IL LAVORATORE “MOBBIZZATO” DAI SUOI COLLEGHI HA DIRITTO DI OTTENERE DALL’AZIENDA IL RISARCIMENTO DEL DANNO – In base all’art. 2087 c.c. (Cassazione Sezione Lavoro n. 6326 del 23 marzo 2005, Pres. Mattone, Rel. Figurelli).
          Alberto L.,  dipendente dell’INCE, poi incorporato dalla Banca Popolare di Novara, ha svolto la sua attività fino al giugno del 1993 presso l’Ufficio Sistemi Informatici, provvedendo alla registrazione dei dati, alla predisposizione di prospetti e tabulati e, successivamente, presso l’Ufficio Ragioneria, dove si è occupato dell’inserimento dei dati relativi al pagamento delle rate di mutuo da parte della clientela, ai censimenti anagrafici, al rilascio delle informazioni contabili relative alla istruttoria delle pratiche dei clienti mutuatari. A partire dal gennaio 1994, e per circa quattro anni, è stato destinato all’Ufficio Corriere, dove la sua attività è consistita unicamente nell’apertura, timbratura e successivo smistamento della corrispondenza in arrivo, in mancanza di altri colleghi; dopo qualche tempo a tale attività è stata aggiunta quella di prelievo pratiche dall’archivio e fotocopiatura dei documenti.
          Alberto L. si è rivolto al Tribunale di Roma per ottenere l’accertamento della  illegittimità della sua adibizione a mansioni inferiori e la conseguente condanna della Banca Popolare di Novara al risarcimento del danno per demansionamento, nonché la condanna dell’azienda al risarcimento del danno biologico e del danno psichico derivatogli per stato ansioso depressivo insorto a causa delle vicende lavorative; egli ha altresì richiesto la dichiarazione di illegittimità delle note caratteristiche del 1996 con cui aveva ricevuto dai responsabili aziendali il giudizio di mediocre per le sue prestazioni lavorative.
          Il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento della domanda del lavoratore, ha accertato la sua illegittima adibizione a mansioni inferiori, rispetto a quelle originariamente svolte e ha condannato la Banca Popolare di Novara a risarcirgli il danno, liquidandolo, in via equitativa, in misura pari al 30% del trattamento economico corrisposto, oltre accessori; il Tribunale ha rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico e quella volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità delle note caratteristiche del 1996.
          Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Roma che ha condannato la Banca Popolare di Novara al risarcimento del danno da dequalificazione professionale cagionato ad Alberto L. in misura pari al 50% - anziché il 30%, come stabilito in primo grado – del trattamento economico corrisposto per il periodo dedotto in giudizio, oltre accessori; ha dichiarato la nullità delle note caratteristiche relative al ricorrente per l’anno 1996; ha disposto con separata ordinanza in ordine alla prosecuzione del giudizio per determinare la risarcibilità o meno del danno biologico.
          In particolare, con riferimento a quest’ultimo punto la Corte ha osservato quanto segue: a) la sentenza impugnata ha rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico, per mancanza di prova del nesso di causalità fra la dedotta patologia ansioso-depressiva ed il demansionamento; tale impostazione non è condivisibile, avendo il lavoratore, nell’atto introduttivo del giudizio, posto la lesione alla sua integrità psico-fisica in relazione non solo al subito demansionamento, ma al “globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro”, e segnalato una serie di comportamenti ed episodi, verificatisi nell’ambito lavorativo, che avrebbero contribuito a determinare l’insorgere della denunciata patologia; b) anche se la qualificazione di detto “comportamento globale” quale “mobbing” è stata successiva all’introduzione del giudizio, non trattasi di domanda “nuova”, tanto più che il concetto di “mobbing” ha carattere metagiuridico ed al momento manca di una espressa previsione normativa; fermo restando l’approfondimento di tale tematica in sede di pronuncia definitiva, gli episodi denunciati sono stati sostanzialmente confermati nel corso dell’espletata istruttoria, da cui è emersa una situazione lavorativa per il lavoratore quanto mai difficile, in quanto i rapporti personali con gli altri dipendenti erano diventati “particolarmente tesi” ed il lavoratore era continuamente soggetto a scherzi verbali, azioni di disturbo, via via appesantitesi nel tempo e di cui era “certamente a conoscenza il capo contabile della ragioneria il quale non si adoperò perché cessassero”; c) deve quindi essere ammessa, sul punto, la richiesta CTU medico-legale, essendo la situazione lavorativa del lavoratore astrattamente idonea a determinare l’insorgere della patologia di cui trattasi. La Banca Popolare di Novara ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge.
          La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 6326 del 23 marzo 2005, Pres. Mattone, Rel. Figurelli) ha rigettato il ricorso, affermando, tra l’altro, che correttamente la Corte di Appello ha ravvisato nella condotta imputabile all’azienda gli elementi costitutivi della fattispecie del “mobbing” – che indica l’aggredire la sfera psichica altrui – ed ha ammesso la CTU medico-legale per verificare se tale comportamento ha in concreto determinato l’insorgere nel lavoratore della patologia lamentata.
          In particolare – ha osservato la Cassazione – il giudice del merito ha accertato non solo il demansionamento di Alberto L., ma anche che vi era stato un “globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro”, consistito in una serie di comportamenti ed episodi, verificatisi nell’ambito lavorativo, denunziati e sostanzialmente confermati nel corso dell’istruttoria espletata. Da questa era emersa una situazione lavorativa quanto mai difficile per Alberto L., continuamente soggetto a scherzi verbali, azioni di disturbo, via via appesantitesi nel tempo e di cui era a conoscenza anche il capo contabile della ragioneria il quale non si adoperò perché cessassero. A fronte di tali risultanze probatorie – ha evidenziato la Corte – la Banca Popolare di Novara ha dedotto che tali atteggiamenti non configuravano una condotta propria del “mobbing” e comunque erano imputabili ai collaboratori e non ai i responsabili aziendali che peraltro non ne erano a conoscenza. L’inconsistenza di detta censura – ha affermato la Corte – è di tutta evidenza: a parte la considerazione che per la molteplicità degli episodi, a conoscenza anche di un funzionario di un certo rilievo, che non si era adoperato perché tali comportamenti vessatori cessassero, i responsabili aziendali non potevano non essere a conoscenza di tali fatti, essi erano comunque pienamente coinvolti dai comportamenti scorretti dei loro collaboratori, sia per la norma dell’art. 2087 c.c., che obbliga l’imprenditore ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, sia in base ai principi di cui agli artt. 117, comma secondo, 2 e 3, comma primo, Cost., con particolare riguardo alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore.
          Sul punto la Corte ha richiamato la sentenza della Corte Costituzionale in data 19.12.2003 n. 359 la quale – dopo aver osservato che la giurisprudenza ha prevalentemente ricondotto la concrete fattispecie del “mobbing” nella previsione dell’art. 2087 c.c. – ha affermato che “la disciplina del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell’ordinamento civile (art. 117, comma secondo, Cost.) e, comunque, non può non mirare a salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt. 2 e 3, comma primo, Cost.)”.