IL DANNO PSICHICO DA MOBBING ATTRAVERSO L’ANALISI DI DUE RECENTI SENTENZE DEL TRIBUNALE DI TORINO.

 

 

 

Giuseppe ALI’
Dirigente Medico Inail



Il tema affrontato in questo intervento si basa su due concetti che vanno di pari passo, danno psichico e mobbing, visto che il primo può considerarsi la espressione più diretta del secondo.
Insomma il danno psichico è il tipico danno subito dalla vittima di mobbing.
Nell'esperienza dell'Europa continentale l'elaborazione del concetto di mobbing prese l’avvio all'inizio degli anni 80 quando il professor Leymann iniziò a mettere in connessione la vasta casistica di ammalati in cura per problemi psichici con i disagi che questi denunciavano nei rapporti interpersonali sul luogo di lavoro.
Ma certamente il dato più interessante è che questa intuizione fu sviluppata contemporaneamente anche in altre aree del mondo occidentale ad economia sviluppata: in Inghilterra il Prof. Tim Field indagò lo stesso fenomeno denominandolo “bulling at work place” ed analogamente negli Stati Uniti altre ricerche presero le mosse sullo stesso argomento sebbene da un presupposto differente quale quello della violenza morale subita dalle donne sul luogo di lavoro (“harassment”).
Da questa circostanza, e dalla considerazione che un certo grado di conflittualità del mondo del lavoro è in ogni caso sempre esistito, può desumersi la non casualità riguardo al fatto che nel medesimo periodo diverse ricerche siano giunte a focalizzare la loro attenzione sul mondo del lavoro come elemento scatenante di patologie di natura psichica.
Non è nemmeno un caso che questo fenomeno sia avvenuto verso la fine degli anni 80 allorquando nel mondo del lavoro furono introdotti gli effetti delle grandi trasformazioni tipiche della economia attuale: la globalizzazione e la fusione fra grandi gruppi industriali o finanziari che rendendo necessaria la ristrutturazione del personale cagionò di conseguenza una maggiore precarietà del posto di lavoro e una maggiore conflittualità tra i lavoratori.
E’ quindi evidente che su questi presupposti il fenomeno del mobbing non poteva che espandersi velocemente: maggiore è la flessibilità o la precarietà del lavoro, maggiore è la concorrenza tra colleghi che, per ragioni di competitività, attivano dei comportamenti volti ad “eliminare” quei dipendenti che sono diventati un’eccedenza nella lista delle risorse utili da rimuovere.
La vittima di mobbing presenta dei disturbi psichici peculiari: stress, ansia, depressione, fobie, frustrazione, crisi di panico, diminuzione dell’autostima; disturbi che a volte possono essere correlati ad alterazioni del sonno, della sessualità, dell'alimentazione, all’abuso di sostanze alcoliche.
In questo quadro le diagnosi che vengono formulate più frequentemente parlano di "disturbi dell'adattamento" o di "disturbo post traumatico da stress".
Dal punto di vista giuridico il problema del risarcimento del danno psichico da mobbing si è presentato solo recentemente all'attenzione degli studiosi con le sentenze del tribunale di Torino, sezione lavoro, del 16 novembre 1999 e del 30 dicembre 1999 e delle quali si ritiene opportuno ripercorrere brevemente lo schema di accertamento del nesso causale tra la condotta ed il danno.
Le due decisioni sono comunque interessanti anche perché riguardano due differenti fattispecie.
Il primo caso (Erriquez c/EMP S.p.A.) aveva ad oggetto un'ipotesi particolare di mobbing: in questo caso il mobber non era il datore di lavoro bensì il capo turno diretto superiore della vittima.
La ricorrente dopo aver lavorato per circa sette mesi alle dipendenze di una società si rivolse al giudice del lavoro per vedere condannata l’azienda al risarcimento del danno biologico essendosi ammalata di una depressione secondo lei conseguente ai maltrattamenti subiti durante l’attività lavorativa.
In particolare ella sostenne di essere stata adibita al funzionamento di una macchina grafica collocata in uno spazio angusto, in condizione di isolamento dai compagni di lavoro e di essere stata sottoposta ad un trattamento ingiurioso da parte del capo reparto che reagiva alle sue segnalazioni di guasti alla macchina e alle sue lamentele sull’ambiente confinato con bestemmie, insulti e frasi sarcastiche.
La ricorrente fece presente di essere stata costretta prima ad assentarsi e successivamente a dimettersi perché era caduta in una grave forma depressiva con crisi di pianto e fobie in assenza di precedenti nella sua storia personale.
L’azienda si era difesa contestando le accuse e sostenendo che essa non poteva essere chiamata a rispondere di eventuali comportamenti scorretti del capo reparto.
Il giudice dopo aver raccolto delle prove testimoniali accolse la domanda determinando in via equitativa il risarcimento dovuto alla lavoratrice in misura di lire dieci milioni.

Nella seconda sentenza (Stomeo c/Ziliani S.p.A.) il mobber era, più tipicamente, il datore di lavoro che con lo scopo di indurre la dipendente a dimettersi aveva messo in atto una serie di comportamenti tipici del bossing: terrorismo psicologico con pressioni finalizzate a rassegnare le dimissioni, assunzione di una dipendente durante il periodo di malattia della vittima che, al ritorno sul posto di lavoro, si trovò di fatto sostituita e trasferita dagli uffici amministrativi al magazzino con conseguente impoverimento delle mansioni e delle esperienze professionali.
In questo caso la lavoratrice aveva sviluppato una sindrome di tipo ansioso depressiva con insonnia, inappetenza e crisi di pianto.
Nelle decisioni in esame il comportamento dei mobbers è stato ritenuto fonte di responsabilità in base al combinato disposto degli articoli 32 della Costituzione e 2087 c.c., norme che tutelano la personalità morale e la salute dei lavoratori; conseguentemente le aziende furono condannate al risarcimento del danno.
La prima cosa interessante da notare è che le due sentenze contengono, quale primo passaggio della parte motivazionale, a livello di “fatto notorio” ex art. 115 c.p.c., un’esposizione sintetica del fenomeno del mobbing corredato di dati e di informazioni tratti dalla letteratura medico scientifica.
Il tribunale ha giustificato questo incipit come una “doverosa precisazione”, infatti, il richiamo al fenomeno in questione non risulta affatto marginale ma, al contrario, esso è chiaramente indirizzato a fornire l’ossatura per il passaggio successivo della sentenza, quello concernente la questione cruciale dell'an debeatur.
L'estensore ha, infatti, mostrato, anche attraverso il richiamo al concetto di fatto notorio, di voler utilizzare il mobbing come cornice nella quale inserire tutta una serie di comportamenti posti in atto all'interno dell'azienda e di per se privi di particolari connotazioni illecite o comunque non decisive sotto il profilo dell'inadempimento.
Così facendo il tribunale ha potuto, da un lato, mettere chiaramente a nudo gli intenti persecutori degli autori delle molestie, dall'altro, attribuire a questi comportamenti un giusto rilievo ai fini dell'accertamento della responsabilità dei datori di lavoro.
Entrambe le sentenze si reggono quindi su uno schema ricostruttivo di questo tipo:
- dato di partenza: il mobbing come fatto notorio,
- accertamento della sussistenza dei comportamenti datoriali riconducibili entro tale fenomeno,
- accertamento del danno psichico e della sua riconducibilità al mobbing subito in azienda,
- liquidazione del danno.
Mi pare opportuno richiamare l'attenzione sull'approccio seguito dalle sentenze in esame riguardo l'accertamento del nesso di causa intercorrente fra le condotte persecutorie e le patologie psichiatriche lamentate dalle vittime.
In particolare, il giudice ha ravvisato il rapporto eziologico sostanzialmente su di un solo elemento, ovvero la concomitanza temporale fra l'ingresso della vittima nell'ambiente lavorativo e l'insorgenza della malattia.
In buona sostanze il giudice:
1. accertato a mezzo di prova testimoniale che la malattia lamentata dalla ricorrente era comparsa solo dopo l'ingresso in azienda ed in concomitanza con il realizzarsi di condizioni di mobbing,
2. accertato, consultando la documentazione medica prodotta, la sussistenza di un periodo di malattia psichica,
3. ha concluso per la ricorrenza di una malattia psichica degna di ristoro sotto il profilo del danno biologico temporaneo.
Un altra peculiarità di queste sentenze sta nel fatto che il giudice ha, di fatto, superato quello che sembrava essere un passaggio obbligato in casi del genere, ossia quello del ricorso alla CTU medico legale per l’accertamento del nesso causale.
Un atteggiamento a mio giudizio opinabile atteso che, anche in presenza di malattie psichiche a carattere temporaneo, rilevata la peculiarità delle fattispecie (intrisa di “fattori confondenti”) ritengo che la competenza del perito rappresenti un ausilio indispensabile nella ricostruzione dell’esistenza del nesso eziologico.

Fonte: INAIL