ORDINANZA N. 309

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

- Cesare RUPERTO Presidente

- Massimo VARI Giudice

- Riccardo CHIEPPA "

- Gustavo ZAGREBELSKY "

- Valerio ONIDA "

- Carlo MEZZANOTTE "

- Fernanda CONTRI "

- Guido NEPPI MODONA "

- Piero Alberto CAPOTOSTI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di ammissibilità del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito degli atti con i quali il Consiglio superiore della magistratura, a far data dal 3 dicembre 1998, ha adottato provvedimenti incidenti sullo stato giuridico, sulla assegnazione di sede e/o di funzioni al Giudice del Tribunale di Lecce dott. Francesco Manzo, promosso da quest’ultimo in qualità di Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Lecce e di giudice della I sezione penale dello stesso tribunale, in composizione monocratica, con ricorso depositato il 24 gennaio 2001 ed iscritto al n. 177 del registro ammissibilità conflitti.

Udito nella camera di consiglio del 9 maggio 2001 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto che il dott. Francesco Manzo, che dichiara di agire in qualità di Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Lecce e di giudice della I sezione penale del medesimo tribunale, in composizione monocratica, ha proposto ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato contro il Consiglio superiore della magistratura, per far dichiarare a questa Corte che, a partire dal 3 dicembre 1998, non spettava e non spetta al Consiglio superiore della magistratura nell’attuale composizione adottare provvedimenti che comunque incidano sullo stato giuridico, sull’assegnazione di sede e/o di funzioni al Giudice dott. Francesco Manzo e per far conseguentemente annullare tutti gli atti emessi medio tempore nei suoi confronti, in quanto tali atti risulterebbero lesivi delle prerogative costituzionali di indipendenza, autonomia, inamovibilità e difesa in giudizio degli organi giurisdizionali (articoli 24, 101, 104 e 107 della Costituzione);

che il ricorrente riferisce che in data 3 dicembre 1998 i suoi legali gli avevano comunicato che l’allora Procuratore generale aggiunto presso la Corte di cassazione lo invitava ad essere in futuro "meno rissoso", altrimenti il Consiglio superiore della magistratura avrebbe preso provvedimenti punitivi nei suoi confronti;

che il 24 novembre 1999 il Consiglio superiore della magistratura deliberava la non promozione del dott. Manzo a magistrato di Corte d’appello ed in seguito, secondo il ricorrente, esercitava pressioni sul Consiglio giudiziario presso la Corte d’appello di Lecce, fino ad indurre tale organo a rivedere in senso negativo un precedente parere, reso all’unanimità, che prevedeva la riassegnazione del dott. Manzo all’ufficio di giudice per le indagini preliminari;

che in relazione a tali atti il dott. Manzo chiamava in giudizio dinanzi al Tribunale di Potenza, per il risarcimento dei danni patiti, i componenti del Consiglio giudiziario presso la Corte d’appello di Lecce e, dinanzi al Tribunale civile di Roma, il Consiglio superiore della magistratura, per sentir dichiarare che "il Consiglio convenuto aveva posto in essere nei suoi confronti, in attuazione di una premeditata attività di mobbing, ripetuti atti illegittimi, illeciti e vessatori che ne avevano infine minato la salute" chiedendo, anche in questo caso, il risarcimento dei danni patrimoniali, non patrimoniali e morali;

che in data 20 aprile 2000, la I Commissione del Consiglio superiore della magistratura comunicava l’apertura in danno del dott. Francesco Manzo del procedimento per trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale ex articolo 2 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura) e che in seguito il Consiglio superiore della magistratura, con delibera del 10 maggio 2000, ne disponeva la rimozione dall’ufficio di giudice per le indagini preliminari e lo assegnava alla I sezione penale;

che il dott. Manzo, assumendo che le sue condizioni di salute fossero gravemente peggiorate in seguito a tale rimozione, con querela del 10 ottobre 2000 denunciava tutti i componenti in carica del Consiglio superiore della magistratura, e chiunque altro ritenuto responsabile, per "abuso d’ufficio e lesioni personali gravi" alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza;

che, quanto alla sussistenza del requisito oggettivo del conflitto, il ricorrente lamenta che tutti gli atti di cui si è sopra detto siano stati adottati con "parzialità e malanimo" dall’organo di autogoverno della magistratura, così da ledere le prerogative costituzionali di indipendenza, autonomia, inamovibilità e difesa in giudizio degli organi giurisdizionali che egli rappresenta;

che su tali premesse, il dott. Manzo chiede a questa Corte di dichiarare che gli attuali componenti del Consiglio superiore della magistratura, a partire dal 3 dicembre 1998, siano incompatibili (ai sensi dell’art. 51 del codice di procedura civile) rispetto alla adozione di ogni atto incidente sul proprio status giuridico e di annullare conseguentemente tutti gli atti emessi medio tempore;

che, secondo il ricorrente, non varrebbe a precludere la via della tutela costituzionale delle prerogative della magistratura la circostanza che i medesimi atti che sono oggetto del presente conflitto potrebbero essere impugnati nelle ordinarie sedi giurisdizionali, in quanto i due rimedi si differenzierebbero sia per gli interessi alla cui protezione sono preordinati, sia per la titolarità e portata della tutela;

che, in particolare, ricorrente nel presente conflitto non sarebbe il dott. Manzo, ma gli organi giurisdizionali che egli rappresenta, i quali potrebbero ben difendere le loro prerogative costituzionali, indipendentemente dalla eventuale tutela azionabile dal funzionario titolare dell’Ufficio giurisdizionale per ragioni inerenti al suo rapporto di impiego;

che inoltre vizi di merito degli atti sarebbero denunciabili solo nella sede del conflitto costituzionale, essendo sottratti alla cognizione del giudice comune;

che infine, quanto alla legittimazione soggettiva al conflitto, il dott. Manzo sostiene che questa Corte, con la sentenza n. 497 del 2000, avrebbe ammesso la possibilità per singoli organi giurisdizionali di sollevare conflitto di attribuzione nei confronti del Consiglio superiore della magistratura.

Considerato che il ricorrente assume in definitiva che la particolare posizione di indipendenza riconosciuta al magistrato sia tutelabile, in sede di conflitto davanti a questa Corte, tutte le volte in cui siano adottati dal Consiglio superiore della magistratura atti incidenti sul suo status professionale;

che deve invece rilevarsi che nei confronti degli atti con i quali il Consiglio superiore della magistratura, nell’esercizio delle attribuzioni conferitegli dall’articolo 105 della Costituzione, dispone assunzioni, assegnazioni, trasferimenti e promozioni, i singoli magistrati che se ne assumano lesi non possono opporre la propria posizione di potere dello Stato, ma solo la propria qualità di persone, titolari di diritti e di interessi legittimi che devono essere fatti valere dinanzi alle giurisdizioni comuni;

che nessuna indicazione in senso diverso può trarsi dalla sentenza n. 497 del 2000, evocata dal ricorrente, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare possa farsi assistere da un avvocato del libero foro;

che l’esigenza di ampliamento delle opportunità di difesa nei procedimenti disciplinari innanzi al Consiglio superiore della magistratura, alla quale la Corte ha riconosciuto in quella decisione carattere di cogenza, consegue, fra l’altro, alla considerazione che quei procedimenti sono suscettibili di incidere sulla posizione del soggetto nella vita lavorativa e quindi su beni della persona tra i quali, nel caso dei magistrati, è compresa l’indipendenza inerente al loro status professionale;

che, una volta ribadito che la tematica posta dal ricorrente va inquadrata in termini di diritto di difesa del magistrato e non di legittimazione al conflitto tra poteri, si deve solo aggiungere che la prospettiva nella quale si è collocata la citata sentenza non si discosta da quella assunta da questa Corte fin da quando fu posta la questione se il buon adempimento della funzione affidata al Consiglio superiore della magistratura postulasse la sottrazione di questo alla interferenza dei soli poteri politicamente attivi o anche a quella del potere giurisdizionale: questione che è stata affrontata e risolta sulla base del rilievo che la tutela giurisdizionale, riconosciuta a tutti in conformità ad un principio coessenziale allo Stato di diritto, non poteva essere negata ad una categoria di cittadini, i magistrati appunto, con l’effetto di lasciarli indifesi di fronte a provvedimenti del Consiglio superiore della magistratura lesivi dei propri diritti o interessi legittimi (v. sentenze n. 44 del 1968 e n. 189 del 1992);

che altro è quindi affermare che lo status del magistrato rende più stringente la necessità che la tutela giurisdizionale sia piena anche nei procedimenti disciplinari, altro è dire che, nei confronti degli atti del Consiglio superiore della magistratura incidenti su quello status, il magistrato che ne sia destinatario possa essere qualificato potere dello Stato: quest’ultima affermazione, che trascenderebbe largamente il significato e l’ambito che la Costituzione assegna al conflitto di attribuzione trasformandolo in mezzo di impugnazione generale degli atti del Consiglio superiore della magistratura, non rinviene nella giurisprudenza costituzionale alcun plausibile fondamento;

che, pertanto, il ricorso per conflitto di attribuzione deve essere dichiarato inammissibile.

 

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione di cui in epigrafe.

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2001.

 

Cesare RUPERTO, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2001.

SENTENZA N. 497

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Cesare MIRABELLI  Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO  Giudice

- Massimo VARI  “

- Cesare RUPERTO  “

- Riccardo CHIEPPA  “

- Gustavo ZAGREBELSKY  “

- Valerio ONIDA  “

- Carlo MEZZANOTTE  “

- Fernanda CONTRI  “

- Guido NEPPI MODONA  “

- Piero Alberto CAPOTOSTI  “

- Annibale MARINI  “

- Franco BILE  “

- Giovanni Maria FLICK  “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), promossi con tre ordinanze emesse il 18 febbraio 2000 dal Consiglio superiore della magistratura, sezione disciplinare, rispettivamente iscritte ai nn. 153, 154 e 155 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di costituzione del magistrato incolpato, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 26 settembre 2000 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte;

udito l’Avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. — Nel corso di tre procedimenti disciplinari a carico dello stesso magistrato, il Consiglio superiore della magistratura, sezione disciplinare, ha sollevato, con tre identiche ordinanze emesse tutte il 18 febbraio 2000, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dell’articolo 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), “nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare possa farsi assistere, per la propria difesa, da un avvocato del libero Foro”.

Nelle ordinanze di rimessione si premette che l’incolpato ha dichiarato di non volersi avvalere della difesa di un magistrato, intendendo farsi assistere da un libero professionista, sicché, non potendo, in questa situazione, procedersi alla nomina di un difensore d’ufficio, non gli resterebbe che ricorrere all’autodifesa.

Secondo la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, la questione sarebbe quindi rilevante e non sarebbe ancora stata portata al vaglio di questa Corte, in quanto con la sentenza n. 220 del 1994 è stata dichiarata inammissibile analoga questione per difetto di rilevanza nel giudizio nel cui ambito il problema era stato sollevato, e, con la successiva sentenza n. 119 del 1995, è stato affrontato il diverso problema dell’autodifesa del magistrato nel procedimento disciplinare.

Ad avviso del remittente, l’art. 24, secondo comma, della Costituzione, delineerebbe una nozione ampia del diritto di difesa, che si estenderebbe anche alla garanzia dell’assistenza tecnica. Alla luce di questa interpretazione, sarebbe del tutto naturale fare riferimento allo strumento specificamente preposto a tale scopo, e cioè, in primo luogo, alla difesa assicurata da un avvocato. In tale contesto, tenuto anche conto dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, che garantisce il diritto alla scelta di un difensore, potrebbe fondatamente dubitarsi che il divieto posto dall’art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo. n. 511 del 1946 – norma che rifletterebbe un assetto precostituzionale – sia compatibile con il pieno esercizio del diritto di difesa costituzionalmente sancito.

La sezione disciplinare – pur ricordando che, secondo la giurisprudenza costituzionale, l’art. 24 della Costituzione non preclude che la disciplina legislativa del diritto di difesa si conformi alle speciali caratteristiche dei singoli procedimenti e che “l’intera vicenda disciplinare riflette il proprium dell’ordine giudiziario” (sentenza n. 220 del 1994) – osserva che la peculiarità del procedimento disciplinare a carico dei magistrati non esclude che, nel suo ambito, l’esercizio del diritto di difesa debba esplicarsi con la stessa ampiezza riconosciuta dall’ordinamento in altri settori della giurisdizione.

Il remittente rileva ancora che, se è vero che le norme del codice di procedura penale si applicano al procedimento disciplinare solo in via integrativa per effetto degli artt. 32 e 34 del regio decreto legislativo n. 511 del 1946 (sentenza n. 119 del 1995), non sarebbe in ogni caso ragionevole una limitazione del diritto di difesa tale da escludere che l’incolpato, nel suo libero diritto di scelta, possa avvalersi, ove lo ritenga più opportuno, dell’assistenza di un libero professionista.

In questa prospettiva la disposizione censurata sarebbe in contrasto non solo con l’art. 24, ma anche con l’art. 3 della Costituzione, in quanto introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto al modo in cui può esplicarsi in sede giurisdizionale il diritto di difesa di ogni cittadino.

2. — Nel giudizio relativo ad una delle ordinanze di rimessione (R.O. n. 153 del 2000) si è costituito, a mezzo del suo difensore munito di procura speciale, il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare e ha chiesto che la questione venga accolta.

Ad ulteriore conforto dell’inesistenza di un interesse, più o meno pubblico, che precluda ai magistrati incolpati la difesa col ricorso all’assistenza di un avvocato libero professionista, la parte privata ricorda che, in virtù della modifica apportata all’art. 6 della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), dall’art. 1 della legge 12 aprile 1990, n. 74 (Modifica alle norme sul sistema elettorale e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), davanti alla sezione disciplinare il dibattito si svolge in pubblica udienza. Conseguentemente, a suo avviso, non si potrebbe neppure sostenere che esistano esigenze di “segretezza” della procedura disciplinare, tali da giustificare la scelta, operata dal legislatore del 1946, di precludere al magistrato la facoltà di farsi assistere da un avvocato del libero Foro.

3. — Nei giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata “inammissibile e comunque infondata”.

L’Avvocatura ritiene che, con la sentenza n. 119 del 1995, questa Corte sia già pervenuta alla conclusione che l’attuale disciplina della difesa del magistrato nel procedimento disciplinare (le cui peculiarità e finalità non consentirebbero la comparazione con il processo penale) dia adeguata attuazione all’art. 24 della Costituzione. Il magistrato incolpato potrebbe, infatti, scegliere tra autodifesa e difesa da parte di un collega e la sezione disciplinare potrebbe nominargli d’ufficio un magistrato difensore quando, pur avendo scelto di farsi assistere da un collega, non sia riuscito a reperirne uno.

L’Avvocatura rileva che la disciplina delle garanzie difensive apparterrebbe alla discrezionalità del legislatore, al quale soltanto spetterebbe valutare le speciali caratteristiche dei singoli procedimenti. In proposito richiama la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, pur sussistendo una matrice comune nel procedimento a carico dei dipendenti pubblici e in quello a carico dei magistrati, dovendosi in entrambi i casi assicurare l’interesse pubblico al buon andamento e all’imparzialità delle funzioni statali da bilanciarsi con i diritti dei singoli, per i magistrati i due termini del bilanciamento assumono una connotazione ulteriore: da un lato, l’interesse pubblico in gioco riguarda il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale (assistito dalla speciale garanzia di indipendenza e autonomia); dall’altro, la tutela del singolo va commisurata alla salvaguardia del dovere di imparzialità e della connessa esigenza di credibilità collegata all’esercizio della funzione giurisdizionale (sentenza n. 119 del 1995).

Secondo la difesa dello Stato, proprio le particolari caratteristiche del procedimento disciplinare in esame escluderebbero altresì la violazione dell’art. 3 della Costituzione. Il principio di eguaglianza non sarebbe, infatti, applicabile quando si tratti di situazioni che, pur derivando da basi comuni, differiscano tra loro per aspetti particolari, ma quando vi sia omogeneità di situazioni da regolare legislativamente in modo uniforme e coerente. Conseguentemente, la discrezionalità del legislatore nel regolamentare due distinte fattispecie troverebbe l’unico limite nella razionalità della diversa disciplina, razionalità che, nel caso in esame, non potrebbe essere negata, attese le peculiarità degli interessi coinvolti nel procedimento disciplinare a carico dei magistrati.

 

Considerato in diritto

 

1. — La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con tre identiche ordinanze in pari data, dubita, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), “nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare possa farsi assistere, per la propria difesa, da un avvocato del libero Foro”.

Ad avviso del remittente, la disposizione censurata, che rifletterebbe un assetto precostituzionale, non sarebbe compatibile con l’art. 24, secondo comma, della Costituzione, il quale delineerebbe una nozione ampia del diritto di difesa, che si estenderebbe alla garanzia dell’assistenza tecnica, sicché, anche alla luce dell’art. 6 della convenzione dei diritti dell’uomo, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, sarebbe del tutto naturale fare riferimento allo strumento specificamente preposto a tale scopo, e cioè alla difesa assicurata da un avvocato.

La sezione disciplinare rileva inoltre che le peculiarità del procedimento disciplinare a carico dei magistrati non escluderebbero che, nel suo ambito, l’esercizio del diritto di difesa debba esplicarsi con la stessa ampiezza riconosciuta dall’ordinamento in altri settori della giurisdizione. In questa prospettiva, il divieto contenuto nell’art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo n. 511 del 1946 si porrebbe in contrasto anche con l’art. 3 della Costituzione, per la irragionevole limitazione del diritto di difesa e per la ingiustificata disparità di trattamento rispetto al modo in cui può esplicarsi in sede giurisdizionale il diritto di difesa di ogni cittadino.

2. — I giudizi vanno riuniti in considerazione dell’identità delle questioni proposte con le tre ordinanze di rimessione.

3. — Il tema della difesa del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare è già venuto, nei medesimi termini, all’attenzione di questa Corte, che però non ha potuto affrontarlo nel merito. Nella fattispecie a cui si riferiva la sentenza n. 220 del 1994 si trattava di un incolpato che aveva optato per la difesa da parte di un magistrato, non riuscendo tuttavia a reperire un collega disposto ad assisterlo; sicché la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 del regio decreto legislativo n. 511 del 1946, nella parte in cui non consente la nomina di un difensore del libero Foro, era, in quel caso, irrilevante ed è stata perciò dichiarata inammissibile. Nella vicenda dalla quale prende le mosse l’attuale giudizio di costituzionalità si tratta, invece, di un magistrato che, incolpato in tre distinti procedimenti disciplinari, ha dichiarato di non volersi avvalere della difesa di un collega ma di quella di un libero professionista. La questione è pertanto indubbiamente rilevante e deve essere scrutinata nel merito.

4. — La questione è fondata.

Le ragioni che hanno indotto il legislatore a configurare il procedimento disciplinare per i magistrati secondo paradigmi di carattere giurisdizionale sono state più volte esaminate da questa Corte: da un lato l’opportunità che l’interesse pubblico al regolare e corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie e lo stesso prestigio dell’ordine giudiziario siano tutelati nelle forme più confacenti alla posizione costituzionale della magistratura e al suo statuto di indipendenza; dall’altro l’esigenza che alla persona del magistrato raggiunto da incolpazione disciplinare sia riconosciuto quell’insieme di garanzie che solo la giurisdizione può assicurare (cfr. sentenze nn. 71 del 1995, 289 del 1992 e 145 del 1976).

Ora, riconoscere al magistrato la facoltà di farsi assistere da un difensore del libero Foro, anziché imporgli, quale opzione esclusiva, un difensore “interno” appartenente all’ordine giudiziario, significa trarre alle loro naturali conseguenze le finalità di rango costituzionale sottese alla giurisdizionalizzazione della responsabilità disciplinare.

5. — La premessa teorica dalla quale occorre procedere è che il regolare e corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie e il prestigio della magistratura investono il momento della concretizzazione dell’ordinamento attraverso la giurisdizione, vale a dire l’applicazione imparziale e indipendente della legge. Si tratta perciò di beni i quali, affidati alle cure del Consiglio superiore della magistratura, non riguardano soltanto l’ordine giudiziario, riduttivamente inteso come corporazione professionale, ma appartengono alla generalità dei soggetti e, come del resto la stessa indipendenza della magistratura, costituiscono presidio dei diritti dei cittadini.

All’inquadramento concettuale della responsabilità disciplinare secondo logiche corrispondenti all’autentico significato che l’indipendenza della magistratura assume nel sistema costituzionale (come garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini), si è pervenuti attraverso un ampio dibattito, che ha visto impegnata anche la magistratura in molte delle sue componenti e che ha propiziato l’abbandono di schemi obsoleti, ereditati dalla legislazione anteriore e ancora attivi dopo l’entrata in vigore della Costituzione, imperniati sull’idea, che rimandava ad antichi pregiudizi corporativi, secondo cui la miglior tutela del prestigio dell’ordine giudiziario era racchiusa nel carattere di riservatezza del procedimento disciplinare. Il punto di arrivo di un tale percorso, politico-istituzionale e culturale ad un tempo, è individuabile nella regola della pubblicità delle udienze disciplinari, anticipata in via di prassi nella giurisprudenza ispirata ai principî risultanti dall’art. 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, e formalizzata, oggi, nell’art. 1 della legge 12 aprile 1990, n. 74. In tale regola si manifesta con un massimo di evidenza il totale rovesciamento di quei vecchi schemi ricostruttivi ed emerge nitidamente la stretta correlazione tra la nozione di prestigio dell’ordine giudiziario e la credibilità dell’esercizio delle funzioni giudiziarie presso la pubblica opinione, intesa ovviamente in senso pluralistico nel suo articolarsi in modi di vedere non necessariamente uniformi. Una nozione, quindi, che postula non la segretezza del procedimento disciplinare ma la trasparenza, valore portante di ogni sistema autenticamente democratico, i cui caratteri sono destinati a riflettersi sulla stessa difesa del magistrato, che non può, a sua volta, non conformarsi alla funzione propria della responsabilità disciplinare e alla sua vocazione a oltrepassare la ristretta cerchia di un corpo professionale organizzato.

Nel mutato contesto che si è venuto dischiudendo, segnato da una crescente consapevolezza dell’ineliminabile compenetrazione dei principî costituzionali sulla magistratura con quelli di pubblicità e trasparenza delle funzioni pubbliche, la regola contenuta nella citata legge sulle guarentigie, secondo cui l’incolpato può farsi assistere da un collega, permane, né è rinvenibile alcuna ragione per la quale essa debba venire rimossa. Tuttavia tale regola dismette la sua originaria caratterizzazione corporativa ed assume una ratio diversa, che può essere così esplicitata: la scelta dell’incolpato cade su un collega non in quanto appartenente ad una presunta corporazione di soggetti interessati alla tutela del prestigio dell’ordine giudiziario, ma in quanto ritenuto in possesso dell’idoneità tecnica per assumere una siffatta difesa. Se però la validità della scelta legislativa deve essere misurata sul piano dell’idoneità tecnica del difensore, allora restano prive di qualunque fondamento giustificativo la limitazione ai soli magistrati della sfera dei soggetti legittimati a svolgere l’ufficio difensivo e la conseguente esclusione degli avvocati del libero Foro, ai quali, a causa del loro specifico statuto professionale, l’attitudine a difendere non può essere disconosciuta.

6. — Tutto ciò appare evidente se si assume a criterio di valutazione l’interesse pubblico al corretto e regolare svolgimento delle funzioni giurisdizionali e al prestigio dell’ordine giudiziario. Se poi ci si colloca nella prospettiva della persona incolpata e del suo diritto di difesa, è egualmente chiaro che la pienezza della tutela giurisdizionale non può trovare in tale interesse pubblico un controvalore con il quale debba essere bilanciata. Al contrario, tale tutela è anche funzionale alla migliore e più efficace realizzazione di quell’interesse. Il massimo di incisività delle garanzie accordate al magistrato sottoposto a procedimento disciplinare, infatti, non può che convertirsi in una altrettanto incisiva tutela del prestigio dell’ordine giudiziario e del corretto e regolare svolgimento delle funzioni giudiziarie. Ebbene, proprio dal punto di vista del singolo incolpato, il procedimento di cui è questione, come tutti i procedimenti disciplinari potenzialmente incidenti sullo status professionale, tocca la posizione del soggetto nella vita lavorativa e coinvolge quindi beni della persona che già richiedono, di per sé, le garanzie più efficaci. Ma con riferimento ai magistrati l’esigenza di una massima espansione delle garanzie difensive si fa, se possibile, ancora più stringente, poiché nel patrimonio di beni compresi nel loro status professionale vi è anche quello dell’indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all’interno che all’esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura. E’ anzi, questo, uno dei punti nevralgici dell’insieme dei rapporti che fanno capo al magistrato incolpato: davanti alla sezione disciplinare, tanto più se si tiene conto della mancata tipizzazione legislativa degli illeciti, il diritto di difesa, a partire dalla prima delle facoltà che esso racchiude, quella della scelta del difensore, deve essere configurato in modo che nello stesso incolpato e nella pubblica opinione in nessun caso possa ingenerarsi il sospetto, anche il più remoto, che il procedimento disciplinare si trasformi in uno strumento per reprimere convincimenti sgraditi o per condizionare l’esercizio indipendente delle funzioni giudiziarie.

Vi è quindi stretta correlazione tra l’indipendenza del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare e la facoltà di scelta del difensore da lui ritenuto più adatto, sicché limitare quest’ultima facoltà significa in definitiva menomare in parte anche il valore dell’indipendenza. Spetterà semmai al magistrato, in relazione alla singola vicenda disciplinare, decidere se sia più conveniente l’assistenza di un collega ovvero quella di un difensore esterno, che potrebbe essere reputato più efficiente anche eventualmente in considerazione della sua posizione di estraneità all’ordine giudiziario e del suo non essere soggetto ad alcuno dei poteri del Consiglio superiore della magistratura.

7. — A riprova dell’incongruenza della disciplina può ulteriormente osservarsi che, permanendo il censurato art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo n. 511 del 1946, l’incolpato deve obbligatoriamente servirsi di un avvocato iscritto all’albo speciale per il patrocinio innanzi alle magistrature superiori nell’eventuale successivo giudizio davanti alle sezioni unite della Cassazione, e che, in caso di accoglimento del suo ricorso con rinvio alla sezione disciplinare, egli dovrebbe necessariamente tornare all’autodifesa o all’assistenza di un collega, con un dispendio di energie difensive del quale non è ravvisabile alcun fondamento giustificativo.

Se dunque si ha riguardo all’insieme dei profili connessi alla questione di costituzionalità, la conclusione è che, nel procedimento davanti alla sezione disciplinare, la difesa del magistrato deve potersi dispiegare nella sua pienezza, la quale non può dirsi raggiunta se al magistrato è negata la possibilità di avvalersi dell’apporto difensivo di un avvocato del libero Foro.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare possa farsi assistere da un avvocato.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in cancelleria il 16 novembre 2000.

N. 189

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Dott. Aldo CORASANITI

Giudici

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 12 aprile 1990, n. 74 (Modifica alle norme sul sistema elettorale e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), in relazione al decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 654, promosso con ordinanza emessa il 30 maggio 1991 dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia sui ricorsi riuniti proposti da Grillo Renato contro il Consiglio superiore della magistratura ed altro, iscritta al n. 659 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 febbraio 1992 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

 

Ritenuto in fatto

 

 

1. Con ricorso notificato il 14 novembre 1989 e depositato il 6 dicembre 1989 presso la cancelleria del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, il dottor Renato Grillo, magistrato di tribunale con funzioni di giudice presso il Tribunale di Palermo, impugnava la delibera del Consiglio superiore della magistratura (C.S.M.) in data 19 luglio 1989 con la quale gli veniva negata la nomina a magistrato di appello, chiedendone l'annullamento per vari motivi. Con altro ricorso, notificato il 23 maggio 1990 e depositato il 1 giugno 1990 presso la cancelleria della stessa Autorità giudiziaria, il Grillo impugnava, per gli stessi motivi dedotti in precedenza, il d.P.R. in data 16 ottobre 1989 (registrato alla Corte dei conti il 26 febbraio 1990), adottato in conformità alla predetta delibera del C.S.M.

In particolare il Grillo si doleva della circostanza secondo la quale sarebbe stato disatteso il parere del Consiglio giudiziario di Palermo da parte del C.S.M.; della utilizzazione, da parte del predetto organo, di elementi di giudizio (negativi) non riconducibili ad alcuna delle categorie previste dalla normativa in vigore; della violazione del principio del ne bis in idem e delle disposizioni in tema di procedimenti disciplinari.

Infine, lamentava una cattiva interpretazione dei fatti assunti a base del censurato provvedimento, in ispecie a proposito d'un incarico extra- giudiziario a suo tempo conferitogli.

Costituitasi in giudizio nell'interesse del Consiglio superiore della magistratura e del Ministro di grazia e giustizia, l'Avvocatura dello Stato resisteva su entrambi i ricorsi che, successivamente, venivano riuniti.

2. Con ordinanza depositata in data 29 agosto 1991 il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia ha sollevato, in relazione agli artt. 3, 24 e 125 della Costituzione e all'art. 23, primo comma, dello Statuto della Regione siciliana (regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455) in rapporto al decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 654, la questione di legittimità dell'art. 4 della legge 12 aprile 1990, n. 74, nella parte in cui attribuisce al (solo) Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sottraendoli all'esame degli altri Tribunali amministrativi regionali altrimenti competenti secondo le norme generali ed in particolare in ossequio al cd. foro speciale dei pubblici dipendenti stabilito dall'art.3, cpv. ultima parte, della legge istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali (6 dicembre 1971, n. 1034), la competenza a decidere sui ricorsi in primo grado avverso i provvedimenti riguardanti i magistrati ordinari.

2.1. Premettono i giudici remittenti che l'originaria formulazione dell'art.17 della legge 24 marzo 1958, n. 195, istitutiva del C.S.M., prevedeva che avverso i provvedimenti da esso adottati era dato <<ricorso al Consiglio di Stato per motivi di legittimità e alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione avverso quelli disciplinari>>. A seguito dell'emanazione della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali, la giurisprudenza ha ritenuto che - non avendo l'art. 17 della legge n. 195 del 1958 carattere di norma speciale - si dovesse estendere ai provvedimenti in questione il regime del doppio grado di giurisdizione introdotto, appunto, dalla legge n.1034 del 1971.

Tale orientamento non é stato più rimesso in discussione e, perciò, ne consegue che l'art. 4 della legge 12 aprile 1990, n. 74, novellando il solo secondo comma dell'art. 17 della legge istitutiva del C.S.M., ha sostanzialmente modificato il precedente assetto delle impugnative, sostituendo alla competenza giurisdizionale in primo grado, ripartibile per ragioni di territorio fra tutti i Tribunali amministrativi regionali, una competenza funzionale del solo Tribunale amministrativo regionale del Lazio.

In base alla legge n.1034 del 1971 la competenza territoriale dei Tribunali amministrativi regionali é espressamente derogabile dalle parti, anche quando riguardi il foro speciale dei pubblici dipendenti. Ma con la cennata modifica legislativa, che ha accentrato la competenza di primo grado sui ricorsi avverso i provvedimenti del C.S.M. relativi ai magistrati ordinari presso il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, si sarebbe pure venuta a mutare la natura di questo tipo di competenza che, nella specie, si configurerebbe come una competenza funzionale (o territoriale inderogabile).

Secondo i giudici remittenti, non potrebbe darsi, infatti, una discrezionalità dell'amministrazione nella scelta di esperire o meno il regolamento di competenza, accettando, in contrasto con il precetto costituzionale di imparzialità della Pubblica amministrazione, una volta il diverso foro adito dal magistrato e una volta contestandolo con l'esperimento del regolamento di competenza - ex art. 31 della legge n. 1034 del 1971. Il carattere funzionale di tale competenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio risulterebbe altresì dal fatto che, in deroga a ogni altro criterio stabilito dalla legge citata n. 1034, essa si radicherebbe esclusivamente in funzione dell'oggetto dell'impugnativa (provvedimenti riguardanti magistrati ordinari adottati su deliberazione del C.S.M.).

In tali sensi deporrebbero anche i lavori preparatori.

Di conseguenza, tale diverso e nuovo tipo di competenza sarebbe inderogabile e, perciò, rilevabile d'ufficio ai sensi dell'art. 38 del codice di procedura civile.

2.2 I giudici del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia chiedono la censura della norma contenuta nell'art. 4 della legge 12 aprile 1990, n.74, innanzitutto con riferimento all'art. 3 della Costituzione. A loro avviso, con la soppressione del foro della sede di servizio nei confronti dei soli magistrati ordinari verrebbe a determinarsi, a danno dei medesimi rispetto alle altre categorie di magistrati e alla generalità dei pubblici dipendenti (con rapporto d'impiego pubblicistico), una evidente disparità di trattamento. Mentre per tutti gli altri pubblici dipendenti continua ad applicarsi la regola del foro della sede di servizio, per i soli magistrati tale regola verrebbe meno, sì che ne deriverebbe un danno per costoro consistente nell'impossibilità di giovarsi del Tribunale amministrativo regionale della rispettiva sede di servizio, che é disposizione a tutela del lavoratore - pubblico dipendente in ordine ai ricorsi contro i provvedimenti che li riguardano.

Tale disparità non sarebbe sorretta da un adeguato fondamento giustificativo.

La motivazione emergente dai lavori preparatori, che fanno riferimento all'uniformità di indirizzo giurisprudenziale in ordine agli atti del C.S.M., non costituirebbe ragione appropriata e sufficiente atteso che orientamenti giurisprudenziali diversi sono il naturale portato della pluralità degli organi giudiziari tra loro equiordinati (i Tribunali amministrativi regionali), mentre l'esigenza di reductio ad unitatem sarebbe tipica della funzione del giudice di appello che é riservata al Consiglio di Stato.

La carenza di specifiche esigenze giustificative si risolverebbe in una violazione del precetto costituzionale di uguaglianza. Del resto, la stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 117 del 1990 avrebbe accolto censura analoga (in materia di foro erariale per le controversie di lavoro dei dipendenti dell'Ente Ferrovie dello Stato).

2.3. Ad avviso dei remittenti l'articolo impugnato sarebbe incostituzionale anche sotto un secondo profilo, quello della tutela costituzionale del diritto di azione.

Lo spostamento della competenza operato dall'art. 4 menzionato inciderebbe, per vero, sul diritto di quegli interessati che sono in servizio fuori del distretto di Roma, per il costo più elevato e le maggiori difficoltà connesse alla necessità di adire il Tribunale amministrativo regionale del Lazio.

2.4. Censurabile, ancora, la norma con riguardo all'art.125, secondo comma, della Costituzione, ai sensi del quale tutti i Tribunali amministrativi regionali periferici dovrebbero conoscere le controversie relative a provvedimenti degli enti e degli organi centrali a livello nazionale. L'art. 4 della legge n. 74 del 1990 attuerebbe, dunque, una deroga ingiustificata di tale disposizione costituzionale.

2.5. Infine, i remittenti prospettano, come ulteriore motivo di doglianza, il contrasto fra l'art. 4 citato e l'art. 23, primo comma, dello Statuto della Regione siciliana (regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455) in rapporto al decreto legislativo 6 maggio 1948,n.654, istitutivo del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana.

In attuazione dell'art. 23 dello Statuto speciale della regione siciliana é stato infatti costituito il Consiglio di Giustizia Amministrativa (C.G.A.) per quella regione, organo che - pur costituendo un'articolazione del Consiglio di Stato - ha una speciale composizione con riguardo alla componente laica designata dal governo regionale. La legge n.1034 del 1971 e la sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1975, ponendo il C.G.A. nel ruolo di giudice di solo appello avverso le sentenze del T.A.R. della Sicilia, rivelerebbero la presente censura, poiché il C.G.A., a seguito dell'introduzione della competenza funzionale al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, si vedrebbe in parte sottratta la propria competenza.

3. É intervenuta, in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura generale dello Stato che ha concluso per l'infondatezza della questione sollevata.

Ha osservato l'interventore che non sussiste la violazione dell'art.24 della Costituzione, in quanto la Corte costituzionale ha più volte ritenuto legittimo, per il legislatore ordinario, limitare il diritto di azione, anche in assenza di una esplicita riserva di legge, purché il diritto costituzionalmente protetto non ne venga snaturato o irragionevolmente ristretto e tali limitazioni siano dettate da interessi superiori. Nel caso di specie, siffatti interessi sarebbero individuabili nella esigenza di assicurare una uniformità di giurisprudenza <<nella piena libertà da condizionamenti più o meno pesanti, pressanti o subdoli delle situazioni locali>>.

Non sussisterebbe neppure la violazione dell'art. 3 della Costituzione, poiché il principio di uguaglianza non impedisce al legislatore di statuire una diversa disciplina per regolare situazioni diverse, per categorie di destinatari (sentenza del 6 marzo 1990, n. 117).

Nella specie, ricorrerebbe l'esigenza di conseguire una unitarietà di criteri di valutazione in un settore particolarmente delicato quale quello dell'amministrazione della giustizia (fondamento di ragionevolezza) e la necessità di salvaguardare i principi costituzionali in materia di indipendenza della magistratura.

Andrebbero altresì respinte le ulteriori doglianze prospettate con riferimento all'art. 125, secondo comma, della Costituzione e all'ordinamento della giustizia amministrativa siciliana. L'art.125, invero, si limita soltanto a indicare la necessità di istituire organi di giustizia amministrativa di primo grado nella regione, ma non impedisce di fissare in settori specifici altri criteri distributivi della competenza.

E l'art. 23 dello Statuto della Regione siciliana individua soltanto la necessità di creare un giudice di appello, con sede in Sicilia, ma non mira certo ad attribuirgli anche la competenza a conoscere le controversie di secondo grado che non siano state celebrate in primo grado davanti al Tribunale amministrativo regionale di quella regione.

 

Considerato in diritto

 

 

1. Il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia solleva dubbi sulla legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 12 aprile 1990, n. 74 (Modifica alle norme sul sistema elettorale e sul funzionamento del consiglio superiore della magistratura), nella parte in cui, sostituendo il secondo comma dell'art. 17 della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del consiglio superiore della magistratura) attribuisce al (solo) Tribunale amministrativo regionale del Lazio la competenza a decidere sui ricorsi in primo grado avverso i provvedimenti riguardanti i magistrati ordinari, dubbi in relazione agli artt. 3, 24 e 125 della Costituzione ed all'art. 23, primo comma, dello Statuto della Regione Siciliana (regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455) in rapporto al decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 654.

L'originaria formulazione dell'art. 17 della legge n. 195 del 1958, istitutiva del C.S.M., prevedeva che avverso i provvedimenti dell'organo di governo della magistratura fosse dato ricorrere avanti al Consiglio di Stato per motivi di legittimità (e alle sezioni unite della Corte di cassazione avverso quelli disciplinari). In seguito all'emanazione della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, la giurisprudenza ha ritenuto che - non avendo l'art. 17 della legge n. 195 del 1958 carattere di norma speciale - si dovesse estendere ai provvedimenti in questione il regime del doppio grado di giurisdizione introdotto, appunto, dalla legge istitutiva della competenza in primo grado dei Tribunali amministrativi regionali.

Tale orientamento non é stato più rimesso in discussione, sì che ne consegue che l'art. 4 della legge 12 aprile 1990, n. 74, novellando il solo secondo comma dell'art. 17 della legge istitutiva del C.S.M., ha sostanzialmente modificato il precedente assetto delle impugnative, sostituendo alla competenza giurisdizionale in primo grado, ripartibile per ragioni di territorio fra tutti i Tribunali amministrativi regionali, la competenza del solo Tribunale amministrativo regionale del Lazio.

1.1. La prima censura sollevata dal tribunale remittente riguarda la legittimità costituzionale del regime derogatorio previsto per le impugnative delle delibere del C.S.M. (riservata al solo Tribunale amministrativo regionale del Lazio) imperniato su regole disciplinatrici della competenza stabilite con esclusivo riferimento ai magistrati ordinari, rispetto al criterio del foro speciale del pubblico impiego, valevole per tutti gli altri pubblici dipendenti, attributivo della competenza a conoscere delle impugnative degli atti riguardanti il rapporto di servizio avanti al Tribunale amministrativo regionale del luogo ov'é la sede di lavoro.

Si osserva dai remittenti che mancherebbe una qualsivoglia ragionevolezza per tale regime di deroga di una disposizione pacificamente posta a tutela del lavoratore - pubblico dipendente.

Tale disparità di trattamento, insomma, non sarebbe sorretta da un adeguato fondamento giustificativo.

La seconda censura riguarda, invece, la disposizione sotto la lente della tutela costituzionale del diritto di azione.

Lo spostamento della competenza operato dall'art. 4 menzionato inciderebbe, infatti, sul diritto di quegli interessati che sono in servizio fuori del distretto di Roma, per il costo più elevato e le maggiori difficoltà connesse alla necessità di adire il Tribunale amministrativo regionale del Lazio.

1.2. Le prime due censure, che, per affinità di situazioni e per comodità di esposizione, possono essere congiuntamente esaminate, sono infondate.

Questa Corte ha già avuto modo di soffermarsi sulla particolare posizione che il Consiglio superiore della magistratura occupa nell'ordinamento costituzionale della Repubblica e sullo <<status>> rivestito dai magistrati ordinari, particolare e differenziato, rispetto alla categoria degli altri pubblici dipendenti.

In ordine alla posizione del C.S.M. ha asserito, con la sentenza n. 44 del 1968, che nella specie si ha riguardo ad un <<organo che, pure espletando funzioni solamente di indole amministrativa, non é parte della pubblica amministrazione (in quanto rimane estraneo al complesso organizzativo che fa capo direttamente, o al Governo dello Stato o a quello delle Regioni, ed all'altro cui dà vita l'amministrazione indiretta, collegato al primo attraverso l'esercizio di forme varie di controllo ad esso attribuite)>>. E lungi dal ridimensionarne la posizione - come pur si é sostenuto - ha rivalutato la natura delle sue funzioni, conseguentemente affermando che << comunque si voglia qualificarlo in sede dogmatica, si tratta di un organo di sicuro rilievo costituzionale>> (sentenza n. 148 del 1983). Ma ha respinto l'idea dell'autocrinia o autodichia, rilevando l'insussistenza d'un principio generale applicabile <<a tutti gli organi cui la Costituzione conferisce una posizione di indipendenza>> e autonomia, idoneo di per sé a sottrarre gli atti di tali organi che incidano su situazioni soggettive di terzi alle comuni giurisdizioni. Con ciò implicitamente accogliendo gli orientamenti del Consiglio di Stato che sin dall'inizio (sentenza n. 248 del 1962) aveva ritenuto censurabili nel loro contenuto i decreti impugnati, anziché limitare l'oggetto del sindacato - secondo la tesi riduttiva avanzata dall'Avvocatura dello Stato - soltanto ai vizi propri dei decreti, presidenziali o ministeriali, emanati in conformità alle deliberazioni consiliari.

L'impugnabilità, anche per un organo di garanzia qual é, secondo la communis opinio, il Consiglio superiore della magistratura, deriva dalla <<grande regola>> accolta dall'art. 24 della Costituzione, che dà tutela generalizzata ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi.

Sullo status di magistrato ordinario questa Corte ne ha più volte sottolineato l'assoluta peculiarità rispetto alla posizione per effetto delle <<garanzie costituzionali di indipendenza>> quali risultano dalla riserva di legge (art. 108 della Costituzione), dall'assunzione mediante concorso (art. 106) e dalla inamovibilità (art. 107). Garanzie che competono in via esclusiva al magistrato (sentenza n. 44 del 1968), anche per quanto attiene al procedimento disciplinare che si svolge <<nelle forme e nei modi ... tipici del processo>> (sentenza n. 168 del 1983), poiché <<a coloro che fanno parte dell'ordine giudiziario non si applicano le disposizioni relative all'ordinamento gerarchico statale>> (sentenza n. 12 del 1971), di modo che non sussiste possibilità di assumere i principi che valgono per la generalità dei pubblici dipendenti (meno che mai specifici istituti) come termine di raffronto per giudicare della normativa sullo status dei magistrati ordinari.

Lamenta il giudice a quo che la disposizione introdotta dall'art. 4 della citata legge n. 74 risulti particolarmente gravosa per i magistrati ordinari i quali non risiedano nella circoscrizione del Tribunale amministrativo regionale del Lazio e che in tal modo venga ingiustamente compresso il diritto d'azione.

Tuttavia, se il rigore con cui é tutelato detto diritto non esclude che il sistema di tutela giurisdizionale ben possa adeguarsi alla particolarità del rapporto, quando siano da salvaguardare interessi razionalmente ritenuti degni di tutela (fermo restando che al legislatore ordinario é inibito di imporre oneri tali che compromettano la tutela stessa: ordinanza n. 73 del 1988 e sentenze n. 63 del 1977, nn. 249 e 55 del 1974, n. 94 del 1973, n.125 del 1969, n. 85 del 1968), a maggior ragione deve riconoscersi al legislatore ampia discrezionalità nell'operare il riparto di competenza fra gli organi giurisdizionali, nel rispetto del principio di uguaglianza e, segnatamente, del canone di ragionevolezza.

Ora, nel caso della disposizione in esame, la particolare posizione assicurata al Consiglio superiore della magistratura nell'organizzazione dei pubblici poteri e la peculiarità dello status dei magistrati ordinari, in gran parte orientato dalla stessa Costituzione, danno pieno fondamento giustificativo a una regolamentazione, come quella introdotta dall'art. 4 della legge n. 74 del 1990, che si discosta dalla regola, valevole per i pubblici dipendenti, del foro della sede di servizio.

La norma oggetto di censura risponde, inoltre, a un'esigenza largamente avvertita circa l'uniformità della giurisprudenza fin dalle pronunce di primo grado, e non palesa dunque profili d'illegittimità.

2. La norma, a giudizio del Tribunale amministrativo regionale remittente, sarebbe ancora censurabile con riguardo all'art. 125, secondo comma, della Costituzione. Sulla base di tale disposizione, infatti, tutti i Tribunali amministrativi regionali periferici dovrebbero poter conoscere le controversie relative ai provvedimenti degli enti e degli organi centrali.

L'art. 4 della legge n. 74 del 1990 attuerebbe, di conseguenza, una deroga ingiustificata di tale disposizione costituzionale.

I remittenti infine prospettano, come ulteriore motivo di contrasto con l'assetto costituzionale dello Stato, il conflitto fra l'art. 4 citato e l'art. 23, primo comma, dello Statuto della Regione siciliana (regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455) in rapporto al decreto legislativo 6 maggio 1948,n. 654 istitutivo del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana. Invero, il C.G.A., organo che - pur costituendo un'articolazione del Consiglio di Stato - ha una speciale composizione con riguardo alla componente laica designata dal governo regionale, a seguito dell'introduzione della competenza funzionale al Tribunale amministrativo regionale del Lazio si vedrebbe parzialmente sottratta la propria competenza.

2.1. Anche queste due ultime censure possono essere congiuntamente esaminate, e sono del pari infondate.

La norma impugnata non contrasta, infatti, né con l'art. 125, secondo comma, della Costituzione né con l'art. 23 dello Statuto della Regione siciliana.

Non contrasta con la prima disposizione perché l'attribuzione della competenza al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, anziché ai diversi Tribunali amministrativi regionali dislocati su tutto il territorio nazionale, non altera il sistema di giustizia amministrativa.

Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio é parte, infatti, del sistema processuale amministrativo che consta di numerosi gangli periferici e di uno centrale, che con quelli é collegato - in base alle regole proprie della giurisdizione amministrativa - ben oltre il caso oggetto dell'impugnativa in esame Non contrasta infine con la seconda disposizione, perché essa stabilisce soltanto che gli organi giurisdizionali centrali debbano avere in Sicilia le sezioni per gli affari concernenti la regione: norma in esecuzione della quale é stato a suo tempo istituito il Consiglio di Giustizia Amministrativa. In una previsione che non implica affatto - anzi esclude - la competenza a conoscere ogni tipo di controversie, specie con riguardo a questioni che non hanno alcun rapporto con la materia regionale.

 

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.4 della legge 12 aprile 1990, n. 74 (Modifica alle norme sul sistema elettorale e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), in riferimento agli artt. 3, 24 e 125, secondo comma, della Costituzione ed all'art. 23, primo comma, dello Statuto della Regione Siciliana (regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455) in rapporto al decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 654, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13/04/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria il 22/04/92.