contraddittorio, il Tribunale di Bari con sentenza
del 4 luglio 2000 accoglieva l'appello proposto e, in riforma dell'impugnata
sentenza, rigettava la domanda avanzata dal SC.
Nel pervenire a tale conclusione il Tribunale osservava in primo luogo che non
aveva fondamento l'eccezione dell'appellato secondo cui doveva dichiararsi la
nullità del mandato alle liti dell'appellante e, conseguentemente,
l'inammissibilità del gravame, atteso che la procura conferita dall'avv. ***
all'avv. *** doveva ritenersi valida a tutti gli affetti. Ed invero, all'avv.
*** erano stati trasferiti dal legale rappresentante dell'ente i poteri della
società in ogni grado del giudizio e con ogni più ampia facoltà, con una procura
che, nell'ambito dell'assetto organizzativo dell'ente, poteva ritenersi
institoria perché comprensiva di tutti i poteri sostanziali e processuali.
Nel merito il Tribunale rimarcava che il lavoratore aveva l'onore di provare ai
sensi dell'art. 2697 c.c. non solo il tipo di mansioni svolte ed il suo concreto
atteggiarsi ma pure la sussistenza di tutte quelle condizioni e modalità
(durata, condizioni ambientali, intensità e durata del lavoro, ecc.) cui far
risalire con nesso di causalità la malattia da cui risultava affetto. Il SC, in
altri termini, aveva dato per acclarata l'esistenza di circostanze che, al
contrario, andavano da lui dimostrate in virtù del principio dell'onere della
prova, non potendosi assolvere a tale onere attraverso le dichiarazioni rese al
c.t.u. in sede di anamnesi lavorativa. Da ultimo il Tribunale evidenziava che,
pure in caso di mancata contestazione da parte del datore di lavoro delle
mansioni svolte (nella specie di guardiano), l'attore doveva ugualmente provare
il suo assunto.
Avverso tale sentenza SC propone ricorso per cassazione, affidato a quattro
motivi.
Resiste con controricorso la spa Rete Ferrovie dello Stato, che ha depositato
memoria ex art. 378 c.p.c. La presente controversia è stata assegnata dal Primo
Presidente alle Sezioni Unite di questa Corte a seguito dell'ordinanza del 23
ottobre 2003 della Sezione lavoro, che ha ravvisato un contrasto di
giurisprudenza sulla questione concernente «l'entità degli oneri - di
allegazione e probatori - gravanti sui dipendenti delle Ferrovie dello Stato che
richiedono il riconoscimento della causa di servizio, con corresponsione di un
equo indennizzo, a causa delle patologie dalle quali assumono di essere
affetti».
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo
di ricorso SC denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 75, 420 e 182
c.p.c. in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c. e, quindi, difetto di
legittimazione processuale, nullità dell'atto di appello nonché mancato deposito
della procura notarile. Lamenta in particolare che la società ha interposto atto
di appello, a margine del quale era riportata la rituale formula del mandato ad
litem. Il mandato in questione era stato, però, rilasciato all'avv. ***,
difensore della società Ferrovie dello Stato nella fase d'appello, dall'avv.
***, che non risultava essere il legale rappresentante della società. Si duole
ancora che il difensore difettava dello ius postulandi per non avere depositato
l'atto di delega con il quale il preteso legale rappresentante dell'ente
convenuto avrebbe conferito il mandato.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli
artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c. (anche con
riferimento all'art. 2103 c.c.) nonché omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c. Dopo avere premesso che le
mansioni di "guardiano" espletate non risultavano contestate da controparte,
addebita al Tribunale di avere riscontrato una carenza probatoria ignorando così
la richiesta di prove - in ordine alle condizioni e modalità di lavoro ed agli
agenti patogeni dello stesso - formulata in primo grado (espletamento di una
consulenza d'ufficio e acquisizione del fascicolo sanitario di esso ricorrente,
custodito da controparte) e rinnovata in sede di appello (prova per testi con i
compagni di lavoro e con i rappresentanti sindacali di categoria sulle mansioni
effettivamente svolte). Su una tale richiesta il Tribunale aveva opposto un
netto, quanto inspiegabile, rifiuto nonostante il principio secondo cui la
mancata ammissione dei mezzi di prova, «quando, come nel caso di specie, non è
sorretta da adeguata motivazione costituisce una vera e propria violazione di
legge ed è censurabile in sede di legittimità».
Con il terzo motivo SC lamenta violazione e falsa applicazione di legge,
dell'art. 2087 e 2697 c.c., e dell'art. 41 c.p. in relazione all'art. 360, n. 3,
c.p.c., ed ancora omessa motivazione su punti decisivi della controversia in
relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c. Eccepisce il ricorrente che il Tribunale
non ha valutato adeguatamente le conclusioni del c.t.u., che aveva evidenziato
il rapporto causa-effetto tra patologia ed attività svolta, ed aveva spiegato
perché la attività di guardiano aveva causato la denunziata patologia,
rappresentando anche i rischi al quali il lavoratore era stato esposto.
Rimarcava, quindi, la violazione dell'art. 2087 e 2697 c.c., sostenendo che -
anche in ragione del d.P.R. 303/1958 e succ. mod. e per effetto del d.lgs.
626/1994 (in base al quale al lavoratore deve essere notificato il cosiddetto
documento di rischio) - la società Ferrovie dello Stato avrebbe dovuto provare
la mancata esposizione al rischio per avere posto in essere le tutele necessarie
per la salvaguardia fisica del lavoratore e, in caso di patologia a genesi
multifattoriale, avrebbe dovuto dimostrare anche la presenza di un elemento
estraneo all'attività lavorativa idoneo, da solo, a provocare l'insorgenza della
patologia denunziata.
Con il quarto motivo il ricorrente censura l'impugnata sentenza per omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
controversia in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c. Ribadisce che il Tribunale,
con motivazione non adeguata e, comunque, contraddittoria ha, per un verso,
riconosciuto valore alle valutazioni della società e, per altro verso, ha
disatteso le risultanze peritali senza peraltro richiedere i necessari
chiarimenti al c.t.u. e senza disporre la rinnovazione della suddetta consulenza
anche per un approfondimento dei quesiti.
2. Al fini di un ordinato iter argomentativo va esaminato il primo motivo del
ricorso, denunziandosi con detto motivo la nullità dell'atto di appello per
difetto dello ius postulandi del difensore della spa.
2.1. Il motivo è infondato.
Questa Corte, a Sezioni Unite, ha statuito che il potere di rappresentanza
processuale, con la relativa facoltà di nomina dei difensori, può essere
conferito soltanto a colui che sia investito anche di un potere rappresentativo
di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, sicché il
legale rappresentante di una società di capitali, pur in presenza di una
disposizione dello statuto sociale che lo abiliti al conferimento di una procura
di carattere esclusivamente formale, non conferisce validamente ad altro
soggetto la rappresentanza processuale della società stessa, ove tale delega sia
disgiunta dall'attribuzione dei poteri di rappresentanza sostanziale. Tuttavia
non è necessaria la specificazione aprioristica dei singoli rapporti in
relazione ai quali è attribuita la rappresentanza sostanziale (e per i quali è
perciò possibile l'attribuzione di rappresentanza processuale) potendosi
pervenire alla individuazione dei poteri sostanziali delegati anche per via
indiretta e/o in relazione alla natura controversa dei rapporti "de quibus", ben
essendo ipotizzabile un assetto organizzativo che preveda la preposizione
institoria di alcuni procuratori speciali ad un coacervo di rapporti costituenti
un settore dell'azienda ed aventi la caratteristica comune di essere oggetto
della controversia (cfr. in tali sensi: Cassazione, Sezioni Unite, 4666/1998,
cui adde Cassazione, Sezioni Unite, 5842/2000).
2.2. La sentenza impugnata si è richiamata all'indirizzo ora enunciato nel
dichiarare l'ammissibilità dell'atto d'appello della spa Ferrovie dello Stato
sottoscritto dall'avv. *** per essere stato quest'ultimo nominato dall'avv. ***,
cui l'ing. GC, amministratore delegato e legale rappresentante della società,
aveva conferito con riferimento a tutti i giudizi, in cui la società stessa
fosse stata parte, "tutti i necessari poteri di rappresentanza processuale e
sostanziale".
2.3. Anche l'addebito mosso alla sentenza impugnata di non avere rilevato la
mancanza della procura in atti risulta infondato atteso che detta procura è
stata identificata nel mandato a margine dell'atto di appello e nella stessa
sentenza impugnata di tale procura vengono riportati ampi e significativi
stralci.
3. I restanti motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente comportando la
soluzione di questioni pregiudiziali, attinenti al processo del lavoro, tra loro
strettamente connesse.
3.1. Come si è già ricordato la presente controversia è stata assegnata a queste
Sezioni Unite dal Primo Presidente a seguito dell'ordinanza della Sezione lavoro
di questa Corte, depositata in data 23 ottobre 2003, che ha ravvisato un
contrasto di giurisprudenza in relazione all'entità degli oneri - di allegazione
e probatori - gravanti sui dipendenti delle Ferrovie dello Stato che chiedono il
riconoscimento della causa di servizio per ottenere l'equo indennizzo.
3.2. La soluzione di questa problematica importa l'esame di altre tematiche ad
essa intimamente collegate, che sono state oggetto di disamina nella impugnata
decisione, e che attengono - una volta individuati gli oneri di allegazione e
probatori scaturenti dal disposto dell'art. 414 c.p.c. - alle conseguenze
derivanti dal mancato rispetto di detta disposizione, alla costituzione del
convenuto ed ai diversi oneri di contestazione sullo stesso gravanti, nonché al
contenuto ed all'ambito di operatività dei poteri istruttori di ufficio del
giudice del lavoro, riconosciuti dall'art. 421, secondo comma, e 437, secondo
comma, c.p.c.
4. In merito alla domanda proposta dal dipendente delle Ferrovie dello Stato al
fine di ottenere l'equo indennizzo si ravvisa nell'ambito della Sezione lavoro
un indirizzo che ritiene il lavoratore non gravato da alcun particolare onere in
ordine alle circostanze di fatto poste a fondamento della domanda essendo
sufficiente - in tema di onere della prova ed in caso di mancata contestazione -
la sola indicazione delle mansioni spiegate che hanno causato la menomazione
della sua integrità fisica (cfr. ex plurimis: Cassazione 1823/2003; 11447/2001;
11035/2001; 5724/1996; 5407/1993).
Altro indirizzo reputa che sul lavoratore gravi, invece, l'onere di provare con
precisione i fatti costitutivi del diritto dimostrando la riconducibilità
dell'infermità alle modalità di svolgimento delle mansioni inerenti alla
qualifica rivestita, variabili in relazione al luogo di lavoro, ai turni di
servizio, all'ambiente lavorativo (cfr. tra le altre: Cassazione 9539/2003;
8884/2003; 2802/2003; 1244/1998; 2947/1997; 1573/1994).
4.1. A sostegno del primo orientamento si è osservato che il giudice - in
presenza dei prescritti atti sanitari (tra i quali quelli contemplati dall'art.
4 del d.P.R. 303/1956 e dall'art. 16 del d.lgs. 626/1994, alla cui tenuta è
obbligato il datore di lavoro) - non può respingere la domanda adducendo il
mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte dell'attore ma deve valutare
se gli accertamenti compiuti dal datore di lavoro forniscano di per sé la prova
della sussistenza degli elementi richiesti per il beneficio ed, in mancanza,
disporre tutte le più opportune indagini di carattere tecnico (cfr. in tali
sensi: Cassazione 11823/2003 cit.; 11035/2001 cit.; 5724/1999). E ad ulteriore
conforto della tesi volta a limitare l'onere probatorio del ricorrente al mero
contenuto della propria attività si afferma che nella domanda per equo
indennizzo la "causa di servizio" richiede unicamente - diversamente da quanto è
dato riscontrare in relazione alla rendita da malattia professionale non
tabellata - che le infermità dipendano dall'adempimento degli obblighi di
servizio sicché anche un espletamento dell'attività del tutto normale può
comportare il riconoscimento e la corresponsione dell'equo indennizzo (così:
Cassazione 11823/2003 cit.).
4.2. Il secondo indirizzo, che richiede una più completa specificazione in
ricorso dei fatti costitutivi della domanda, si fonda sul rilievo che le
modalità di svolgimento delle mansioni inerenti alle qualifiche non configurano
un fatto notorio, che non necessitano di prova, atteso che esse sono variabili
in dipendenza del concreto posto di lavoro (anche della sua localizzazione
geografica), dei turni di servizio, dell'ambiente in generale; e si fonda
altresì sull'ulteriore considerazione della assoluta irrilevanza della mancata
contestazione con la comparsa di costituzione di primo grado delle modalità
della prestazione lavorativa allorquando dette modalità non siano state
concretamente precisate (cfr. Cassazione 2902/2003 cit.). Ed ancora si è
aggiunto che nelle ipotesi di patologie aventi carattere comune ad eziologia
cosiddetta multifattoriale, il nesso di causalità fra attività lavorativa e
l'evento in assenza di un rischio specifico non può essere oggetto di
presunzioni di carattere astratto ed ipotetico ma esige una dimostrazione,
quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche
situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di
lavoro ed alla durata ed alla intensità dell'esposizione a rischio (cfr.
Cassazione 8884/2003 cit.; 15783/1994 cit.).
4.3. Queste Sezioni Unite ritengono di condividere il secondo degli indicati
indirizzi per i seguenti motivi.
4.4. E' opinione comunemente condivisa che dal combinato disposto dell'art. 414,
n. 4, c.p.c. - regolante un requisito del ricorso introduttivo delle
controversie di lavoro equivalente a quello indicato nell'art. 163, n. 4, c.p.c.
- e dell'art. 420, 1° comma, c.p.c. si ricava che l'attore deve indicare sin
dall'atto iniziale della lite gli elementi di fatto e di diritto (causa petendi)
posti a base della domanda, atteso che dalla citata disposizione dell'art. 420
c.p.c. emerge che l'attore nella prima udienza può modificare la domanda
giudiziale solo ove ricorrano "gravi motivi" e "previa autorizzazione del
giudice". La mancata specificazione di detti elementi, sempre che non siano
individuabili neanche attraverso un esame complessivo del ricorso e della
documentazione allegata, ne comporta la nullità (cfr. tra le altre: Cassazione
3436/2002; 2572/2000; 2257/2000; 2205/1998), da ritenersi però sanabile alla
stregua dell'art. 164, 5° comma, c.p.c. per innestarsi il rito del lavoro, pur
con le sue peculiarità, nell'alveo del processo civile anche in ragione del
sostanziale avvicinamento dei due riti a seguito della novella del 26 novembre
1990, n. 353, avendo il processo ordinario ora acquisito numerose delle
caratteristiche che avevano segnato "la specificità" della l. 533/1973 (come è
tra l'altro significativamente dimostrato dalla tendenziale monocraticità del
giudice, art. 50-bis e 50-ter c.p.c.; dall'obbligatorietà dell'interrogatorio
libero e del tentativo di conciliazione delle parti, art. 183 c.p.c.; dal potere
del giudice di pronunciare con ordinanza il pagamento delle somme non contestate
o di cui il giudice ritenga raggiunta la prove, artt. 186-bis e quater c.p.c.;
dalla ormai generalizzata esecutorietà della sentenza di primo grado, art. 282
c.p.c.).
Né può sottacersi di ricordare che sul regime delle nullità formali dell'atto di
citazione e della sua notificazione hanno già avuto occasione di pronunziarsi -
seppure prima della novella del 1990 ma con argomentazioni di perdurante
condivisione - queste stesse Sezioni Unite, che hanno ritenuto il detto regime
applicabile al processo del lavoro in assenza di una specifica deroga normativa
o di una manifesta incompatibilità strutturale perché il processo del lavoro -
pur nella sua autonomia - rimane un giudizio a cognizione ordinaria inquadrabile
nell'ambito del generale sistema del c.p.c. con l'effetto che ogni carenza della
relativa disciplina ne impone l'integrazione attraverso l'applicazione, oltre
che delle norme generali del libro I del c.p.c., anche di quelle del processo di
cognizione di cui al libro II, se ed in quanto le suddette norme non siano,
appunto, incompatibili con le peculiarità connotanti il rito del lavoro (cfr. in
tali sensi Cassazione, Sezioni Unite, 2166/1988, cui adde Cassazione 5029/1993).
4.5. In conformità al principi sinora enunciati può, dunque, affermarsi che la
mancata fissazione -alla stregua del già citato art. 164, comma 5, c.p.c. - di
un termine perentorio da parte del giudice per la rinnovazione del ricorso o per
la integrazione della domanda - e la non tempestiva eccezione da parte del
convenuto ex art. 157 c.p.c. del vizio dell'atto - comprovano l'avvenuta
sanatoria della nullità del ricorso ex art. 414 c.p.c. per mancanza o per
insufficienza dei fatti e degli elementi di cui al n. 4, dovendosi ritenere -
stante l'applicabilità al processo del lavoro dell'art. 156, comma 2, c.p.c. -
che l'atto introduttivo della lite abbia conseguito il suo scopo.
4.6. La sanatoria del ricorso nei sensi ora precisati non vale però a rimettere
in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova, che devono essere
specificati così come prescritto dall'art. 414, n. 5, c.p.c. Da qui la
possibilità per il convenuto di eccepire in ogni tempo ed in ogni grado del
giudizio - al fine di ottenere il rigetto della domanda avversa - il mancato
rispetto da parte dell'attore della norma codicistica sull'onere della prova
(art. 2697 c.c.), analogamente a quanto è risultato essere avvenuto nella
presente controversia ad iniziativa della spa Ferrovie dello Stato.
Come è stato osservato, se anche a seguito dell'intervento del giudice ex art.
164, comma 5, c.p.c. siano stati emendati i vizi che inficiano il ricorso, con
gli elementi carenti dell'editio actionis, ciò non può, di certo, comportare il
superamento delle preclusioni afferenti i mezzi istruttori, maturate con il
deposito del ricorso, con la conseguenza che qualora il ricorrente non abbia
provveduto ab initio a dedurre detti mezzi, tutte le allegazioni
individualizzanti il diritto dedotto in giudizio, poiché non suffragate da alcun
mezzo istruttorio, consentiranno al giudice di emettere una sentenza di rigetto
nel merito della domanda.
4.7. È di generale condivisione in dottrina ed in giurisprudenza l'assunto che
l'omessa indicazione dei mezzi di prova di cui all'art. 414, n. 5, c.p.c.
comporta non la nullità del ricorso ma la decadenza dalla possibilità - salve le
previsioni dei provvedimenti istruttori di cui agli artt. 420, 421 e 437 c.p.c.
- di successiva deduzione delle prove nel corso del processo (cfr. tra le altre:
Cassazione 8020/1996; 3816/1990).
Ed invero alla conclusione che la decadenza dalle prove riguardi non solo il
convenuto (art. 416, 3° comma, c.p.c.) ma anche l'attore (art. 414, n. 4, c.p.c.)
si perviene con certezza sulla base della lettera dell'art. 420, 5° comma,
c.p.c. che contempla la possibilità nel corso della prima udienza che le parti
chiedano "nuovi mezzi di prova" solo ove "non abbiano potuto proporli prima".
Una tale interpretazione del dato normativo è stata accolta dalla Corte
costituzionale, che ha evidenziato il carattere paritario della disciplina
dell'attività difensionale delle parti del processo sicché la stessa sanzione di
decadenza che «per il convenuto si trova espressamente sancita nell'art. 416
c.p.c. deve, invero, ritenersi prevista per l'attore, sia pure in modo
implicito, ma non per questo meno chiaro» (Corte costituzionale, 13/1977).
4.8. È opportuno sul punto ricordare che la ratio di un tale assetto
ordinamentale - di cui si sono indicati seppure succintamente alcuni
significativi momenti - è stata sottolineata in sede di Commissioni riunite
della Camera nel corso della V Legislatura, ove - con suggestione di immagine -
si contrappose all'obbligo del convenuto di "vuotare il sacco" fin dal
principio, quello analogo dell'attore di «dire, senza riserva alcuna, fin
dall'atto introduttivo tutto ciò che attiene alla sua difesa» e di «fornire il
materiale su cui si basa la pretesa». Ed è altrettanto utile rammentare che la
simmetria tra le due parti del processo è stata tra l'altro ribadita nella
Commissione giustizia e lavoro del Senato nella VI Legislatura venendo additata
come una componente essenziale di quella reciproca collaborazione che - nello
spirito della buone fede processuale informativo del codice del 1942 -
condiziona, in pratica, lo svolgimento del rito del lavoro, nei suoi caratteri
di concentrazione, immediatezza ed oralità (cfr. in motivazione: Corte
costituzionale, 13/1977 cit.).
E proprio per accelerare al massimo i tempi del processo del lavoro - cui sono
in sostanza funzionalizzati i suoi caratteri individualizzanti - il legislatore
del 1973 ha imposto, come si è visto, l'onere di ciascuna parte di specificare
nei primi rispettivi atti giudiziari (ricorso e memoria di costituzione) non
solo i fatti posti a base delle loro rispettive richieste ma anche i mezzi di
prova di cui intende avvalersi; nel che è stato ravvisato da alcuni studiosi un
rigido e severo corollario del principio dell'allegazione dei fatti -
contrariamente a quanto voluto dalla novella del 1990 attributiva di una
conseguenzialità temporale fra la fase delle allegazioni dei fatti e quella
delle attività istruttorie - mentre da altri una mera applicazione del
cosiddetto principio dell'eventualità, proprio perché le parti sono tenute ad
indicare i mezzi di prova prima di sapere se i fatti cui essi si riferiscono
saranno contestati o meno dalla controparte.
5. La necessità di completezza nell'indicazione dei fatti costitutivi e dei
mezzi probatori trova pieno e puntuale riscontro nella specifica disciplina
dell'equo indennizzo.
Va premesso al riguardo che la "causa di servizio" costituisce il presupposto
sia per il riconoscimento della dipendenza di una infermità dal servizio (a
diversi fini di tutela ex art. 38 Cost.) sia per l'attribuzione di un "equo
indennizzo" che, previsto per il pubblico impiego dall'art. 68 d.P.R. 3/1957 (e
le cui procedure sono state notevolmente semplificate dal d.P.R. 349/1994 e
dall'art. 1 della l. 662/1996), è stato poi esteso ai dipendenti delle Ferrovie
dello Stato (cfr. art. 11 della l. 564/1981 e d.m. 1622/1983).
La relativa nozione è data, poi, dall'art. 64 del d.P.R. 1092/1972, che
stabilisce al riguardo che i "fatti di servizio", dai quali può dipendere una
infermità o la perdita dell'integrità fisica, sono quelli derivanti
dall'adempimento degli obblighi di servizio e che le lesioni e le infermità si
considerano dipendenti da causa di servizio solo quando tale adempimento ne è
stata causa ovvero concausa efficiente o determinante.
5.1. In ragione di detta disposizione è stato affermato, sia in dottrina che in
giurisprudenza, che l'equo indennizzo è volto a compensare la perdita
dell'integrità fisica dipendente dalla stessa esplicazione dell'attività
lavorativa e dalle attività ad essa connesse (cfr. C.d.S., A.p., 9/1993;
Cassazione 2802/2003); e nell'opera di identificazione dei dati caratterizzanti
l'istituto si è anche precisato che "i fatti di servizio" - da cui deve
conseguire (seppure con un semplice rapporto di concausalità purché efficiente e
determinante) la lesione all'integrità fisica del pubblico dipendente - non
vanno circoscritti al periodo in cui il dipendente presta la sua opera durante
l'orario del lavoro e nella sede dell'ufficio, dovendo comprendere qualsiasi
attività inerente al servizio, purché comandata ed autorizzata.
La portata estensiva da attribuirsi all'espressione "fatti di servizio" e la
considerazione che "la perdita permanente della integrità fisica" del pubblico
dipendente può risalire, seppure in forma concausale, a predisposizione organica
o costituzionale a contrarre infermità e/o a preesistenti condizioni morbose,
portano a concludere che nella materia in esame si rinvengono puntualmente tutte
quelle esigenze che, in relazione ad ogni controversia in materia di lavoro,
impongono la completezza del ricorso e della memoria difensiva nei termini
innanzi indicati, sicché non è consentito dubitare che l'onere della prova -
secondo i principi generali (art. 2697 c.c.) - gravi sul dipendente, non
sussistendo in materia presunzioni di dipendenza da causa di servizio, come
accade, invece, per le malattie professionali tabellate.
5.2. Quanto sinora esposto si configura come ulteriore e coerente sviluppo del
principi fissati da queste Sezioni Unite in tema di non contestazione dei fatti
allegati in ricorso (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 761/2003).
I giudici di legittimità, nell'esaminare funditus le conseguenze derivanti dalla
mancata contestazione da parte del convenuto dei "fatti costitutivi del diritto"
(es.: nella domanda di condanna al pagamento dei compensi per lavoro
straordinario, l'avvenuta prestazione oltre i limiti dell'orario normale) e
"delle circostanze dedotte al solo fine di dimostrare l'esistenza dei fatti
costitutivi, aventi mero rilievo istruttorio" (es.: sempre con riferimento alla
domanda per straordinario, compimento del percorso casa-luogo di lavoro e
viceversa in ore astrattamente coerenti con l'anzidetta prosecuzione della
prestazione lavorativa) hanno osservato:
a) che per avere rilevanza la contestazione deve, fondamentalmente "riguardare i
fatti da accertare nel processo" e non la determinazione della loro dimensione
giuridica, come si evince, per quanto riguarda il rito del lavoro, dall'art. 416
c.p.c. che addossa appunto al convenuto l'onere «di prendere posizione in
maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione», e lo riferisce
espressamente "ai fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda";
b) che a fronte di un onere specificamente imposto dal dettato legislativo la
mancata contestazione del "fatto costitutivo del diritto" rappresenta in
positivo e di per sé l'adozione di una linea difensiva incompatibile con la
negazione del fatto, rendendo inutile provarlo perché lo rende non controverso;
c) che la tendenziale irreversibilità della non contestazione del "fatto
costitutivo del diritto" si pone in coerenza con la struttura del processo che,
nel rito del lavoro, è finalizzata a far sì che all'udienza di discussione la
causa giunga delineata in modo compiuto per quanto attiene all'oggetto ed alle
esigenze istruttorie;
d) che con riferimento alla non contestazione dei "i fatti dedotti in esclusiva
funzione probatoria" non è, invece, formulabile una identica conclusione perché
essi "hanno una rilevanza che si esaurisce sul piano istruttorio", operando
sulla formazione del convincimento del giudice stesso ai fini degli accertamenti
richiestigli (cfr. in motivazione Cassazione, Sezioni Unite, 761/2002 cit.).
5.3. Dagli enunciati principi si evince che i dati fattuali, interessanti sotto
diverso profilo la domanda attrice, devono tutti essere esplicitati in modo
esaustivo o in quanto fondativi del diritto fatto valere in giudizio o in quanto
volti ad introdurre nel giudizio stesso circostanze di mera rilevanza
istruttoria non potendosi negare la necessaria circolarità, per quanto attiene
al rito del lavoro, tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di
prova; circolarità affermata - come è opportuno ribadire ancora una volta - dal
combinato disposto dell'art. 414, nn. 4 e 5, e dall'art. 416, 3° comma, c.p.c. (cfr.
al riguardo Cassazione 5526/2002). Da qui l'impossibilità di contestare o
richiedere prova - oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito - su
fatti non allegati nonché su circostanze che, pur configurandosi come
presupposti o elementi condizionanti il diritto azionato, non siano stati
esplicitati in modo espresso e specifico nel ricorso introduttivo del giudizio (cfr.
in argomento tra le altre: Cassazione 2802/2003 cit.; 5526/2002 cit.;
15920/2000).
5.4. È opportuno, sul punto, evidenziare con riferimento ai fatti sui quali si
fonda la domanda attrice come la contestazione - per evitare ricadute
pregiudizievoli per il convenuto - non possa essere generica, non possa cioè
concretizzarsi in formule di stile, in espressioni apodittiche o in asserzioni
meramente negative, ma debba essere invece puntuale, circostanziata, dettagliata
ed onnicomprensiva di tutte le circostanze in relazione alle quali viene chiesta
l'ammissione della prova. Non è invero priva di significato l'espressione "in
maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione", inclusa
nell'incipit del terzo comma dell'art. 416 c.p.c. ("Nella stessa memoria il
convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una
generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della
domanda") - e non rinvenibile nel testo dell'art. 167 c.p.c. avente ad oggetto
la comparsa di risposta (nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre
tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento
della domanda") - trovando detta espressione la sua logica spiegazione in quella
che è stata definita come una "tendenziale unicità" dell'udienza di discussione
ex art. 420 c.p.c., articolata - diversamente da quella di prima comparizione ex
art. 180 c.p.c. - in modo da consentire la immediata definizione del giudizio,
perseguibile in ragione della (già indicata) circolarità tra oneri di
allegazione, di contestazione e di prova, nonché della completa specificazione
dei dati fattuali, che nel rito del lavoro connotano, appunto, gli atti iniziali
di ciascuna parte del giudizio (ricorso ex art. 414 c.p.c. e memoria difensiva
ex art. 416 c.p.c.).
6. Sul versante istruttorio la sentenza impugnata ha rilevato poi che la
richiesta di acquisizione del fascicolo sanitario avanzata dal SC fosse inidonea
a dimostrare l'esposizione al rischio e che la prova testimoniale richiesta
dalla stessa parte appellata non potesse trovare ingresso "in quanto non
articolata in capitoli e siccome dedotta per la prima volta in appello".
Contro tale statuizione della impugnata sentenza si rivolgono le censure con le
quali il ricorrente addebita al Tribunale di non avere riscontrato le indicate
carenze probatorie, ed in particolare di avere ignorato la domanda di prove (in
ordine alle effettive condizioni di lavoro), di non avere voluto richiedere
chiarimenti al c.t.u. ed, ancora, di non avere disposto la rinnovazione della
consulenza anche per un ulteriore approfondimento dei quesiti.
In altri termini il ricorrente finisce per lamentare il mancato esercizio da
parte del giudice d'appello dei poteri d'ufficio di cui all'art. 437, comma 2,
c.p.c.
6.1. Anche queste censure si rivelano prive di fondamento.
È stato evidenziato in dottrina che il rigido sistema di preclusioni per quanto
attiene alla allegazione di fatti ed all'onere delle parti di indicare - alla
stregua del principio di eventualità - i mezzi di prova relativi ai fatti posti
a fondamento della domanda o delle eccezioni, prima di conoscere l'atteggiamento
(di contestazione o no) della controparte, hanno indotto il legislatore nel rito
del lavoro (in una area cioè del contenzioso in cui risulta rafforzata
l'esigenza di un accertamento pieno dell'esistenza o inesistenza dei fatti
controversi in ragione del carattere indisponibile o semindisponibile delle
situazioni soggettive coinvolte) ad attribuire al giudice d'appello incisivi
poteri d'ufficio in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova ove essi siano
"indispensabili ai fini della decisione della causa" (art. 437, secondo comma,
c.p.c.).
Per quanto, poi, riguarda l'esercizio dei poteri d'ufficio del giudice, queste
Sezioni Unite, dopo avere evidenziato che rispetto alla (non indifferente)
disponibilità della prova concessa al giudice nel rito ordinario (artt. 61, 197,
116, comma 5, 118, 1° e 2° comma, 213, 240, 241, 253, 257, 317), detta
disponibilità è nel rito del lavoro ben più accentuata stante il disposto
dell'art. 421, 2 comma, c.p.c. (il giudice può «disporre d'ufficio in qualsiasi
momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche al di fuori dei limiti
stabiliti dal codice civile». Con detta norma si è inteso affermare che «è
caratteristica precipua del detto rito speciale il contemperamento del principio
dispositivo con la esigenze della ricerca della verità materiale» di guisa che,
allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il
giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi e
fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere
della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori
sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti
costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di
preclusioni o decadenze in danno delle parti» (cfr. in tali testuali termini:
Cassazione, Sezioni Unite, 761/2002 cit.).
6.2. In questa sede va, dunque, ribadito che i poteri d'ufficio del giudice del
lavoro possono essere esercitati pur in presenza di già verificatesi decadenze o
preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa.
Rimangono però tuttora all'interno della Sezione lavoro di questa Corte
oscillazioni sul concreto esercizio dei poteri istruttori. Ed infatti, si è
ritenuto in alcune pronunzie che detti poteri sono rimessi all'assoluta
discrezionalità del giudice del lavoro sicché la sua decisione si sottrae al
sindacato di legittimità anche sotto il profilo del difetto di motivazione (cfr.
al riguardo: Cassazione 10658/1999; 6903/1994; 3549/1994; 2920/1987, ed, in
epoca più di recente, Cassazione 3505/2002, per la riaffermazione del principio
che la facoltà del giudice del merito di avvalersi dei poteri istruttori
conferitigli dagli artt. 421 e 437 c.p.c. costituisce espressione di un potere
discrezionale che non abbisogna di alcuna motivazione potendosi le relative
ragioni dedurre anche per implicito).
Altre decisioni si inseriscono invece nell'indirizzo secondo il quale
l'esercizio dei poteri istruttori del giudice non è meramente discrezionale
bensì obbligato ove sussistano ragionevoli probabilità di accertare attraverso
di essi la verità (cfr. al riguardo tra le altre: Cassazione 8220/2003;
4180/2003; 6531/2003; 3026/1999; 310/1998), con l'unico limite della necessaria
allegazione dei fatti ad opera della parte (in tali sensi: Cassazione 8220/2003
cit.; 9034/2000).
6.3. Ritengono le Sezioni Unite di condividere, seppure con le necessarie
precisazioni, il secondo orientamento. Ed, invero, anche a volere riconoscere ai
poteri istruttori del giudice del lavoro il carattere discrezionale, detti
poteri - proprio perché funzionalizzati al contemperamento del principio
dispositivo con quello della ricerca della verità materiale - non possono mai
essere esercitati in modo arbitrario. Ne consegue che il giudice - in ossequio a
quanto prescritto dall'art. 134 c.p.c. ed al disposto di cui all'art. 111, 1°
comma, Cost. sul "giusto processo regolato della legge" - deve esplicitare le
ragioni per le quali reputa di far ricorso all'uso del poteri istruttori o,
nonostante la specifica richiesta di una della parti, ritiene, invece, di non
farvi ricorso.
Il relativo provvedimento può, così, essere sottoposto al sindacato di
legittimità per vizio di motivazione al sensi del n. 5 dell'art. 360 c.p.c.,
qualora non sia sorretto da una congrua e logica spiegazione nel disattendere la
richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se
esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione della
controversia.
Lo stesso provvedimento è suscettibile, però, di essere censurato anche ex art.
360, n. 3, c.p.c. per violazione di legge, allorquando il giudice del lavoro
abbia esercitato i poteri istruttori sulla base del proprio sapere privato, con
riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo qui in
modo rituale, che non siano cioè emersi nel processo nel contraddittorio delle
parti come avviene, ad esempio, in sede di interrogatorio libero delle parti
stesse (cfr. in tali sensi: Cassazione 8220/2003 cit.); allorquando, superando
il principio della legalità della prova, abbia dato ingresso nel giudizio alle
cosiddette prove atipiche; allorquando abbia, in violazione del principio
dispositivo, ammesso una prova contro la volontà già espressa in modo chiaro
dalle parti di non servirsi di detta prova (cfr. al riguardo: Cassazione
3537/1993); ed ancora allorquando, in presenza di una prova già espletata su
punti decisivi della controversia, venga ammessa d'ufficio una prova diretta a
sminuirne l'efficacia e la portata, specialmente nei casi in cui - come avviene
per la prova per testi - un corretto esercizio del contraddittorio e del diritto
di difesa impone alle parti di espletare la prova in un unico contesto temporale
(cfr. sul punto: Cassazione 11002/2000).
7. In applicazione dei principi enunciati è agevole rilevare l'infondatezza del
ricorso.
7.1. IlSC nel ricorso introduttivo della controversia si è limitato a affermare
di avere svolto mansioni di guardiano ed ha, sulla base di quest'unica
asserzione, chiesto il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio
della malattia da cui ora è affetto.
Come ha correttamente rilevato il Tribunale di Bari il ricorrente aveva l'onere
di provare (art. 2697 c.c.) non solo il tipo di mansioni svolte ed il suo
concreto atteggiarsi ma pure la sussistenza di tutte quelle condizioni
(vibrazioni, scuotimenti, inclemenze atmosferiche, sottoposizioni a turni
irregolari) cui addebita in relazione di causalità la malattia da cui è
risultato affetto.
Dette circostanze fattuali andavano specificate nel ricorso introduttivo della
lite (art. 414, n. 4, c.p.c.) e sempre nello stesso atto andavano indicati i
mezzi di prova al fine di accertarne il verificarsi (art. 414, n. 5, c.p.c.),
non potendo le riscontrate carenze essere superate per effetto dell'espletamento
della perizia medico-legale e del contenuto dell'anamnesi lavorativa in essa
riportata, atteso che la consulenza tecnica, essendo strumento di valutazione -
ad opera di persone dotate di particolare conoscenza - di fatti già dimostrati,
non può costituire un mezzo di prova o di ricerca di fatti che devono essere
provati dalle parti e delle quali il consulente non può essere chiamato a dare
notizia neppure in sede di richiesta di chiarimenti (cfr. tra le tante:
Cassazione 5422/2002; 15630/2000; 8395/1996).
7.2. Per quanto riguarda, poi, la doglianza mossa in ricorso per il mancato
esercizio da parte del Tribunale dei suoi poteri d'ufficio, ne va dichiarata
l'infondatezza perché i motivi addotti dal giudice d'appello nel respingere la
sollecitazione avanzata in tali sensi dalSC in sede di gravame si sottraggono ad
ogni censura in questa sede di legittimità in quanto - in mancanza di una
articolazione della prova testimoniale per specifici capi ad opera del suddetto
ricorrente - una iniziativa sul punto da parte del Tribunale non era consentita
non risultando allegati (o ritualmente acquisiti) in giudizio i fatti (mansioni,
concrete modalità di esercizio dell'attività lavorativa, ecc.) in relazione ai
quali avrebbe dovuto spiegarsi l'attività istruttoria, e non risultando neanche
che fossero state individuate in maniera certa le persone che avrebbero dovuto
deporre come testimoni.
7.3. Né sotto altro versante vale ad inficiare l'impugnata decisione il richiamo
all'art. 2087 c.c.
Tale norma, imponendo infatti al datore di lavoro di tutelare l'integrità fisica
dei propri dipendenti, comporta l'obbligo del risarcimento del danno nei
confronti del lavoratore che abbia subito un pregiudizio.
Alla fattispecie di illecito contrattuale o extracontrattuale è invece
completamente estraneo l'istituto dell'equo indennizzo, che costituisce un
trattamento privilegiato riconosciuto ai lavoratori del settore pubblico (cfr.
al riguardo: C.d.S., 14/1985, A.p., e, più di recente, C.d.S., 9/1993, A.p., che
evidenzia come l'equo indennizzo, proprio per il concetto di equità e
discrezionalità ad esso inerente, e per la sua non coincidenza con l'entità
effettiva del pregiudizio subito dal dipendente, appare avvicinabile ad una
delle tante indennità che l'amministrazione conferisce ai propri dipendenti in
relazione alle vicende del servizio, quali l'indennità di rischio, l'indennità
di disagiata residenza, l'indennità di famiglia ecc.). Tale trattamento, esteso,
come detto, ai lavoratori privati (quali sono ora i dipendenti delle Ferrovie
dello Stato), si concretizza in un'obbligazione pecuniaria del datore di lavoro,
di natura latamente retributiva e strettamente inerente al rapporto di lavoro,
che sorge per effetto di una infermità ricollegabile eziologicamente
all'attività lavorativa spiegata, indipendentemente da eventuali inadempimenti
imputabili al datore di lavoro al sensi dell'art. 2087 c.c. (cfr. Cassazione
2802/2003, cui adde C.d.S., Sezione sesta, 397/1991, per l'affermazione che le
disposizioni in materia di equo indennizzo hanno apprestato un meccanismo che
prescinde dall'accertamento della responsabilità dell'ente pubblico; e ciò sia
nell'interesse generale ad una sollecita definizione delle procedure
amministrative, sia nell'interesse dello stesso dipendente che, in caso di
rigida applicazione dei principi vigenti in materia di responsabilità
contrattuale, avrebbe corso il rischio di non percepire alcunché tutte le volte
che l'Amministrazione avesse dato la prova di avere impiegato l'ordinaria
diligenza per evitare l'evento dannoso).
8. Ricorrono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del
presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione