L’INFARTO CAUSATO DA STRESS PER ATTIVITA’ LAVORATIVA PARTICOLARMENTE
INTENSA PUO’ COSTITUIRE “CAUSA VIOLENTA” DI INFORTUNIO SUL LAVORO
– Con conseguente obbligo per l’INAIL di corrispondere il trattamento
assicurativo previsto dalla legge (Cassazione Sezione Lavoro n. 14085 del 26
ottobre 2000, Pres. De Musis, Rel. Cuoco).
G.L.,
dipendente della Camera del Lavoro di Genova con funzioni direttive, ha avuto
nel febbraio del 1992 un periodo di intensa attività lavorativa (da 12 a 14
ore al giorno) per la preparazione dell’inaugurazione della nuova sede.
Al
termine delle manifestazioni che hanno accompagnato la cerimonia inaugurale,
svoltasi il 15 febbraio, ha confidato a un collega di lavoro di essere
“distrutto” per l’attività compiuta; dopo essere rincasato è stato colpito da
un attacco cardiaco che ha reso necessario il suo ricovero nell’ospedale, dove
nel giro di poche ore è deceduto per infarto del miocardio.
La
sua vedova ha chiesto all’INAIL il trattamento previsto per il decesso causato
da infortunio sul lavoro. L’Istituto ha respinto la domanda in quanto ha
escluso l’applicabilità dell’art. 2 D.P.R. n. 1124/1965 secondo cui il
trattamento assicurativo è dovuto solo in caso di decesso “per causa violenta
in occasione di lavoro”. Secondo l’INAIL la cardiopatia che aveva determinato
il decesso non poteva ritenersi “causa violenta”.
Nel
giudizio che ne è seguito davanti al Pretore di Reggio Emilia, l’INAIL si è
difeso sostenendo, tra l’altro, che la morte non doveva attribuirsi ad
infortunio bensì ad altri fattori di rischio, tra cui la personalità
iperemotiva del lavoratore, una grave arteriosclerosi coronarica, un pregresso
infarto, un’ipertensione arteriosa, il forte tabagismo nonché l’attività
impegnativa e frenetica svolta istituzionalmente e non solo contingentemente;
altre circostanze da tenere presenti erano, secondo l’INAIL, il fatto che
l’evento era avvenuto presso l’abitazione di G.L. dopo alcune ore dalla
cessazione dell’attività lavorativa ed era stato determinato non da un evento
improvviso, bensì dalla lunga azione logorante, ad effetto graduale e diluito,
esercitata dalle gravose e disagevoli condizioni di lavoro.
Il
Pretore ha sentito alcuni testimoni ed ha disposto una consulenza tecnica
d’ufficio, dalla quale è emerso che concausa della morte era stata una
condizione straordinaria di intenso stress psico-fisico; pur nella presenza di
fattori di rischio (patologia coronaria, tabagismo, attività lavorativa
logorante), G.L. nei giorni immediatamente precedenti l’evento era stato
sottoposto a prestazioni lavorative di gran lunga superiori a quelle ordinarie
(era significativo, al termine del lavoro, il suo sentirsi “distrutto”).
Determinante causa dell’evento – ha accertato il Pretore - era stato lo stress
emotivo (costituito dall’ansia di dare adeguato svolgimento alle
manifestazioni, per le conseguenze che queste avrebbero avuto sull’immagine e,
forse, sulle prospettive della sua carriera).
In
considerazione dei risultati dell’istruttoria il Pretore ha accolto la domanda
e la sua decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di
Reggio Emilia.
La
Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 14085 del 26 ottobre 2000, Pres. De Musis,
Rel. Cuoco) ha rigettato il ricorso dell’INAIL, affermando che determinante ai
fini del riconoscimento del diritto al trattamento assicurativo previsto dalla
legge è la connessione causale e topografica fra l’attività lavorativa e la
lesione; la connessione non è esclusa dal contributo causale di fattori
preesistenti o contestuali, di ogni altra origine.
Nell’ambito
delle cause violente – ha precisato la Corte - è da inquadrare l’infarto, in
quanto, per il suo attuarsi in un brevissimo arco temporale, ha il carattere
della “violenza”; ed assume rilievo come causa di infortunio sul lavoro, ove
sia legato all’attività lavorativa con una connessione causale; e pertanto un
breve intervallo temporale fra lavoro e lesione (infarto) non esclude questa
contiguità, ove sia inequivocabilmente riconducibile all’attività svolta in un
tempo immediatamente precedente.
L’eventuale
(pur frequente) preesistenza di fattori patologici sui quali l’infarto si
innesti, la sua natura “interna”, ed il suo svilupparsi con occulto processo
protratto nel tempo, anche per ritenuti meccanismi di stress - ha aggiunto la
Corte - pur contribuendo casualmente al suo verificarsi, non escludono che il
fatto (infarto), ove sia casualmente o topograficamente connesso con
l’attività lavorativa, assuma il determinante rilievo della causa violenta in
occasione di lavoro. E, poiché l’atto lavorativo può esaurirsi anche in
un’azione che non esuli “dalle condizioni abituali e tipiche delle mansioni
alle quali il lavoratore è addetto”, ove la morte sia stata determinata
dall’infarto lo “sforzo” non è fattore necessario: l’attività lavorativa può
anche rientrare nella normale quotidiana misura del lavoro. La violenza
(minima misura temporale) non è dell’atto lavorativo, bensì della causa (la
lesione) che determina la “morte od inabilità permanente”.
Nel
caso in esame, - ha concluso la Corte - poiché è stato accertato che concausa
dell’infarto era stata una condizione straordinaria di intenso stress
psico-fisico, il fatto che l’attività lavorativa avesse contribuito alla
determinazione della lesione attraverso un’azione “lenta e progressiva”, e con
“meccanismi di stress ripetutisi nel tempo”, resta irrilevante; poiché
attraverso la consulenza tecnica d’ufficio era stato accertato che concausa
dell’infarto era stata la situazione di stress immediatamente precedente, la
breve separazione temporale e spaziale fra attività lavorativa e lesione, non
escludendo la connessione causale, resta irrilevante.