Le spondiloartropatie del rachide come malattia professionale non tabellata
(Pubblicazione della Direzione Generale Inail)
 

I.N.A.I.L.

Sovrintendenza Medica Generale

(Sovrintendente Medico Generale: dr. Giuseppe Cimaglia)

 

 

 

 

 

 

CARLO OTTAVIANI

 

 

LE SPONDILOARTROPATIE DEL RACHIDE DORSO-LOMBARE

 COME MALATTIA PROFESSIONALE NON TABELLATA

 

 

 

 

Edizione INAIL 2000

 

 

 

INDICE GENERALE

 

 

PRESENTAZIONE

 

PREMESSA

 

CENNI DI ANATOMIA FUNZIONALE DEL RACHIDE

 

LA SPONDILODISCOARTROSI

 

L'ASSICURAZIONE SOCIALE CONTRO LE MALATTIE PROFESSIONALI 

 

LA PATOLOGIA RACHIDEA POST-TRAUMATICA

 

I RISCHI LAVORATIVI

 

"LOW BACK PAIN" LAVORO-CORRELATA

 

I RISCHI EXTRAPROFESSIONALI

 

LA FASE CLINICO-DIAGNOSTICA

 

'INDENNIZZABILITA' DELLA SPONDILODISCOARTROSI COME MP NON TABELLATA

 

BIBLIOGRAFIA

 

Appendice:

LE RADICOLOPATIE LOMBARI

 

LA DIAGNOSI RADIOLOGICA DELLA SPONDILODISCO ARTROSI                                                                       


 

PREMESSA

 

  Le alterazioni a carico del tratto lombo-sacrale del rachide sono uno dei problemi di più grande rilevanza nei paesi occidentali, interessando una vastissima fascia della popolazione adulta (60-80% dei soggetti >50 anni e circa il 100% di quelli >60 anni), sia lavorativa che non.

 

Le affezioni cronico-degenerative della colonna vertebrale sono di assai frequente riscontro presso collettività lavorative dell’agricoltura, dell'industria e del terziario. Esse, sotto il profilo della molteplicità delle sofferenze e dei costi economici e sociali indotti (assenze per malattia, cure, cambiamenti di lavoro, invalidità) rappresentano uno dei principali problemi sanitari nel mondo del lavoro. Il dolore lombo-sacrale (“low back pain” degli anglosassoni) è una delle più frequenti cause di riduzione temporanea o permanente della capacità lavorativa.

 

        Il National Institute of Occupational Safety and Health (NIOSH – USA) pone tali patologie al secondo posto nella lista dei dieci problemi di salute più rilevanti nei luoghi di lavoro. Negli Stati Uniti il low-back pain determina una media di circa 30 giorni di assenza per malattia ogni 100 lavoratori; le patologie del rachide sono la principale causa di limitazione lavorativa nelle persone con meno di 45 anni e gli indennizzi per patologie professionali della colonna assorbono circa 1/3 dei costi totali di indennizzo. E' stato stimato che, per tali affezioni, i settori produttivi dell'industria statunitense spendono ogni anno una somma dell'ordine di alcune decina di migliaia di miliardi in lire italiane per trattamenti curativi e compensi assicurativi. Nei Paesi anglosassoni e scandinavi si osserva un trend assai simile.

 

In Italia, le sindromi artrosiche sono, secondo ripetute indagini ISTAT sullo stato di salute della popolazione, le affezioni croniche di gran lunga più diffuse. D'altro lato, le affezioni acute dell'apparato locomotore sono al secondo posto (dopo le affezioni delle vie respiratorie comprendenti anche le sindromi influenzali) nella prevalenza puntuale di patologie acute accusate dagli italiani. Ancora in Italia, le sindromi artrosiche sono al secondo posto tra le cause di invalidità civile. Secondo stime provenienti dagli Istituti di Medicina del Lavoro, le patologie croniche del rachide sono la prima ragione nelle richieste di parziale non idoneità al lavoro specifico. Tra gli infortuni sul lavoro, la lesione da sforzo, che nel 60-70% dei casi è rappresentata da una lombalgia acuta, non fa registrare alcun trend negativo.

 

Da più parti le spondilodiscoartropatie vengono usualmente annoverate tra le “work-related diseases” ovvero tra quelle patologie cronico-degenerative ad eziologia multifattoriale rispetto alle quali l’ambiente di lavoro può assumere talvolta il ruolo di concausa diretta ed efficiente. In particolare, tra tutte le diverse condizioni patologiche che possono essere definite “spondilodiscoartropatie”, verrà presa per il momento in considerazione la sola spondilodiscoartrosi lombare, che presenta le problematiche cliniche e medico-legali assicurative di maggiore rilievo.

 

Numerosi studi hanno evidenziato come le alterazioni cronico­-degenerative sono di assai frequente riscontro presso molteplici collettività lavorative dell'industria  e  dell'agricoltura, in relazione a condizioni lavorative caratterizzate da posture coatte, movimenti abnormi del tronco, movimentazione manuale di carichi e vibrazioni interessanti l’intero corpo, che rappresentano i fattori professionali causali o concausali nella etiopatogenesi di tali affezioni.

 

             Va d'altro canto sottolineato che molteplici possono essere i fattori extralavorativi (età, sesso, fattori costituzionali, psicosociali, iatrogeni, ecc.) e che molto spesso la genesi del low back pain non risulta essere legata apparentemente ad alcuna causa specifica cosi da venir definito "idiopatico".

 

             In letteratura è stato finora sufficientemente correlato il rapporto esistente tra attività di movimentazione manuale di carichi ed incremento del rischio di contrarre affezioni acute e croniche a carico dell'apparato locomotore ed in particolare del rachide lombare. Questa constatazione ha spinto alcuni paesi occidentali ad emanare specifiche normative e standards rivolti a limitare l'impiego della forza manuale nello svolgimento dell’attività lavorativa (CEE 269/90, NIOSH 1993 – v. infra), tentuo conto che è stato stimato come nei paesi europei circa il 20% della forza lavoro sia coinvolto in attività lavorative comportanti la movimentazione manuale di carichi. Più recentemente è emerso il problema delle alterazioni del rachide legate alle WBV (vibrazioni-scuotimenti interessanti l'intero corpo) ed alla postura assunta sul lavoro.

 

L’esperienza italiana dei servizi di medicina del lavoro sulla materia si è sviluppata soprattutto a partire dagli anni '80 ed è stata in grado di dimostrare l'esistenza di specifici rischi lavorativi in diversi contesti in cui vi è un largo ricorso alla forza manuale: addetti all'edilizia, operatori mortuari, addetti all'industria ceramica, cavatori, operatori ospedalieri, addetti ad operazioni di facchinaggio, sono tutte categorie in cui è stato possibile dimostrare un eccesso di patologie riconducibili alla concreta condizione lavorativa.

 

Pertanto, tenuto conto della notevole incidenza socio-economica di tali disturbi anche nel nostro Paese e del crescente interesse medico-sociale all’estensione della tutela privilegiata INAIL per le patologie “work-related” come MP non tabellate (cfr. sentenza della Corte Costituzionale n.179/88 - v. infra), l’Istituto ha deciso di definire anche per queste patologie degli indirizzi tecnico-operativi idonei al riconoscimento di un’eventuale origine professionale delle stesse.

 

Al riguardo va infatti sottolineata la valenza sociale della scelta operata dall’INAIL nel 1997 di partecipare più incisivamente alla ricostruzione degli elementi probatori del nesso etiologico, sia sul versante del rischio (indagine ispettiva, pareri della CONTARP, etc.) sia in termini più propriamente medico-legali, avviando, tra l’altro, iniziative di studio e di approfondimento scientifico finalizzate all’elaborazione di appositi protocolli diagnostici.

 

A questo proposito, la Sovrintendenza Medica Generale ha costituito nel secondo semestre del 1998 un gruppo di lavoro misto INAIL/SSN/UNIVERSITA’ presso l’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università degli Studi dell’Aquila (direttore prof. A. Paoletti) per l’approfondimento multidisciplinare delle problematiche connesse alle patologie del rachide. Il gruppo è stato coordinato dal sottoscritto e dal prof. A. Paoletti ed ha visto la partecipazione di medici specialisti in Medicina del Lavoro, Medicina Legale, Clinica Ortopedica, Radiologia, Neurologia e Fisiatria.

 

Gli obiettivi del gruppo di lavoro sono stati i seguenti:

ü     Individuazione del quadro morboso più strettamente correlabile con i fattori di rischio lavorativi noti;

ü     Definizione di parametri per livelli differenziati di rischio lavorativo;

ü     Diagnostica differenziale con altri quadri clinici di origine extralavorativa.

 


 

CENNI DI ANATOMIA FUNZIONALE DEL RACHIDE

 

La colonna vertebrale è costituita da un'alternanza di vertebre ossee e di dischi fibrocartilaginei. Le vertebre cervicali, dorsali e lombari restano libere ed indipendenti costituendo la parte mobile del rachide; le sacrali e le coccigee invece perdono la loro individualità, saldandosi più o meno fra loro in modo da costituire, rispettivamente, il sacro (che si articola con la cintura pelvica) ed il coccige.

 

Una vertebra consiste tipicamente di un corpo anteriore e di un arco posteriore. Il corpo ha forma approssimativamente cilindrica; l'arco vertebrale è composto da due peduncoli e due lamine, queste due ultime unite posteriormente a formare il processo spinoso. Su entrambi i lati inoltre, l'arco fa da supporto ai processi trasversi ed ai processi articolari superiori ed inferiori; questi ultimi formano le articolazioni  mobili con i corrispondenti processi delle vertebre adiacenti, mentre i processi trasversi e spinosi forniscono inserzione ai numerosi muscoli che su essi terminano. I peduncoli e le loro apofisi articolari formano le incisure vertebrali superiori ed inferiori, che nel loro insieme realizzano i forami intervertebrali per i quali passano i nervi spinali ed i vasi.

 

Le 24 vertebre presacrali sono distinte in tre gruppi sulla base di peculiari caratteristiche regionali, le vertebre delle zone di passaggio sono dette di transizione, presentando caratteristiche delle due zone contigue. In particolare, le vertebre lombari sono le più massicce, distinguibili da quelle cervicali o dorsali per la mancanza di forami trasversali e di faccette articolari costali.

 

Le articolazioni del rachide sono rappresentate da diartrosi (articolazioni mobili – ad es. articolazioni interapofisarie) e da anfiartrosi; tra queste ultime annoveriamo le articolazioni dei corpi vertebrali veri e propri, con l’interposizione di un disco fibrocartilagineo.

 

I mezzi di unione del rachide sono costituiti da:

-         i dischi intervertebrali, che si interpongono tra le due superfici articolari vicine;

-         i legamenti intersomatici, che si dispongono attorno all'articolazione formando due larghi nastri i quali occupano tutta l'altezza della colonna (legamento longitudinale anteriore e legamento longitudinale posteriore);

-         i ligamenti gialli (che si estendono ad unire tra loro le lamine);

-         i legamenti interspinosi;

-         i legamenti intertrasversari.

 

I dischi intervertebrali fungono da potenti mezzi di connessione e da ammortizzatori elastici. Sono formati, schematicamente, da alcuni strati esterni concentrici di tessuto fibroso e cellule cartilaginee (anello fibroso) e da una zona elastica centrale semifluida ad alto contenuto idrico (nucleo polposo). Mentre la funzione essenziale del nucleo è quella di ridistribuire le forze complessive all'interno del rachide, il compito più importante dell’anello fibroso è quello di opporsi alla tensione ed alla sollecitazione in torsione. I dischi fibrocartilaginei sono privi di terminazioni nervose e di vasi, eccetto che nella loro porzione più periferica.

 

Nella regione cervicale, come in quella lombare, i dischi intervertebrali hanno forma di cuneo in quanto più alti nella loro sezione anteriore, contrariamente a quanto accade nella regione dorsale, dove i dischi hanno spessore uniforme. La forma a cuneo accentuato del disco lombo-sacrale aiuta a minimizzare gli effetti della marcata angolazione lombo-sacrale. In un adulto sano i dischi intervertebrali costituiscono circa il 25% della lunghezza dell’intera colonna vertebrale.

 

 

La colonna vertebrale, nel suo complesso, assolve ad un ruolo statico di sostegno e ad una complessa funzione statico-cinetica. La colonna vertebrale può essere considerata come una serie coordinata di segmenti costituiti da unità funzionali sovrapposte a loro volta rappresentate da due vertebre adiacenti e dai tessuti interposti; essa si configura come una struttura elastica capace di garantire, in opposizione alla gravità sia la stazione eretta che l'equilibrio di forza e resistenza necessari per ogni attività cinetica. E' possibile distinguere le unità funzionali in due sezioni: quella anteriore, costituita dai corpi vertebrali e dal disco, e quella posteriore, rappresentata dalla coppia di articolazioni che pongono in reciproca connessione le due vertebre.

 

La sezione anteriore dell’unità funzionale svolge la funzione di sostegno e di assorbimento meccanico. Il liquido nucleare (gel colloidale), in quanto confinato in un contenitore chiuso (l'anello fibroso), obbedisce alle leggi fisiche dei liquidi sotto pressione. Esso è infatti incompressibile, per cui qualunque forza esterna applicata su una unità della sua superficie, si trasmette immodificata ad ogni unità della superficie interna del contenitore (legge di Pascal). La presenza del liquido nucleare impedisce che le sollecitazioni compressive provochino un avvicinamento dei corpi vertebrali maggiore di quello consentito dalla distensione delle fibre dell'anulus. Il movimento di una vertebra sull'altra è reso possibile dal fatto che il gel nucleare può spostarsi in avanti e all'indietro, con distensione delle fibre dell'anulus, rispettivamente, anteriori o posteriori e con detensione di quelle del versante opposto. La resistenza del rachide agli insulti meccanico-cinetici è legata anche alla presenza dei legamenti longitudinali che proteggono i dischi ventralmente e posteriormente; a livello lombare il legamento longitudinale posteriore si presenta meno sviluppato in larghezza, raggiungendo in corrispondenza dell'interspazio L5-S1 un'ampiezza pari alla metà di quella originaria. Il rischio di erniazione discale posteriore risulta pertanto più elevato nel tratto lombare che in quelli sovrastanti.

La sezione posteriore dell’unità funzionale svolge le funzioni di mantenimento della stazione eretta, di locomozione e di esecuzione di movimenti più complessi. E' costituita dagli archi, dai processi trasversi, dai processi spinosi, e dalle coppie di articolazioni posteriori che pongono le vertebre in reciproca connessione. Le faccette articolari fungono da guida per il movimento fra due vertebre adiacenti in relazione al loro orientamento spaziale (lungo un asse verticale ed antero-posteriore, come nel tratto lombare, od orizzontale, come nel tratto dorsale), consentendo o limitando la libertà di movimento dei vari segmenti della colonna.

 

I movimenti del rachide, scaturenti dai reciproci spostamenti delle diverse unità funzionali contigue, possono essere definiti "cumulativi" nel senso che, pur estrinsecandosi in maniera più o meno apprezzabile come singoli movimenti in tutta la colonna che è situata al di sopra del sacro, essi si manifestano tangibilmente solo quando un certo numero di vertebre prendono parte al movimento stesso. Nel suo insieme il rachide può compiere movimenti di flessione, estensione, rotazione ed inclinazione. Tutti i movimenti sono eseguibili con il rachide cervicale, mentre la flesso-estensione è prevalente nel tratto lombare, la rotazione e l'inclinazione nel tratto dorsale. In sintesi, quindi, i movimenti della colonna vertebrale derivano da una sommatoria di azioni dovute principalmente: ai muscoli spinali profondi (prevalentemente per il movimento di estensione del rachide) che prendono inserzione sui processi spinosi e trasversi, agli spostamenti del nucleo polposo all interno dell'anulus (motilità della sezione anteriore), ai legamenti longitudinali che impediscono flesso-estensioni eccessive e proteggono l'anello, alle articolazioni posteriori che guidano il movimento. Inoltre l’ampiezza del movimento dipende da molteplici fattori: distensibilità dei legamenti longitudinali, rapporto altezza/diametro dei dischi, elasticità delle capsule articolari, elasticità dei muscoli, mobilità delle coste, orientamento delle apofisi spinose.

 

Va in ultimo ricordato che sebbene la cinetica flessoria sia attribuibile per gran parte al tratto lombo-sacrale il meccanismo che completa l'escursione flessoria è il movimento di rotazione della pelvi intorno all'asse trasversale delle coxo-femorali. Se il tronco viene flesso in modo naturale, la rotazione pelvica e la flessione lombare avvengono simultaneamente: mentre la pelvi inizia a ruotare, il tratto lombare subisce un iniziale appiattimento e quindi una graduale inversione della sua lordosi.

 

I fattori che determinano la statica e la dinamica rachidea sono dunque i seguenti:

A.     la normale morfologia dei corpi vertebrali,

B.      l’integrità anatomo-fisiologica dei dischi intervertebrali e dei legamenti che ne condizionano l’elasticità

C.     l’orientamento della pelvi e delle estremità inferiori

D.    l’integrità anatomo-fisiologica della muscolatura, la quale, mediante fini meccanismi nervosi (riflessi propriocettivi, vestibolari, oculari, ecc.), permette le correzioni posturali necessarie al mantenimento dell’equilibrio.

 

 

Il metabolismo del disco intervertebrale

I dischi intervertebrali nell'adulto non possiedono un sistema vasale di nutrizione, ma ricevono le sostanze nutritive esclusivamente per diffusione attraverso le limitanti somatiche dei corpi vertebrali (meccanismo predominante) ed attraverso l'anello fibroso. Un’alterazione di queste strutture (ed in particolare delle limitanti) comporterebbe uno stato di carenza nutrizionale responsabile della patologia degenerativa del disco. Le strutture intradiscali che per prime risentono del deficit nutrizionale sono le cellule fibroblastiche (con emivita di poche settimane) produttrici delle sostanze fondamentali e delle fibre. La sintesi cellulare degli elementi extracellulari richiede l'apporto costante di glucosio, amminoacidi, sali minerali ecc. che vengono richiamati per diffusione dagli adiacenti vasi sanguigni paravertebrali, così come le sostanze cataboliche vengono eliminate dallo spazio intervertebrale. Si comprende come sia necessario un costante ricambio per garantire l'equilibrio tra biosintesi e catabolismo delle strutture cellulari.

 

I meccanismi che garantiscono il ricambio metabolico nel disco sono rappresentati, principalmente, dalle variazioni del carico di pressione vertebrale e dall'assorbimento di acqua nello spazio intradiscale. Infatti, l'insieme dello spazio intradiscale, dei piatti cartilaginei, dell'anello fibroso, dei tessuti paravertebrali e dalla spongiosa delle vertebre adiacenti può essere considerato come un sistema osmotico in equilibrio. L'interfaccia semipermeabile è costituita dall'anello fibroso e dai piatti cartilaginei che separano l'interstizio intradiscale da quello extradiscale, mentre le sostanze macromolecolari contenute nello spazio intradiscale sono responsabili della pressione colloidale osmotica od oncotica. Applicando una forza meccanica (pressione) sul sistema osmotico si determina la fuoriuscita di liquidi dal disco con diminuzione di volume dello stesso ed aumento della concentrazione della soluzione intradiscale. Nel momento in cui cessa la forza pressoria si ha un richiamo di liquidi all'interno del disco ad opera della pressione oncotica. Il regolare alternarsi di condizioni di carico (postura in piedi seduta senza appoggio, sollevamento di carico) e scarico (postura seduta con il rachide appoggiato e postura sdraiata) sulla colonna e quindi sui dischi consente dunque una corretta nutrizione dei dischi stessi.

 

Sedi tessutali di origine del dolore

Come già detto i dischi intervertebrali sono privi di terminazioni nervose e quindi privi di sensibilità dolorifica; anche i legamenti gialli ed interspinosi sono insensibili agli stimoli algogeni. Al contrario il legamento longitudinale posteriore e la sinovia delle articolazioni posteriori presentano una ricca innervazione. Si comprende così come le alterazioni della colonna vertebrale sia di tipo legamentoso che osteo-articolare, anche se non a carico di strutture anatomiche direttamente innervate, possono determinare la comparsa di una sintomatologia dolorosa in rapporto ad una azione esercitata nei confronti dei tessuti contigui sopraddetti.

 

Un'altra importante sede di origine del dolore è dovuta alla componente muscolare; uno stato di contrattura muscolare protratta può originarsi da spasmi riflessi locali mentre una contrazione muscolare troppo energica può dare dolore anche per irritazione locale del periostio. A livello lombo-sacrale una frequente causa di dolore (irradiato) è rappresentata infine dalla compressione delle radici del nervo sciatico.

 

LA SPONDILODISCOARTROSI

 

Per artrosi si intende un’artropatia cronica, a carattere evolutivo, consistente inizialmente in alterazioni regressive della cartilagine articolare e secondariamente in modificazioni delle altre strutture che compongono l’articolazione (tessuto osseo, sinovia, capsula). Clinicamente l’artrosi si manifesta con dolore, limitazione funzionale, atteggiamenti viziosi. L’artrosi si instaura in un’articolazione quando in essa si verifica, per fattori generali o locali, uno squilibrio tra resistenza della cartilagine e sollecitazioni funzionali.

 

Fattori generali

-       età (modificazioni del pH del liquido sinoviale);

-       erditarietà (predisposizione alle affezioni artro-reumatiche);

-       squilibri ormonali (con particolare riguardo agli estrogeni);

-       obesità (sovraccarico delle articolazioni ed accumulo di colesterolo);

-       alterazioni metaboliche (calcio, etc.);

-       ambiente (abitazione, clima, condizioni di lavoro)

 

 

 

Fattori locali

-       concentrazione o alterata distribuzione delle sollecitazioni meccaniche sulla superficie articolare (deviazione dei normali assi di carico, etc.);

-       alterazioni articolari prodotte da affezioni di natura infiammatoria, traumatica, necrosi epifisarie, etc.

 

Classificazione

Distinguiamo un’artrosi primaria (riferibile solo a fattori generali) ed un’artrosi secondaria (da cause locali). Dal punto di vista anatomo-patologico si rilevano i seguenti reperti (pur se variamente accentuati in rapporto al grado evolutivo della malattia):

-       alterazioni cartilaginee articolari (assottigliamento, fissurazioni, ulcerazioni con messa a nudo dell’osso subcondrale);

-       osteofiti marginali (neoformazioni ossee di varia forma – a becco, a rostro – per ossificazione della cartilagine o delle inserzioni capsulari) in corrispondenza del margine periferico della superficie articolare. In caso di grossolana osteofitosi che determina la completa deformazione dei capi articolari si parla di artrosi deformante;

-       osteosclerosi subcondrale (addensamento del tessuto osseo in corrispondenza delle zone di maggiore usura della cartilagine, laddove il carico è più accentuato);

-       cavità psudocistiche o “geodi” (sono alternate o nel contesto delle zone di osteosclerosi);

-       alterazioni della mebrana sinoviale;

-       alterazioni della capsula.

 

La sintomatologia clinica è esclusivamente locale. Si instaura tuttavia in maniera subdola e tardiva rispetto all’inizio della malattia, evolvendo in maniera cronica attraverso fasi di attenuazione e remissione. Fondamentalmente abbiamo dolore locale, progressivamente ingravescente, e limitazione articolare (da ostacolo meccanico e/o da contrattura), segno costante e relativamente precoce.

Quadro radiografico.

I più comuni reperti sono costituiti da:

-       restringimento della rima articolare fino alla sua completa scomparsa (usura cartilaginea);

-       osteofitosi (precoce) a livello dei bordi delle superfici articolari;

-       alterazione della struttura ossea subcondrale, con zone di osteosclerosi e cavità geodiche.

 

L’osteoartrosi incide per i 2/3 sul totale delle malattie reumatiche ed è una delle patologie più frequenti in assoluto, insieme alle patologie cardiovascolari e respiratorie. L’osteoartrosi non deve però essere considerata come un’ineluttabile conseguenza dell’invecchiamento ma una vera malattia, caratterizzata da fenomeni degenerativi della cartilagine articolare precoci ed intensi, a cui si associano processi flogistici della sinovia e delle altre strutture anatomiche periarticolari.

 

Bisogna pertanto fare una chiara distinzione tra l’osteoartosi (che si manifesta tipicamente a 45-50 anni) e l’artrosi senile, tipica dei soggetti anziani ultrasessantacinquenni e legata esclusivamente alla senescenza della cartilagine articolare.

 

La diagnosi di osteoartosi è dunque una diagnosi clinica, che scaturisce da un insieme di dati anamnestici, obiettivi, di laboratorio e strumentali. Non appare pertanto corretto porre diagnosi di osteoartrosi solo in presenza di reperti radiologici (ad es. osteofiti) ininfluenti dal punto di vista fisiopatologico, che in effetti sopra una certa età (65-70 anni) possono essere riscontrati in alcuni distretti anatomici (ad es. vertebre) nel 100% dei soggetti (Schmorl, 1932)

 

L’osteoartosi ha poi una notevole incidenza sociale, perché colpisce tipicamente soggetti lavorativamente attivi e quindi determina, oltre che elevati costi per complessi e reiterati interventi di assistenza medica e fisiatrica,  perdita di numerose giornate lavorative e corresponsione di pensioni d’invalidità, in Italia limitate (finora) agli ambiti giuridici della causalità di servizio e dell’invalidità pensionabile INPS ma in altri Paesi (USA, UK e paesi scandinavi) fortemente incidenti anche sul versante dell’indennizzo dell’inabilità lavorativa per infortuni sul lavoro e malattie professionali.

 

Le principali localizzazioni dell’artrosi sono all’anca, alla colonna vertebrale e al ginocchio. Alla colonna vertebrale si localizza frequentemente al tratto cervicale e lombare. L’artrosi vertebrale suole essere distinta in artrosi anteriore o intersomatica (spondilodiscoartrosi propriamente detta) e di artrosi posteriore o apofisaria.

 

Nel primo caso (spondilodiscoartrosi) si hanno alterazioni dei corpi vertebrali in relazione alla progressiva disidratazione, degenerazione e schiacciamento di uno o più dischi intervertebrali adiacenti. Come già detto, i dischi intervertebrali sono composti da un anello fibroso e da un nucleo polposo: il primo rappresenta la porzione periferica, di natura consistente ed elastica, costituito da lamelle disposte concentricamente, formate da fibre collagene ed elastiche, mentre il secondo è costituito da una massa gelatinosa sferoidale posta al centro del disco intervertebrale con funzione di assorbire e ridistribuire uniformemente sulle superfici cartilaginee dei corpi vertebrali contigui, le sollecitazioni statico-dinamiche ricevute. Dopo l’età di 40-50 anni tutti i dischi (ma soprattutto quelli del tratto inferiore del rachide cervicale e lombare) vanno incontro a fenomeni regressivi: riduzione del tenore idrico del nucleo e perdita delle proprietà elastiche dell’anulus. A causa della degenerazione discale le sollecitazioni di pressione si concentrano sui bordi dei corpi vertebrali, con sclerosi reattiva delle limitanti somatiche superiore ed inferiore e proliferazione osteofitaria marginale che, insieme alla riduzione dello spazio intersomatico, costituiscono la triade radiografica della spondilodiscoartrosi.

L’artrosi apofisaria o artrosi vertebrale posteriore consiste invece nella comparsa delle tipiche alterazioni artrosiche a carico delle apofisi articolari posteriori.

 

Tutte e due le forme presentano la stessa sintomatologia: dolore locale e rigidità articolare. Possibili complicazioni sono:

-       le sindromi midollari (a livello cervicale);

-       le sindromi vascolari (a livello cervicale – sindrome di Neri-Barrè-Lieu);

-       le sindromi radicolari (cervicobrachialgie e lombosciatalgie): gli osetofiti, sviluppandosi in sede postero-laterale in corrispondenza del forame di coniugazione, comprimono la rispettiva radice nervosa.

 

 

Classificazione.

Tenendo presenti le molteplici sovrapposizioni causali di origine vertebrale e non che concorrono alla genesi di una sindrome dolorosa a localizzazione lombare è possibile individuare le seguenti forme:

1)   Patologia discale

-      Protusione dell’anello fibroso,

-      Ernia del nucleo polposo

2)   Patologia dell’istmo vertebrale

-      Spondilolisi-spondilolistesi

3)   Patologia discosomatica

- Spondilodisplasia metafisaria giovanile (Malattia di Scheuermann)

-      Spondilodiscoartrosi

4)   Patologia da stimolazione di strutture algogene rachidee e non.

-      Artropatia interapofisaria

-      Vizi di transizione lombo-sacrali

-      Sindrome delle spinose

-      Sindrome del passaggio dorso-lombare

-      Sindromi miofasciali

-      Entesiti legamentose,

-      Tendinopatie dei muscoli stabilizzatori del rachide

 

SPONDILOLISI E SPONDILOLISTESI

 

Per spondilolisi si intende l’interruzione mono o bilaterale dell'istmo, cioè della porzione vertebrale compresa tra le apofisi articolari superiori ed inferiori dell’arco neurale. In caso di interruzione bilaterale, si avrà in una elevata percentuale di casi una spondilolistesi, ovvero lo scivolamento anteriore del corpo vertebrale, dei peduncoli, delle apofisi trasverse e dei processi articolari superiori sulla vertebra sottostante.

 

Sulla base della letteratura più recente, la spondilolisi viene oggi ritenuta una lesione acquisita, che si verifica nell’epoca dell’accrescimento corporeo e dunque interpretata come una frattura da stress dovuta a notevoli sollecitazioni statico-dinamiche settoriali, specie in iperestensione. La spondilolisi può essere del tutto asintomatica o manifestarsi, in altri casi, con una dolenzia localizzata in corrispondenza del segmento vertebrale interessato, che si accentua con la stazione eretta, con la deambulazione e con i tentativi di eseguire un’attività lavorativa e/o sportiva. Nei casi in cui si associa una listesi, è possibile talvolta apprezzare con la palpazione la sporgenza dell’apofisi spinosa della vertebra listesica.

 

La conferma del sospetto clinico si basa sullo studio radiologico nelle ordinarie proiezioni ortogonali, integrate dalle due proiezioni oblique; la protezione laterale è spesso assai utile per documentare lo spostamento anteriore del corpo vertebrale che non appare più allineato con i margini posteriori dei corpi vertebrali contigui. Le proiezioni oblique sono le più idonee invece per dimostrare la discontinuità dell’istmo che appare come un difetto lineare radiotrasparente a margini più o meno regolari, spesso definito come "cagnolino con la testa mozzata". La scintigrafia ossea può, nei casi di negatività radiologica, fornire l’unica documentazione della lesione.

 

L'ERNIA DEL DISCO

 

Consiste nella migrazione posteriore o più spesso postero-laterale del nucleo polposo, attraverso fissurazioni dell’anello fibroso; il materiale erniario può rimanere contenuto dal legamento longitudinale posteriore ovvero interromperne la continuità, penetrando nel canale vertebrale. In questi casi, accanto alla sintomatologia dolorosa ad esordio brusco di origine discale, si associano sintomi periferici sul territorio di distribuzione della radice, con caratteristiche di verse a seconda dell’entità e della sede della compressione.

 

Se l’ernia comprime la quarta radice lombare (per ernie tra L3-L4), il dolore si irradierà lungo la faccia anteriore della gamba e sul ginocchio. Per un’ernia che comprime la quinta radice lombare (per ernia tra L4-L5), il dolore si distribuirà sulla faccia postero-laterale della coscia, su quella laterale della gamba e sul dorso del piede sino al 1° dito.

 

Se risulta coinvolta la prima radice sacrale (per ernia tra L5-S1), il dolore si irradierà sulla superficie posteriore della coscia, della gamba e sulla pianta del piede, coinvolgendo il 4° e 5° dito.

 

Alla caratteristica sintomatologia periferica da irritazione radicolare si associa la positività dei segni di Delitala (accentuazione del dolore irradiato alla palpazione profonda del metamero interessato), di Valleix, che suscita dolore alla pressione esercitata su alcuni punti elettivi (ischiatico, gluteo, peroneo dietro la testa del perone e malleolare) e di Lasegue (elevazione dell’arto inferiore esteso). A questi segni si accompagnano, nelle forme conclamate, riduzioni di forza e della sensibilità con iporiflessia nell’area di distribuzione della radice interessata.

 

La diagnosi di ernia discale può essere facilmente confermata mediante la risonanza magnetica nucleare che fornisce una rappresentazione panoramica del canale vertebrale e del suo contenuto; nelle scansioni assiali ed in condizioni di normalità, il bordo posteriore del disco appare lievemente concavo e non supera i margini dei corpi vertebrali adiacenti. Nella protrusione o nell’ernia discale, il bordo posteriore del disco appare deformato con una convessità più o meno acuta che impronta lo spazio epidurale esercitando un effetto compressivo sulla radice nervosa.

 

LOMBALGIE E LOMBOSCIATALGIE

 

La causa più frequente è rappresentata da alterazioni discali lombari. La lombalgia è una sintomatologia dolorosa limitata alla regione lombare, espressione clinica di un’alterazione delle strutture osteofibrose del rachide distrettuale senza risentimento delle radici spinali corrispondenti. La lombosciatalgia si ha allorché la sintomatologia dolorosa si irradia all’arto inferiore in corrispondenza del territorio del nervo sciatico per sofferenza radicolare.

 

Il dolore lombare è l’espressione clinica dell’irritazione o della compressione del nervo seno-vertebrale di Luschka, che si distribuisce alla porzione periferica dell’anulus, al legamento longitudinale posteriore, al periostio, all’arco posteriore vertebrale, alla capsula delle articolazioni interapofisarie. La lombalgia è caratterizzata da:

-       dolore spontaneo localizzato al rachide lombare, accentuato dalla pressione locale e dai tentativi di mobilizzazione del tronco;

-       contrattura della muscolatura paravertebrale, con secondario atteggiamento obbligato del rachide lombare in flessione anteriore o laterale;

-       rigidità del tronco.

 

La lombalgia acuta si ha a seguito della distensione repentina dell’anulus e/o per distorsione delle articolazioni interapofisarie. La lombalgia cronica è invece in rapporto a:

-       protrusione dell’anulus;

-       artrosi intersomatica e interapofisaria;

-       anomalie congenite del tratto lombo-sacrale;

-       squilibri statico-dinamici (obesità, gravidanza, scoliosi, ipocinesie, etc.)

-       processi infettivi

-       osteopatie metaboliche

-       neoplasie vertebrali.

 

Lombosciatalgia

E’ una sindrome dolorosa che dalla regione lombare si irradia con distribuzione radicolare all’arto inferiore, nel territorio del nervo sciatico. la causa più comune è l’ernia discale, che, come già detto, si verifica quando, sotto l’impulso si una sollecitazione abnorme, il nucleo polposo supera le fibre dell’anulus facendosi strada attraverso preesistenti deiscenze di natura degenerativa (discopatia) che rappresentano l’indispensabile presupposto anatomo-patologico dell’ernia stessa. Gli stretti rapporti esistenti tra gli ultimi due dischi e le radici spinali L5-S1 rendono ragione della frequente sofferenza radicolare (sciatalgia) che si instaura a questo livello. L’alterazione colpisce infatti di regola l’ultimo disco lombare o, meno frequentemente, il penultimo. Abitualmente si tratta di ernia postero-laterale, dove in effetti il legamento longitudinale posteriore si assottiglia.


 

L’ASSICURAZIONE SOCIALE CONTRO LE MALATTIE PROFESSIONALI

 

A seguito della nota sentenza della Corte Costituzionale n.179/88, nel nostro ordinamento giuridico è stato introdotto il cosiddetto “sistema misto”, che ha sostituito il precedente “sistema della lista chiusa”. In sostanza si è passati da un sistema caratterizzato dall’esclusivo indennizzo di determinate malattie (elencate in apposite tabelle periodicamente aggiornate, cosiddette “MP tabellate”) ad un sistema aperto, in cui qualsiasi manifestazione morbosa è suscettibile di indennizzo purché ne sia provata in concreto l’origine professionale (cosiddette “MP non tabellate” o malattie da lavoro).

La diagnosi di malattia professionale (sia tabellata che non) riconosce in ogni caso due fasi:

-         la fase clinica, consistente nell'accertamento di una manifestazione morbosa nosologicamente qualificata;

-         la fase medico-legale, consistente nella ricostruzione del nesso causale tra quest'ultima e una noxa lavorativa.

 

Nel caso delle malattie professionali tabellate, la manifestazione morbosa insorta si giova del criterio della “presunzione legale di origine” qualora sia compatibile con l'azione di una determinata noxa patogena e sia stata contratta nell’esercizio ed a causa di una lavorazione la cui nocività è presunta dalla tabella di legge, salvo prova contraria da parte dell’istituto in merito all'efficienza causale di altri fattori patogeni.

 

In buona sostanza sul lavoratore grava l'onere di provare, secondo il principio generale sancito dall'art. 2697 c.c., di essere affetto da un’infermità compresa nell'elenco delle malattie professionali e di essere stato precedentemente esposto al rischio morbigeno tabellato, restando presunto, in caso positivo, il nesso causale fra la lavorazione e l’infermità. Ovviamente il criterio della presunzione legale d’origine professionale trova concreta applicazione nei casi in cui la patologia denunciata presenti i caratteri peculiari della malattia indotta dalla specifica noxa patogena (caratterizzazione in senso tecnopatico).

 

Con l’introduzione del sistema misto, la Corte ha ritenuto comunque che la presunzione nascente dalle tabelle di legge fosse divenuta insufficiente a compensare il divieto all'allargamento dell'area della eziologia professionale. E ciò non solo per quel che concerne l'individuazione di nuove malattie, ma anche per quel che concerne gli ostacoli che all'accertamento dell'eziologia professionale delle malattie può opporre la distanza temporale tra la causa patologica e la manifestazione morbosa. L'estensione della tutela, avvenuta al di fuori di una compiuta e organica disciplina normativa, in un sistema dove la previsione tabellare, con le sue tipiche caratteristiche aveva consentito di superare le difficoltà connesse alla elaborazione di una adeguata definizione giuridica di malattia professionale, ha sollevato, come è noto, un complesso di problematiche sia interpretative, di carattere giuridico e medico-legale, sia operative legate al momento gestionale del nuovo sistema.

 

Per le forme morbose che non trovano riscontro nell'elencazione tabellare, il lavoratore deve dunque dimostrare, secondo le norme del diritto comune, i fatti che costituiscono fondamento del diritto che intende esercitare e, cioè, l'esistenza di una malattia contratta nell'esercizio ed a causa dell'attività lavorativa prestata, che deve, ovviamente, rientrare tra quelle previste dagli articoli 1, 206, 207 e 208 del Testo Unico. A tale fine deve esibire:

a)    idonea documentazione sanitaria attestante l’esistenza e la natura professionale della malattia;

b)   elementi probatori, con riscontro obiettivo della esposizione al rischio (natura, durata, intensità, ecc.) che ha determinato la malattia stessa.

Innanzitutto va ribadito che l’entrata in vigore del sistema misto non ha alterato o snaturato la nozione assicurativa di MP che (sia essa tabellata che non) resta caratterizzata dall'esposizione al rischio specifico determinato dalle lavorazioni di cui agli articoli 1, 206, 207 e 208 del Testo Unico approvato con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, e successive modificazioni e integrazioni, nonché nel rapporto causale con tali lavorazioni.

 

Circa la prova degli elementi di fatto del rapporto causale, questi vengono valutati differentemente nel caso di malattia tabellata e di quella extratabellata (presunzione legale in un caso, onere a carico del lavoratore nell'altro), non perché sia diversa la nozione di malattia professionale, ma per le caratteristiche che, a monte, contraddistinguono il sistema tabellare rispetto a quello misto. Requisito essenziale resta in ogni caso l'esistenza del nesso eziologico fra la malattia e la lavorazione espletata, configurabile in un rapporto causale, diretto ed efficiente con lo specifico rischio lavorativo. Ciò non significa che nell’insorgenza della patologia denunciata, non possano avere concorso anche concause extralavorative, purché queste non risultino le sole responsabili dell'evento ovvero non siano preponderanti rispetto alle cause lavorative.

 

In pratica il problema si pone per le malattie ad origine plurifattoriale, per le quali non è sufficiente che lo specifico rischio lavorativo abbia in qualche misura influito sul decorso della affezione morbosa, bensì rimane di decisiva importanza, per un concreto giudizio medico-legale, che le alterazioni siano peculiarmente rapportabili, con legame di causalità tutt'altro che ipotetico, alle attività lavorative cui si vogliono attribuire. Deve, cioè, essere riconosciuto nel lavoro l'agente causale o concausale eziopatogeneticamente valido ed indispensabile a produrre lo specifico danno in osservanza del principio del rischio professionale, che, come la stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato, costituisce in sostanza il presupposto essenziale di detta tutela. L'esposizione allo specifico rischio lavorativo è quindi il "punto qualificante” che caratterizza il sistema assicurativo nel suo complesso, differenziandolo dalle altre forme di tutela previdenziale. Di qui la centralità che l'accertamento del rischio assume ai fini del riconoscimento della tecnopatia.

 

A tale riguardo risulta pertanto indispensabile accertare con adeguati metodi d’indagine (tecnici ed ispettivi) la natura ed entità del rischio lavorativo, indagine d'importanza preminente ai fini della prevenzione ed ai fini della affermazione del nesso causale, non essendo certamente sufficiente dal punto di vista scientifico, clinico e medico-legale, una ricostruzione del rischio professionale fondata esclusivamente sulla base delle dichiarazioni anamnestiche rese dal lavoratore.

 

L’attuale quadro legislativo in tema di MP può comunque così riassumersi:

1.   per le malattie tabellate, provocate da lavorazioni tabellate e denunciate entro i termini massimi di indennizzabilità: resta in vigore l'attuale normativa, con particolare riferimento al principio della presunzione legale d'origine;

2)     per le malattie tabellate, provocate da lavorazioni tabellate, denunciate dopo i termini massimi d’indennizzabilità

a)    se il lavoratore dimostra che la malattia si è manifestata entro i suddetti termini, fruisce della presunzione legale insita nel sistema tabellare;

b)   in mancanza di tale dimostrazione cade sul lavoratore l'onere di provare la natura professionale della malattia;

3)     al di fuori delle previsioni tabellari, fermi restando i principi che presiedono all'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, è tutelata qualsiasi malattia di cui sia dimostrata, con onere della prova a carico del lavoratore, l'origine professionale.

 

In tema di malattie non tabellate, l'onere della prova degli elementi di fatto del rapporto causale lavorazione-malattia posto a carico del lavoratore rappresenta il punto di snodo della tutela aperta da cui dipende la potenzialità della tutela stessa". La prova, come noto, deve riguardare:

·          l’esistenza della malattia;

·          l’adibizione ad una delle lavorazioni di cui agli articoli 1, 206, 207 e 208 del T.U. con riferimento all’agente patogeno;

·          l’esposizione al rischio mediante precisazione delle relative modalità (durata e intensità) e quindi delle mansioni svolte e delle condizioni di lavoro.

 

In quest’ottica si ritiene centrale una adeguata e specifica conoscenza del rischio lavorativo come presupposto per una effettiva garanzia assicurativa in materia di malattie professionali, per la quale appare necessaria una più stretta collaborazione interdisciplinare.

 

Sull'esposizione a rischio si deve concentrare l'attenzione per il rilievo che tale elemento assume quale supporto della diagnosi medico-legale di malattia professionale. L'esposizione a rischio professionale deve essere considerata infatti, come già detto, il punto qualificante dello specifico sistema d'assicurazione obbligatoria, atto a differenziarlo da altre forme di tutela previdenziale degli stati inabilitanti che attengono al rischio generico (malattia comune e invalidità pensionabile) ovvero dalle altre forme di tutela cosiddetta privilegiata (causa di servizio) che prescindono dalla natura specifica del rischio.

 

La conferma della centralità di tale elemento per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali emerge del resto con sempre maggiore precisione dalla stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha costantemente riconosciuto una specifica rilevanza giuridica all'origine professionale dei rischi oggetto di tale assicurazione obbligatoria. Il che conferma la necessità di accertare in ogni singolo caso l'eziologia professionale delle malattie denunciate non comprese in tabella seguendo i criteri medico-legali della causalità.

       

Per quanto attiene il rapporto causale, con riferimento alle considerazioni della Corte Costituzionale "sull'eziologia professionale" delle malattie non tabellate e "sulla causa specifica" da lavoro che caratterizza la malattia professionale rispetto alla malattia comune e dalle indicazioni che emergono dalle sentenze emesse dalla Corte di Cassazione in materia, detto rapporto deve essere diretto ed efficiente (fatta salva comunque la possibilità del concorso di fattori causali extralavorativi), onde evitare che nella tutela assicurativa, incentrata sull'esposizione a rischio professionale, possano confluire stati inabilitanti tutelabili ad altro titolo (malattia comune, invalidità pensionabile, invalidità da causa di servizio).

 

Posto che non può attribuirsi rilievo determi­nante al fattore cronologico e a quello topografico, i criteri di cui al precedente punto sono i seguenti:

a) l'efficienza qualitativa e quantitativa intesa come idoneità dell'agente nocivo a produrre l'evento e sua concentrazione necessaria per indurre la nocività; (tale criterio va verificato mediante l'identificazione e la determinazione dell'agente nocivo e mediante riferimenti fisiotossici e epidemiologici);

b)     la continuità nella seriazione degli eventi;

c) l'evidenza di agenti patogeni non connessi al rischio professionale.

 

Da tempo inoltre l'Istituto persegue l'obiettivo di costruire le condizioni per una gestione del sistema di tutela delle malattie professionali efficace e dinamica, capace cioè di rispondere adeguatamente alle continue sollecitazioni provenienti dall'evoluzione tecnologica del mondo del lavoro.

IL DPR. 336/94 (NUOVE TABELLE DELLE MP)

 

        Con il DPR 336/94 sono state aggiornate le vecchie tabelle delle MP sulla base dei progressi delle conoscenze mediche ed epidemiologiche in tema di nocività del lavoro, e costituiscono altresì un adeguamento alle trasformazioni tecnologiche intervenute nella realtà produttiva. La tutela del rischio tecnopatico risulta migliorata ed ampliata con l'inserimento di malattie e lavorazioni prima non contemplate ed è stata dedicata una speciale cura all’individuazione di forme nosologiche specifiche (per i tumori definendo anche l'organo bersaglio) e alla descrizione analitica delle corrispondenti fonti di rischio.

 

        Le previsioni tabellari, in pratica, hanno recepito gran parte delle indicazioni emerse dopo la sentenza n. 179/1988 della Corte Costituzionale e hanno riportato perciò equilibrio nel sistema, restituendo all'area di tutela non tabellata, affidata all'onere della prova a carico del lavoratore, il corretto ruolo di sussidiarietà nei confronti dell'area tabellata, certa e salvaguardata da precise garanzie per l'assicurato.

 

        La nuova disciplina ha realizzato inoltre un sostanziale allineamento con la legislazione comunitaria, colmando gran parte delle divergenze fino ad allora esistenti rispetto all'elenco europeo delle malattie professionali oggetto della Raccomandazione CEE del 22.5.1990, tranne che per le malattie infettive e parassitarie, le quali come noto sono nel nostro sistema tutelate come infortuni sul lavoro, e per le malattie “da postura e da movimenti ripetuti”, rispetto alle quali questo lavoro intende fornire un utile contributo.

 

In particolare si segnala che la nuova voce 52 (Malattie osteoarticolari e angioneurotiche da strumenti vibranti) ha previsto la tutela delle sole malattie determinate dalla trasmissione delle vibrazioni meccaniche al sistema mano-braccio, precisazione questa che, peraltro, non costituisce un elemento innovativo rispetto alla corrente prassi medico-lavoristica e medico-legale. E' stato poi introdotto, peraltro, l’innovativo concetto che le lavorazioni con uso di strumenti vibranti, per essere considerate presuntiva­mente rischiose, devono essere svolte "in modo prevalente". Anche se la formulazione letterale della norma dà adito a qualche dubbio interpre­tativo, è tuttavia chiaro l'intento del legislatore di escludere dall'area del rischio tabel­lato queste lavorazioni quando sono svolte per periodi di tempo tali da renderne irrile­vante la nocività.

 

Quanto all'elenco degli strumenti vibranti, si richiama l'attenzione sul fatto che, al punto a), sono previste indistintamente tutte le macchine portatili munite di utensili, essendo stata abolita la limitante specificazione "ad aria compressa" presente nella precedente tabella. Inoltre per "portatile" deve intendersi lo strumento che per funzionare deve essere tenuto in mano o perlomeno fisicamente mantenuto in equilibrio, differenziandosi sia dagli apparecchi fissi che da quelli trasportabili.

 

Rimangono pertanto non tabellate:

-         le malattie osteoarticolari e le angioneurosi provocate da strumenti non tabellati o da uso “non prevalente” di strumenti tabellati ;

-         le patologie dei tendini, delle guaine aponeurotiche, dei nervi (ad es. sindrome del tunnel carpale, epicondilite, etc.), anche se la causa è costituita dall'uso di strumenti tabellati, a meno che non compaiano in concomitanza con le manifestazioni angioneurotiche ed osteoarticolari proprie della sindrome da strumenti vibranti;

-         le malattie da vibrazioni-scuotimenti (WBV);

-         le malattie da posture incongrue, microtraumi ripetuti, ipersollecitazioni funzionali, sovraccarichi articolari.

 

 

LA CIRCOLARE N.80/97

 

Per quanto riguarda le malattie da posture incongrue e da microtraumi ripetuti, queste continuano ad essere sottoposte, se ritenute suscettibili di ammissione a tutela, all’esame della Direzione Generale. Con la stessa circolare è stato predisposto un protocollo diagnostico sperimentale per l’eventuale ammissione all’indennizzo della sindrome del tunnel carpale, basato su un’accurata diagnosi differenziale, sull’esclusione di cause note extraprofessionali e sull’analisi del rischio lavorativo.

 

Sulla falsariga di tale protocollo, che finora ha registrato soddisfacenti risultati (aumento del numero dei casi indennizzati), si vuole in questa sede delineare alcuni orientamenti per la stesura di un analogo protocollo per il riconoscimento delle spondiloartropatie come MP non tabellate.

 

I DATI INAIL

 

I dati più significativi risalgono al 1993, in quanto solo con la circolare INAIL n.35/92 sono state impartite istruzioni sulla trattazione di tali patologie. Nel periodo 1993-1998 emerge chiaramente un netto e costante aumento delle denunce a partire dal 1994, interessante sia le MP non tabellate nel loro complesso che quelle in esame (spondilodiscoartrosi), che corrispondono a circa il 10% di tutte le denunce. Di questi ne sono stati indennizzati circa il 2%, che rappresentano poco meno della metà (46%) di tutti i casi di patologie dell’apparato muscolo-scheletrico per le quali è stata costituita una rendita nel periodo in esame.

 

 

 

 

 

LA PATOLOGIA RACHIDEA POST-TRAUMATICA

 

Nell’ambito della patologia rachidea l’INAIL tutela da sempre come infortuni sul lavoro tutte quelle lesioni dell’apparato muscolo-scheletrico che sono causalmente ricollegabili ad un trauma diretto (ad es. frattura di una o più vertebre a seguito di caduta dall’alto) o indiretto (lombalgia o ernia discale da sforzo), purché le cause e circostanze dell’evento denunciato configurino in concreto l’intervenire di una causa violenta in occasione di lavoro (art.2 T.U.). Al riguardo deve anzi essere sottolineato come, una volta affermata la sussistenza dei requisiti di cui sopra, la preesistenza di condizioni morbose di origine extralavorativa che abbiano concausato o comunque favorito l’insorgenza della manifestazione clinica in questione (peraltro di comune riscontro nei traumi indiretti) non pregiudichi affatto l’ammissione all’indennizzo, potendo tuttal’più incidere sulla valutazione medico-legale della quota di danno di competenza dell’Istituto (v. infra).

 

Lo sforzo implica l'impie­go improvviso, imprevisto ed abnorme di energia muscolare, superiore a quella richiesta da un normale atto di forza, identifica­bile quest'ultimo in un comune impiego di energia muscolare richiesta dal­la natura stessa di un determinato lavoro. Non vi è dubbio che allo «sforzo» inteso come tale debba riconoscersi dignità causale in ambito infortunistico lavorativo, possedendo questo, nel suo estrinsecarsi, tutti i requisiti della causa violenta. Per valutare se l'atto muscolare abbia le caratteristiche dello «sforzo» è dunque indispensabile accertare accuratamente:

§        le modalità dell'atto compiuto con le sue esatte cause e circostanze (natura ed entità dell'atto lavorativo, coordinazione e sinergismo dei movimenti, tipologia del dispendio energetico muscolare, caratteristiche del piano di calpestio, ecc.);

§        le caratteristiche della sintomatologia doloro­sa (epoca d’insorgenza, sede e decorso);

§        la diagnosi clinica attuale e lo stato anteriore dell'assicurato, specie per quanto riguarda le preesistenze extralavorative.

 

Per quanto attiene all'atto di forza, il riconoscimento dell’eventuale sussistenza della «causa vio­lenta» presuppone necessariamente che l'atto stesso, oltre agli altri attributi specifici, abbia avuto una entità traumatica superiore a quella del cosiddetto «momento sciogliente o liberatore», tipicamente posseduta dai comuni atti fisiologici.

 

Inoltre, in presenza di evidenti preesistenze extralavorative, fatta salva, comun­que, la sufficienza della «vis lesiva» di cui sopra si è detto, l'attuale orien­tamento giurisprudenziale ammette infatti che anche un atto lavorativo ordinario ed usuale (vale a dire abituale) possa essere valutato come «abnorme ed eccessivo», in rapporto all'indole della prestazione ed alla minore resisten­za organica dell'assicurato, dovuta a preesistenti fatti morbosi. In altri termini, poiché si abbia un infortunio indennizzabile è necessario accertare concretamente l'entità traumatica dell'atto lavorativo in rapporto allo stato anteriore dell'assicura­to, al fine di stabilire se l'atto in questione (anche se ordinario ed usuale) abbia acquistato, nel caso specifico, i caratteri dell’«abnormità», divenendo, in tal modo, effettivamente responsabile della repentina rottura di un equilibrio preesistente, ancorché precario. Appare essenziale quindi non tanto la gravità del danno constatato quanto la valutazione della concreta efficienza causale dell'atto lavo­rativo compiuto.

 

Per quanto concerne la criteriologia valutativa, si ricorda poi che l'ammissione del caso all’indennizzo comporta il riconoscimento e la valutazione integrale del danno (ivi compreso quello concausato dalla preesistenza), qualora tale preesistenza abbia agito esclusivamente come «concausa di lesione» (ad es. rottura tendinea). Se invece la preesistenza ha agito anche come «concausa di inabilità», dovrà essere ap­plicata la formula di Gabrielli ex art. 79 T.U. (ad es. distacco di retina in soggetto con grave miopia preesistente), sempreché l’inabilità preesistente sia quantificabile; qualora invece quest’ultima non sia quantifi­cabile e discriminabile da quella derivante dall'infortunio (come di regola accade nelle lesioni della colonna), si dovrà procede­re alla valutazione del danno conseguente all'infortunio con criterio di massima, possibile obiettività.

 

In particolare, nelle lombalgie da distrazione muscolare, l'unica presta­zione concedibile è, di norma, quella dell’indennità per inabilità tempora­nea assoluta, anche nei casi in cui al fattore distrattivo si associ una preesistente spondiloartrosi. In quest’ultima circostanza, infatti, non si può ammettere che una lesione interessante esclusivamente le parti molli possa modificare peggiorativamente ed in modo permanente una condizione disco­artrosica vertebrale preesistente.

 

Per quanto riguarda invece l'ernia discale, allorché sia accertata la dipendenza causale con l'evento traumatico, occorre procedere alla valutazione del danno lavorativo, tenendo conto di eventuali preesistenze extralavorative. Qualora si verifichi, a seguito di uno sforzo, l'espulsione trauma­tica di un nucleo polposo in un lavoratore già affetto da una grave preesistente spondilodiscoartrosi a livello lombare, il danno risultante dopo l'infortunio dovrà essere valutato (in assenza di una indicazione precisa sull'entità della «limitazione funzionale» antecedente ed essendo, inoltre, i po­stumi lavorativi ed extralavorativi indiscriminabili) con una percentuale di inabilità permanente proporzionalmente ridotta rispetto a quella globale, avendo in tal caso la preesistenza agito sia come concausa di lesione, fa­vorendo l'espulsione del nucleo polposo, sia come concausa di inabilità, avendo verosimilmente determinando, già in epoca precedente all'infortunio, una apprezzabile limitazione funzionale della colonna vertebrale.

 

I RISCHI LAVORATIVI

 

Come abbiamo visto, le affezioni cronico-degenerative della colonna vertebrale sono di frequente riscontro presso le più disparate collettività lavorative dell’industria, dell’agricoltura e del terziario. Se è vero che le affezioni in questione hanno una genesi tipicamente multifattoriale nella quale ricorrono fattori costituzionali, anagrafici, metabolici, endocrini, etc., è del pari vero che in molteplici occasioni sono stati rilevati fattori meccanici e traumatici, fra cui quelli di natura professionale possono svolgere un importante ruolo.

 

Al fine di valutare l'entità degli insulti meccanici (in termini di sovraccarico biomeccanico da trauma cumulativo) per il rachide lombare durante il lavoro, si è proceduto da tempo ad una schematizzazione del complesso sistema osteo-muscolo-legamentoso lombare che interviene a bilanciare il momento meccanico esterno. Ciò ha comportato tuttavia notevoli difficoltà, dovendo necessariamente considerarsi, oltre all’azione svolta dai muscoli erettori spinali, anche quella esercitata dai legamenti spinali, dalle faccette articolari vertebrali, dalla contrazione addominale e di numerosi altre variabili biomeccaniche.

 

I carichi agenti sui dischi intervertebrali e l’impegno dei muscoli paravertebrali sono stati studiati da numerosi autori mediante modelli matematici basati sui principi e sulle conoscenze della biomeccanica. Tali studi hanno permesso la quantificazione dei carichi articolari e, in seconda istanza, delle tensioni sviluppate dalla altre strutture periarticolari a partire da una relativamente sofisticata schematizzazione degli atteggiamenti posturali, dalla quantificazione delle forze esterne applicate (ad es. il sollevamento di un peso), nonché dall’apprezzamento di alcuni parametri antropometrici del soggetto esaminato.

 

Detti studi sono stati basati sostanzialmente sul principio della leva “in equilibrio” in cui i diversi segmenti corporei e le forze esterne agiscono come potenze, i muscoli e gli altri tessuti molli come resistenze e gli snodi articolari come fulcri. Stante la relativa complessità del corpo umano come “complesso di leve”, che peraltro possono agire secondo svariate direzioni nello spazio e sotto la sollecitazione di forze sia statiche che dinamiche, sono stati definiti diversi modelli di studio la cui accuratezza è stata di regola inversamente proporzionale alla semplicità e praticità applicativa. I modelli biomeccanici più studiati sono stati, in ordine crescente di complessità, quello statico monodimensionale, quello monodimensionale dinamico, quello statico tridimensionale e quello tridimensionale dinamico. I modelli citati sono stati in gran parte sviluppati per la quantificazione dei carichi agenti sui corpi e sui dischi vertebrali a livello lombare, ma hanno consentito anche la quantificazione di carichi agenti ad altri livelli articolari del rachide.

 

Nella tabella che segue vengono riportati alcuni valori approssimativi del carico agente sul disco L3-L4, calcolato per alcune principali posizioni del rachide in un soggetto del peso di 70 Kg. che assume certe posture e che svolge alcune azioni di sollevamento (Nachemson 1981). Va ricordato ad ogni modo che tali livelli di carico sembrerebbero essere sostenibili grazie all'azione combinata di alleggerimento esercitata dalla pressione addominale e dalle articolazioni vertebrali.

 

             Postura                                    Carico lombare (in Kg.)

Supina                                                                                30

Eretta                                                                                 70

Seduta senza supporto                                                    100

Flessione del tronco di 20°                                               120

Flessione del tronco di 20° con 10 Kg. in mano               185

Sollevamento di 20 Kg. con schiena dritta e ginocchia flesse        210

Sollevamento di 20 Kg. con schiena dritta e ginocchia estese       340

 

Con altri studi condotti con i tests di forza è stato poi possibile individuare altri parametri:

a)    La massima forza muscolare (MCV) sviluppata da uno o da più gruppi muscolari (estensori del tronco, addominali, flessori del braccio, etc.) in condizioni isometriche (contrazione statica) o isocinetiche (contrazione con spostamento a velocità costante);

b)   La massima capacità di sollevamento dinamico (M.D.L.) di un peso con caratteristiche controllate in funzione della tecnica di sollevamento, dell’entità del dislocamento orizzontale e verticale nonché della dimensione dell’oggetto sollevato.

 

Un ulteriore metodo di studio molto interessante è rappresentato dalla determinazione della pressione endoaddominale (I.A.P.), consistente nella registrazione degli incrementi di pressione nella cavità addominale durante il trasferimento manuale di pesi. La pressione endoaddominale (registrata in mmHg) si è dimostrata, in condizioni statiche controllate, entro certi limiti correlata linearmente con la pressione intradiscale registrata in vivo.

 

 

I fattori di rischio lavorativo per la colonna vertebrale attualmente conosciuti ed evidenziati dagli studi sperimentali e statistico-epidemiologici sono rappresentati da:

 

1.   Movimentazione manuale di carichi

2.   WBV (vibrazioni trasmesse a tutto il corpo)

3.   Posture incongrue (fisse/protratte)

4.   Movimenti e torsioni (abnormi/ripetuti) del tronco

 

Solo per i primi due fattori di rischio esistono norme tecniche e valori limite di riferimento, ancorché elaborati con finalità preventive da vari istituti ed organizzazioni scientifiche (NIOSH, CEN, BS, HSE, ISO, ACGIH, EPM). In particolare nel nostro ordinamento giuridico è previsto esplicitamente da alcuni anni (D. Lgs. 626/94) l'obbligo della valutazione del rischio e l'eventuale conseguente sorveglianza sanitaria per la sola movimentazione manuale dei carichi, mentre per le WBV è previsto dal recente D. Lgs. 459/96 (direttiva macchine) il solo obbligo per i costruttori di macchine mobili di dichiarare il valore quadratico medio ponderato in frequenza, quando questo sia superiore a 0,5 m/s2.

 

Per i rischi da posture incongrue e da movimenti abnormi ripetuti del tronco non sono disponibili ad oggi né linee guida tecniche né specifiche norme. Tuttavia c'è da dire che i movimenti del tronco vengono considerati come parametro di rischio nella valutazione della movimentazione manuale dei carichi e che le posture sono tenute in considerazione soprattutto negli studi riguardanti l'effetto delle WBV. Pertanto si ritiene che essi possano essere presi in considerazione non di per sé stessi ma solo come fattori di aggravamento dei due rischi sopramenzionati, specie in determinate condizioni (spazi ristretti, catena di lavoro, etc.)

 

Va sottolineato comunque che la rilevazione dei parametri utilizzabili per la quantificazione del rischio risulta ancor oggi relativamente complessa, presupponendo un intervento tecnico diretto in attualità di lavoro per l’acquisizione dei dati necessari, anche con specifica strumentazione (videocamere, accelerometri, etc.).

 

Inoltre va ricordato in questa sede come in sede medico-legale assicurativa sia necessaria, specie per le malattie non tabellate, l'elaborazione di criteri che consentano una valutazione quanto più oggettiva possibile in termini quali-quantitativi di una pregressa esposizione a fattori di rischio che in precedenza possono essere stati misconosciuti ovvero non valutati neppure a fini preventivi.

 

 

 

LA MOVIMENTAZIONE MANUALE DEI CARICHI

 

La valutazione del rischio lavorativo connesso alla attività di movimentazione manuale di carichi è incentrata fondamentalmente sulle linee guida elaborate da autorevoli istituti italiani e stranieri (NIOSH 1981, EPM 1989, CEN 1992, HSE 1992, NIOSH 1993) e sul titolo V (con il relativo allegato VI) del D. Lgs. 626/94. Mentre i protocolli attualmente in uso sono mirati alla valutazione delle più tipiche ed usuali azioni di sollevamento/abbassamento di carichi, l'art.47 del D. Lgs. 626/94 ricomprende nel concetto di movimentazione manuale dei carichi a rischio anche quelle, rilevanti, di spinta, traino e trasporto, che, se compiute "in condizioni ergonomiche sfavorevoli" possono comunque costituire un rischio per il rachide dorso-lombare.

 

L’allegato VI si rivela oltremodo interessante, essendo il frutto dell'accorpamento dei due allegati originari alla direttiva CEE 269/90, dedicati rispettivamente ai fattori lavorativi e ai fattori individuali di rischio. Il testo è rimasto sostanzialmente immodificato, fatto salvo l'inserimento di una specifica quantitativa limite (30 kg) che individua, appunto, il massimo peso di carico sollevabile individualmente senza tener conto di altri elementi. Sul piano più generale, l'esistenza di un sovraccarico per il rachide dorso lombare va valutata dunque tenendo conto del complesso dei diversi fattori di aggravamento rischio lavorativo riportati nell'allegato (caratteristiche del carico, sforzo fisico richiesto, caratteristiche dell'ambiente di lavoro, etc.), che consentono di definire per ogni scenario lavorativo dato qual’è il massimo peso del carico movimentabile (o la massima forza esercitabile) in quella determinata condizione.

 

Ai fini della valutazione della pregressa esposizione a rischio, dobbiamo pertanto distinguere innanzitutto se si sia trattato prevalentemente di azioni di sollevamento (o abbassamento) di carichi ovvero di azioni di trasporto, di traino o di spinta di carichi con ausili meccanici (ad es. carrelli). Per le azioni di sollevamento può essere utile infatti ricorrere al modello proposto dal NIOSH (1993): con essi in pratica si è in grado di determinare, per ogni azione di sollevamento, il cosiddetto limite di “peso raccomandato" attraverso un’equazione che a partire da un peso limite sollevabile in condizioni ideali (23 Kg. unico per il NIOSH e 30 Kg. secondo il D. Lgs. 626/94), considera l'eventuale esistenza di elementi sfavorevoli e tratta questi ultimi con appositi fattori di demoltiplicazione. I vari coefficienti applicati sono definiti in funzione dei seguenti parametri:

·          Peso medio e caratteristiche del carico;

·          Distanza del peso dal corpo;

·          Frequenza del gesto (nel turno/al minuto);

·          Durata dell’azione;

·          Postura assunta;

·          Dislocazione angolare;

·          Altezza di prelievo;

·          Dislocazione verticale.

 

Relativamente al carico lombare sostenibile il NIOSH ha poi individuato due limiti:

a)    “Action Limit” (AL) corrispondente a 350 kg. di carico lombare, al di sotto del quale non sono da prevedersi particolari misure cautelative;

b)   “Maximum permissible limit” (MPL) corrispondente a 650 kg. di carico lombare, corrispondente al limite da non superare mai nel sollevamento e trasferimento manuale di pesi.

 

Per valori di carico lombare fra 350-650 kg. sono previste varie misure preventive come la riprogettazione ergonomica del compito lavorativo, la selezione e il training dei soggetti adibiti, il controllo clinico dei lavoratori. Per facilitare l’applicazione pratica di questi limiti il NIOSH ha predisposto, tra l'altro, un protocollo che consente di definire un indice sintetico di rischio in base al rapporto tra peso sollevato e peso limite raccomandato sulla base dei sopracitati parametri di rischio.

 

In via orientativa, tenuto anche conto delle indicazioni contenute nell'allegato VI del D. Lgs. 626/94, si può ritenere che un rischio relativamente elevato sussista per lavoratori impiegati da lungo tempo nelle seguenti attività:

ü     magazzinieri con stoccaggio su bancali molto alti/bassi;

ü     lavoratori edili con passaggio da terra su ponti di sacchi o mattoni;

ü     facchinaggio pesante e traslochi manuali;

ü     talune attività infermieristiche e parasanitarie (cfr. Medicina del Lavoro, marzo/aprile 1999).

 

LE VIBRAZIONI WBV

 

        Le vibrazioni trasmesse al corpo ("whole body vibration" - WBV) costituiscono un rilevante fattore di rischio sia per la varietà e l'im­portanza degli effetti ad esse associati sia per il numero di lavoratori esposti. Mezzi di trasporto, semoventi, macchine ed impianti fissi rappresentano le principali sorgenti di vibrazioni. Queste due categorie di sorgen­ti implicano differenti superfici di trasmissione delle vibrazioni e differenti posture degli addetti; la rilevanza del rischio per i due tipi di sorgenti è inoltre nettamente diversa.

 

        In genere, nel caso dei mezzi di trasporto (autobus, camion, ecc.) e semoventi (trattori agricoli, carrelli elevatori, pale meccani­che, ecc.), le vibrazioni si trasmettono attraverso i sedili di guida agli addetti in posizione assisa, men­tre nel caso di macchine ed impianti fissi (magli, presse, mulini, ecc.), le vibrazioni si trasmettono attraverso i pavimenti o le piattaforme di lavoro agli addetti in posizione eretta. Rispetto alle vibrazioni prodotte da macchine ed impianti fissi, le vibrazioni generate da mezzi di trasporto e semoventi presentano maggiore interesse, sia perché sono di li­vello più elevato, sia perché coinvolgono un numero di lavoratori notevolmente superiore.

 

Per la valutazione tecnica delle vibrazioni trasmesse al corpo viene generalmente seguita la norma internaziona­le ISO 2631/1-1997, che ha integrato ed aggiornato la precedente versione del 1985. Nella norma viene definito un sistema di coordinate ortogonali riferito soggetto esposto, con origine fissata in corrispondenza del torace:

-       l'asse z passa per i glutei e la testa (per i piedi e la testa nel caso di un soggetto in posizione eretta);

-       l'asse x per la schiena ed il petto;

-       l'asse y per le due spalle.

 

Di fatto, se si considera la direzione di marcia di un mezzo di trasporto o semo­vente, tali coordinate corrispondono generalmente agli assi verticale (z), longitudinale (x) e trasversale (y). L'intensità delle vibrazioni viene descritta in ter­mini di accelerazione (a) espressa in m/s2; l'intervallo di frequenza da conside­rare risulta compreso tra 0,5 e 80 Hz.

 

     Circa gli effetti delle WBV sull'uomo, sono state definite due curve, una valida per l'asse verticale, l'altra per gli assi orizzontali, che congiungono i livelli delle accelerazioni che, alle diverse frequenze, producono lo stesso effetto in ter­mini di percezione da parte di un soggetto esposto per otto ore. La sensibilità dei soggetti esposti alle vibrazioni è maggiore negli intervalli di fre­quenza compresi tra 4 e 5 Hz sull'asse verticale e tra 1 e 2 Hz sugli assi orizzontali mentre dimi­nuisce per valori di frequenza esterni a tali intervalli.

 

        Per esposizioni di durata inferiore alle otto ore, la norma ISO prevede altre curve limite, di identico andamento in frequenza ma caratterizzate da accelerazioni di intensità più elevata: per tempi di esposizione più brevi sono consentiti infatti livelli di acce­lerazione più alti. Inoltre va tenuto presente che, trattandosi di curve di isopercezione, le componenti di valore diverso per accelerazione possono determinare lo stesso tempo massimo di esposizione (ad es. 4 ore) per frequenze differenti.

 

        Le curve limite fin qui discusse si riferiscono al mantenimento dell'efficienza lavorativa del soggetto esposto in termini di comparsa di fenomeni di affaticamen­to tali da incidere negativamente sulle prestazioni lavorative (ad es. compito di guida). Sono state poi definite altre due serie di curve che, pur mostrando lo stesso andamento delle curve precedenti, si riferiscono invece al mantenimento del comfort ed al mantenimento della salute-sicurezza: a parità di durata di esposizione, sono sufficienti accelerazioni di livello più basso per compromettere il comfort, mentre sono richiesti livelli più alti per pregiudicare la  salute-­sicurezza dei soggetti esposti.

 

        Le vibrazioni presenti sui mezzi di trasporto sono dovute prevalentemente al funzionamento del motore ed alla traslazione del mezzo. Nel caso delle macchine operatrici semoventi, le vibrazioni sono prodotte non solo dal funzionamento del motore e dalla traslazione ma anche dalle operazioni effettuate dall'attrezzo. Il funzionamento dei motori a combustione interna produce vibrazioni di frequenza relativamente elevata, in genere tra 20 e 60 Hz. Come è no­to la sensibilità del corpo umano a queste frequenze è modesta, in quanto superiori alla frequenza di risonanza del rachide (5-15 Hz). Le vibrazioni dovute alla traslazione del mezzo ed alle sollecitazioni originate dal profilo irregolare del terreno sono caratterizzate da componenti di bassa frequenza (1-20 Hz). Generalmente, negli spettri delle accelerazioni ver­ticali si presenta un picco di frequenza pari alla frequenza di risonanza del mezzo (2-6 Hz).

 

Per quanto riguarda gli spettri delle accelerazioni orizzontali, questi, in genere, sono piatti o presenta­no elevati valori a frequenze molto basse. In relazione al particolare andamento delle curve di isopercezione  delle  vibrazioni, la  sensibilità  alle accelerazioni verticali è massima tra 4 e 8 Hz, mentre la sen­sibilità alle accelerazioni orizzontali è massima tra 1 e 2 Hz.

 

L'entità delle vibrazioni dipende dunque dalle sollecita­zioni a cui il mezzo è sottoposto ed in particolare dalla velo­cità di traslazione e dal tipo di terreno. Nel caso dei mezzi di trasporto, che operano su superficie uniformi (strada o rotaia), la velocità di traslazione, generalmente elevata, assume un rilievo determinante.

 

Nel caso delle macchine semoventi, che in genere si muovono a bassa velocità e sono per lo più prive di sospensioni, sono invece le caratteristi­che del terreno ad essere determinanti: la traslazione su terreni duri o dis­sestati determina infatti vibrazioni di livello più alto. Le lavorazioni effettuate con mezzi semoventi dotati di attrezzi (agricoli, forche, benne, ecc.) influi­scono in misura complessa sulle vibrazioni. Generalmen­te tali lavorazioni incrementano le vibrazioni dovute alla sola traslazione, in particolare nei casi in cui si verificano fenomeni di impatto (ad es. benna che raccoglie materiale).

 

Diversi sono i parametri che possono pertanto influire sulle vibrazioni. Questi sono legati non solo al tipo di mez­zo (sospensioni, gommatura, sedile, ecc.), al tipo di percorso (superficie, ecc.), alla velocità di trasla­zione ed alle lavorazioni eventualmente effettuate, ma anche a fattori casuali (ad es. frenate improvvise per traffico in­tenso.) e soggettivi (modalità di gui­da, ecc.).

 

In definitiva i parametri tecnici utilizzati tendono a misurare l'accelerazione equivalente, che tiene conto dell'entità dell'accelerazione, dell'asse (x, y, z), della frequenza (0,5-80 Hz) e del tipo di vibrazione (impulsiva, traslazionale, rotazionale). Le curve dose-risposta sono ad oggi validate solo per gli effetti acuti ed in rapporto al mantenimento dell’efficienza della prestazione lavorativa, delle condizioni di salute/sicurezza e di comfort del soggetto esposto. Come indicatore di rischio effettivo viene assunta l’esposizione quotidiana al valore totale quadratico medio dell’accelerazione ponderata in frequenza nelle diverse posture; il livello di azione attualmente considerato è di 0,50 m/s2, peraltro ripreso dal recente D. Lgs. 459/96. Da un punto di vista pratico-operativo, in carenza di dati tecnici significativi, dovrà dunque essere acquisita documentazione probante in merito a:

 

automezzi

Ø     tipo di autoveicolo (di trasporto, semoventi, etc.);

Ø     caratteristiche del contatto al suolo (gomme, cingolato, rotaia, etc.);

Ø     percorrenza chilometrica (media e complessiva);

Ø     velocità media;

Ø     caratteristiche del percorso;

Ø     operazioni di lavoro svolte con eventuale uso di attrezzi ausiliari;

Ø     condizioni di esercizio (sospensioni, sedile, motore, etc.)

 

velivoli

Ø     tipo di velivolo;

Ø     caratteristiche del propulsore;

Ø     ore di volo (medie e complessive);

Ø     tipo di servizio svolto.

 

Al riguardo va infine sottolineato che il livello più basso di rischio da WBV si ha per i mezzi su rotaia, rispetto ai quali possiamo avere valori medi di accelerazione aumentati di circa due volte (per gli autobus), tre volte (per i trattori agricoli), quattro volte (per i carrelli elevatori diesel), nove volte (per le pale meccaniche).

 

LE POSTURE

 

Gli studi dell’attività muscolare e dei carichi articolari quali si sviluppano nelle posture di lavoro, genericamente intese, sono stati finora mirati essenzialmente a verificare la tollerabilità della postura stessa nelle concrete condizioni spazio-temporali in cui essa viene adottata. Una postura viene definita tollerabile quando:

a)    non induce sensazione di disagio, fatica o dolore a breve termine;

b)   non causa patologia morfo-funzionale dell’apparato locomotore a lungo termine.

 

A tutt'oggi non sono disponibili però di metodi e criteri per esprimere giudizi di tollerabilità di una data postura di lavoro. Inoltre non va dimenticato che, nella pratica, si valuta generalmente non tanto una singola postura quanto una sequenza di posture, quale si determina nello svolgimento dei compiti lavorativi da parte di singoli lavoratori o gruppi di addetti durante un intero turno di lavoro, nei diversi contesti operativi. Sotto questo aspetto lo studio delle caratteristiche di entità dell’attività muscolare e del carico articolare dovrebbe essere effettuato in parallelo con lo studio delle caratteristiche di durata degli stessi, in modo da valutare non solamente l'accettabilità di singoli gesti o atteggiamenti corporei ma piuttosto la loro iteratività.

 

In base alle caratteristiche di entità e di durata, si possono delineare infatti contesti lavorativi in cui le prime sono preponderanti rispetto alle seconde (generalmente caratterizzati da uno spostamento manuale di pesi: carico e scarico di merci, edilizia, alcuni reparti ospedalieri, etc.) o, al contrario, situazioni in cui le caratteristiche di durata divengono preponderanti rispetto a quelle di entità (generalmente caratterizzate da posture fisse prolungate: lavoro in catena di montaggio, dattilografia, VDT, guida di automezzi, parrucchieri, orchestrali, etc.).

I metodi biomeccanici di studio sono del tutto sovrapponibili a quelli già esaminati per il trasferimento manuale di pesi. Le differenze sono rappresentate da alcune varianti nei modelli analitici e nei criteri valutativi. Nelle posture fisse l’analisi con modelli statici monodimensionali è generalmente adeguata e sufficiente. Sovente si presenta tuttavia, specie nelle posizioni assise, la necessità di quantificare alcune forze esterne specie in termini di reazioni di appoggio (vincoli) per il tronco. Al di là di ciò, resta tuttavia il problema di come valutare i risultati ottenuti dall’applicazione dei modelli biomeccanici. Anche in tal caso, i criteri valutativi sono disponibili in larga parte per il solo segmento lombare mentre rimangono ancora approssimativi per gli altri segmenti corporei.

 

Come già detto, per comprendere tali criteri va schematicamente fatto riferimento ai ricordati meccanismi di nutrizione del disco intervertebrale. Questa struttura anatomica è priva di vasi e la sua nutrizione dipende da processi di diffusione delle sostanze dei tessuti adiacenti. La diffusione è a sua volta funzione di un complesso rapporto fra pressione idrostatica e pressione osmotica ed oncotica all’interno ed all’esterno del disco stesso, restando in sostanza affidata ad un meccanico di "pompa". In particolare, a proposito del processo nutritivo per diffusione, è stata ribadita da più parti l’esistenza di un valore "soglia" a 80 kg. di pressione intradiscale lombare come elemento discriminante fra condizioni di sottocarico e condizioni di sovraccarico. Da tali cognizioni ne deriva che l’optimum del processo nutritivo del disco (e pertanto della postura) è determinato dal costante alternarsi attorno al valore soglia di condizioni di carico e scarico dello stesso.

 

Per contro, condizioni prolungate di sovraccarico o di sottocarico discale, come sono quelle che possono realizzarsi nelle posture fisse prolungate, ostacolano il ricambio nutritivo e possono, a lungo termine, favorire i processi di degenerazione discale, con tutte le note conseguenze che tale fenomeno comporta.

Per la valutazione delle posture fisse prolungate sono stati finora applicati gli stessi metodi e criteri adottati per lo studio della movimentazione manuale di pesi, in quanto sufficientemente ben codificati, anche se qui gli elementi di durata divengono relativamente predominanti rispetto agli elementi di entità di carico. Ciò significa che, nell’analisi delle posture statiche la valutazione di tollerabilità deve avvenire non già sulla base della semplice quantificazione dei carichi articolari e dell’impegno muscolare ma anche della loro distribuzione nel tempo. Non va dimenticato poi che l’analisi degli atteggiamenti posturali è stata finora sempre integrata con quella delle strutture organizzative, ricorrendo in ogni caso a metodi di valutazione soggettiva che, pur se pratici e sintetici, presentano alcuni svantaggi:

-       il giudizio soggettivo può essere anche fortemente influenzato da altre variabili ambientali ed individuali scarsamente controllabili e/o quantificabili;

-       il giudizio soggettivo non è sempre in grado di distinguere “gli elementi critici” (strutturali, posturali, organizzativi) di una determinata postura protratta nel tempo e, anche quando sia correttamente espresso, raccolto ed utilizzato, non dà indicazioni utili sulla potenziale "dannosità" della postura assunta.

 

Per quanto riguarda le posture fisse va comunque ricordato che le contrazioni isometriche superiori al 20% della MVC diminuiscono l’apporto di sangue con precoce comparsa di fatica muscolare. Livelli elevati e protratti di stress (eventualmente indotti da fattori psicosociali sfavorevoli) possono indurre contrazioni statiche prolungate della muscolatura.

Il compito di guida rappresenta infine un esempio di associazione di più fattori di rischio (da postura e da WBV), presupponendo il mantenimento della postura seduta fissa con contemporanea esposizione a vibrazioni e scuotimenti in relazione alle caratteristiche tecniche del mezzo alle qualità ergonomiche del posto di guida ed alle condizioni del fondo stradale.

 

“LOW BACK PAIN” LAVORO-CORRELATA

 

Per “low back pain” (LBP) si intende, come già detto, una sintomatologia dolorosa localizzata in corrispondenza del tratto lombo-sacrale del rachide (lombalgia o lombosacralgia), con conseguente limitazione funzionale e difficoltà od impossibilità ad assolvere i compiti lavorativi propri della mansione.

 

Molte delle difficoltà finora incontrate nell’inquadramento etiopatogenetico delle patologie cronico-degenerative della colonna dorso-lombare derivano proprio dall’uso indiscriminato di tale termine, finora sistematicamente utilizzato in tutte le indagini epidemiologiche realizzate a livello internazionale nonostante stia ad indicare esclusivamente un sintomo, senza alcuna indicazione sull’etiopatogenesi del disturbo (muscolare, vertebrale, discale). Tale termine di per sé stesso non indica neppure la presenza un’eventuale irradiazione algica agli arti inferiori (lombosciatalgia o sciatalgia franca), la cui forte associazione epidemiologica con i fattori fisici di carico e con la spondilodiscoartrosi è stata sottolineata da Riihimaki nel 1995. Per tali ragioni quest’ultimo autore ha proposto , unitamente alla raccolta di informazioni più dettagliate sulla durata della sintomatologia stressa, l’adozione di una diversa terminologia: “local low back pain” e “radiating low back pain”.

 

 "LOW BACK PAIN" E SPONDILOARTROPATIE

 

Da molti anni le patologie della colonna vertebrale rappresentano nei paesi industrializzati una delle maggiori cause di assenza dal lavoro e di disabilità in base i parametri epidemiologici utilizzati (tasso di prevalenza, visite mediche e consulti specialistici, assenza dal lavoro, indennizzi) nell'ambito dei “back disorders”.

 

Nonostante la sempre più spinta meccanizzazione ed automazione sui luoghi di lavoro l’incidenza di tali patologie non è fino ad oggi diminuita nella popolazione lavorativa; del resto, a dispetto dell’elevato numero di studi epidemiologici effettuati negli ultimi decenni, non è stato possibile stabilire con sufficiente precisione l’etiologia ed il ruolo assunto di volta in volta dai vari fattori di rischio finora individuati (sia lavorativi che non). Tuttavia si ritiene che circa 20% di tutti i casi di LBP possa essere teoricamente attribuibile a fattori fisici lavorativi, approfonditamente indagati negli ultimi anni.

 

Molti studi hanno confermato che una percentuale oscillante tra il 60 e l’80% di tutta la popolazione sperimenta una lombalgia invalidante ad una certa età della vita. L’80-90% dei lavoratori affetti da LBP ritorna al lavoro entro 30-60 giorni dall’esordio della sintomatologia; solo un’esigua minoranza va incontro ad una invalidità (5-10%). Un’ ulteriore piccola quota va incontro a episodi di lombalgia ricorrente che diventano progressivamente più dolorosi e lunghi.

 

Come abbiamo già detto, sulla base di studi sperimentali a breve termine sono state invero prodotte linee guida per i carichi di lavoro (“physical load at work”) con precise indicazioni quantitative rispetto ai principali parametri fisiologici (NIOSH 1993, CEE 269/90), anche se non è stata ancora raggiunta una sufficiente evidenza epidemiologica che consenta di affermare che dette linee guida siano effettivamente in grado di prevenire l’insorgenza di spondiloartropatie nei lavoratori.

 

Le spondiloartropatie sono patologie tipicamente multifattoriali; nel tentativo di definire lo specifico contributo di fattori nocivi correlati al lavoro, finora le indagini epidemiologiche hanno identificato fattori individuali, psicosociali e fisici. In ogni caso le osservazioni sono state spesso contraddittorie o comunque non univoche: molti studi purtroppo hanno stimato i vari fattori di rischio solo dal tipo di lavoro (“job title”), senza analizzare gli specifici aspetti quantitativi (curve dose-risposta, etc.), che hanno caratterizzato solo poche ricerche.

 

I fattori nocivi lavorativi ad oggi conosciuti ed indagati sperimentalmente sono stati da tempo classificati in fattori fisici, psicosociali ed individuali:

 

FATTORI FISICI

-       movimentazione manuale dei carichi;

-       flessioni e torsioni del tronco;

-       pesantezza del carico;

-       postura coatta;

-       movimenti ripetuti;

-       vibrazioni trasmesse a tutto il corpo.

 

FATTORI PSICOSOCIALI

-       stress mentale;

-       insoddisfazione sul lavoro;

-       ritmo di lavoro elevato;

-       scarso supporto e/o autonomia;

-       deresponsabilizzazione;

-       monotonia.

 

FATTORI INDIVIDUALI

-       età;

-       sesso;

-       altezza;

-       peso;

-       fumo;

-       esercizio fisico e sport;

-       stato civile;

-       grado di istruzione.

 

 

I fattori psicosociali descrivono come il lavoro viene percepito dai lavoratori; l’ottimale organizzazione del lavoro è infatti l’obbiettivo naturale del processo lavorativo ed interagisce con il modo in cui il lavoro è strutturato. In effetti è ben nota la possibilità d’insorgenza di sindromi dolorose come conseguenza di tensione muscolare protratta o di contrazioni isometriche senza adeguate pause di riposo, in risposta a situazioni stressanti ed in assenza di un lavoro fisico.

 

Un interessante studio epidemiologico condotto in Inghilterra nel 1997 (Hemingway), basato sulla codifica nosologica delle assenze dal lavoro di alcuni impiegati londinesi (“white collar”), ha evidenziato che nel 70% dei casi presi in esame si è trattato di periodi isolati di assenza dal lavoro (“non-recurrent back pain”). Lo stesso autore ha inoltre confermato, oltre all’eterogeneità delle voci morbose prese in considerazione (ernia discale; sciatica; dolore alle gambe; dolore alla schiena; lombalgia), anche le persistenti difficoltà nel definire esattamente un caso di “back pain”: i casi basati sui sintomi riferiti non sono del tutto attendibili per la distorsione dovuta alla risposta (“response bias”), che interferiscono oltretutto anche con l’individuazione delle caratteristiche del lavoro.

 

Determinare con accuratezza l’esposizione del sistema muscolo-scheletrico al carico biomeccanico rappresenta in effetti una vera e propria sfida, perché si va a misurare qualcosa a cui ciascuno è esposto per la maggior parte del proprio tempo: il carico dovuto alle posture e al movimento, con o senza carico esterno. Tuttavia grazie alla moderna tecnologia è divenuto possibile monitorare e registrare posture e movimento: clinamometri, accelerometri, elettromiografia, etc. L’esposizione può essere caratterizzata in termini di ampiezza (intensità), frequenza e durata ma il problema è come sintetizzare i dati complessivi in maniera tale da avere misure attendibili dell’esposizione in relazione ai rischi di patologie muscolo-scheletriche.

Molta “esposizione” a posture e movimento è paradossalmente un’ottima cosa per il sistema muscolo-scheletrico ed in molti casi ha un effetto di “training” (allenamento). Il problema è dunque stabilire i limiti di intensità, frequenza e durata oltre i quali l’esposizione produce effetti dannosi.

 

Ma se è difficile stabilire l’esposizione attuale è ancora più difficile stabilire l’esposizione pregressa, soprattutto in relazione agli effetti cumulativi, particolarmente importanti per l’insorgenza di patologie cronico-vegetative del rachide (lombare).  Infatti non è di regola possibile disporre di dati retrospettivi accurati e pertanto l’esposizione pregressa è spesso basata su “self-reports” e pertanto soggetta a distorsione d’informazione (“information bias”).

 

I modelli biomeccanici finora sviluppati hanno rappresentato uno strumento oltremodo utile per stimare il carico sul sistema muscolo-scheletrico, unitamente ai dati sperimentali sulle caratteristiche dei tessuti. Tuttavia c’è da notare che alcuni dati sperimentali attualmente disponibili potrebbero essere non corretti: ad esempio le proprietà meccaniche delle vertebre si modificano sostanzialmente in rapporto alla circolazione sanguigna, che finora non è stata tenuta in considerazione nei modelli sperimentali e non si conosce con esattezza l’evoluzione del processo degenerativo dei dischi intervertebrali nel singolo individuo. Inoltre non sono fino ad oggi disponibili “biomarkers” per le patologie dell’apparato muscolo-scheletrico.

 

Il dato maggiormente rilevato negli studi epidemiologici delle malattie muscolo-scheletriche è rappresentato dall’insorgenza del dolore, che tuttavia non consente nella gran parte dei casi una diagnosi specifica. Uno degli strumenti più utilizzati negli studi epidemiologici di queste malattie è finora stato il questionario nordico, che tuttavia risulta sotto questo aspetto troppo semplicistico.

 

Uno dei maggiori problemi è costituito, oltre che dalla difficoltà di stabilire un rapporto causa-effetto, dalla valutazione dell'incidenza dei fattori lavorativi rispetto a quelli extralavorativi.

 

La "low back pain" può essere vista sotto un duplice punto di vista:

1)   il punto di vista clinico si sofferma sui danni tessutali prodotti dai fattori lavorativi e considera l’invalidità derivante da eventi lesivi più gravi (ad es. ernia discale);

2)   il punto di vista biomeccanico individua nelle abnormi esposizioni biomeccaniche lavorative la causa della LBP e quindi ritiene che con adeguati interventi preventivi si possa efficacemente prevenire la LBP.

 

La “low back-pain” può essere definita come caso clinico o come causa di assenza dal lavoro. In questo secondo caso tuttavia interferiscono altri fattori del tutto estranei, come ad esempio la tempestività e la adeguatezza delle cure mediche.

 

E’ ormai riconosciuto da molti autori che il termine di “low back pain” non abbia uno specifico significato clinico in termini diagnostici, prognostici e terapeutici. Meno del 5% di pazienti in età lavorativa con LBP hanno quadri morbosi oggettivamente dimostrabili anche se sottoposti a TAC e RMN: da ciò scaturisce la convinzione che la LBP sia ormai diventata una diagnosi di esclusione.

 

Riguardo la gravità della LBP c’è da dire che molto spesso ci si è riferiti al periodo di assenza dal lavoro o comunque al periodo o all’entità dell’indennizzo ricevuto ovvero a parametri soggettivi di misurazione del dolore piuttosto che a parametri biomedici tradizionali. Attualmente i sistemi di assicurazione sociale dei paesi anglosassoni tendono ad enfatizzare gli aspetti traumatici acuti della LBP. Molto spesso inoltre gli studi epidemiologici hanno posto l’accento sui fattori di rischio prognostici piuttosto che eziologici cioè su quei fattori in grado di predire l’evoluzione della malattia una volta instaurata.

 

I RISCHI EXTRAPROFESSIONALI

 

        Questi possono essere distinti, per i fini che qui interessano, in fattori fisiologici ed eredo-costituzionali nonché patologici acquisiti. I primi sono rappresentati da:

-       fattori ormonali (distiroidismi, menopausa, etc.);

-       costituzione fisica (tappe dello sviluppo scheletrico, obesità);

-       gravidanze portate a termine (numero, epoca, decorso);

-       para/dismorfismi della colonna;

-       malformazioni congenite vertebrali e/o degli arti;

-       pratica di talune attività sportive (rugby, equitazione, pesistica, windsurf, sports motoristici), specie se a livello agonistico.

 

Per quanto riguarda i fattori patologici acquisiti, qui di seguito si riporta inoltre un elenco (non esaustivo) di patologie da valutare attentamente nella diagnostica differenziale della spondilodiscoartrosi lombare:

·          Artrosi senile,

·          Spondilite anchilosante,

·          Artrite psoriasica,

·          Artrosi post-traumatica (fratture vertebrali),

·          Malattia di Baastrup,

·          Spondiloartrosi secondaria ad alterazioni congenite o acquisite della pelvi o degli arti inferiori,

·          Reumoartropatie a localizzazione rachidea,

·          Artrosi da terapia cortisonica,

·          Artrosi da malattie dismetaboliche,

·          Spondilodisciti (tubercolari e non),

·          Malattia di Paget,

·          Spondiloartriti,

·          Sindrome di Reiter,

·          Spondilopatia iperostosante,

·          Morbo di Scheuermann,

·          Malattia di Calvè,

·          Malattia di Forestier,

·          Spondilolisi/listesi,

·          Patologia tumorale (angioma, encondroma, osteosarcoma, metastasi, ecc.)

       

Tutti i sopracitati fattori di rischio extralavorativi dovranno sempre scrupolosamente ricercati ed eventualmente documentati in occasione degli accertamenti clinico-strumentali e di laboratorio a cui il soggetto verrà sottoposto, onde consentirne la valutazione in termini etiopatogenetici (diagnosi clinica differenziale) e medico-legali (concause).

 

LA FASE CLINICO-DIAGNOSTICA

 

Dopo aver preso visione della documentazione medica (RX, TAC, cartelle cliniche, certificati specialistici, etc.) il medico valutatore (auspicabilmente specialista in medicina del lavoro o in medicina legale) procederà di regola a raccogliere minuziosamente l’anamnesi (specie quella lavorativa) e ad effettuare l’esame obiettivo generale.

In particolare, nell’anamnesi familiare, fisiologica e patologica remota si dovrà indagare sulla presenza di patologie dismetaboliche ereditarie e costituzionali, sulle tappe dello sviluppo scheletrico, sulle eventuali pregresse gravidanze, sulle attività sportive praticate (sia precedentemente che attualmente), sui precedenti traumatici, su eventuali pregresse altre reumoartropatie e su altre abitudini di vita potenzialmente dannose. Infine è necessario indagare sull'eventuale presenza di situazioni cliniche che possono provocare una sintomatologia dolorosa localizzata al rachide lombare: calcolosi renale, dismenorrea, colecistiti, etc.

L’anamnesi lavorativa dovrà essere particolarmente minuziosa, raccogliendo eventuali documenti in materia di valutazione del rischio (certamente riscontrabili in caso di movimentazione manuale dei carichi almeno a partire dalla seconda metà degli anni '90) e riportando tutti i parametri noti dei fattori di rischio dianzi ricordati, precisando per ciascuno il periodo di esposizione su base giornaliera, mensile ed annuale nonché rispetto all'intera vita lavorativa.

 

Circa la anamnesi patologica prossima, occorrerà riportare minuziosamente tutte le caratteristiche della sintomatologia dolorosa accusata (insorgenza, sede, tipo, durata, irradiazione, remissione).

 

Per quanto riguarda l’esame obiettivo, questo sarà mirato a raccogliere tutti i dati utili all’inquadramento nosografico del caso, rilevando eventuali deviazioni dall’asse della colonna, asimmetrie del tronco, stato della muscolatura paravertebrale, mobilità della colonna e localizzazione del dolore. L’esame dovrà valutare anche gli arti inferiori (eventuali dismetrie, riflessi, stato della muscolatura, mobilità ai vari livelli) ed essere integrato dagli accertamenti clinico-strumentali specialistici ritenuti necessari. A questo proposito vanno ricordati i limiti posti dall’attuale legge in tema di radioprotezione (DPR n.230/95) all’esecuzione di esami radiografici e di TAC; in caso sarà senz'altro opportuno utilizzare la RMN, tenuto anche conto delle specifiche indicazioni clinico-diagnostiche. Inoltre, in caso di irradiazione algica agli arti inferiori, dovrà essere disposta una visita specialistica neurologica integrata, se del caso, da un idoneo esame strumentale (EMG o PESS). Dopodiché si provvederà a:

-       disporre l’acquisizione della documentazione relativa al rischio (integrata da parere tecnico in caso di WBV);

-       far sottoporre il paziente a visita specialistica ortopedica ed ev. neurologica (quest'ultima integrata, se del caso, con i necessari esami strumentali - EMG e/o PESS);

-       acquisire parere specialistico radiologico sui radiogrammi e/o esami TAC e/o RMN esibiti, con eventuale indicazione ad effettuare una RMN risolutiva nei casi dubbi. Si ricorda infatti che è esclusa di regola la possibilità di ricorrere sistematicamente alla TAC in base al D.Lgs. n.230/95

-       far sottoporre il paziente agli accertamenti di laboratorio per screening reumatologico: VES, esame emocromocitometrico, proteina C-reattiva, alfaglicoproteina acida, elettroforesi proteica.

 

INDENNIZZABILITA' DELLA SPONDILODISCOARTROSI COME MP NON TABELLATA

 

Sulla scorta delle sopra riportate conoscenze di biomeccanica e fisiopatologia rachidea nonché dei dati statistico-epidemiologici riportati in letteratura si possono formulare le seguenti linee guida.

 

Innanzitutto appare indispensabile la formulazione di una diagnosi nosologicamente definita (ad es. spondilodiscoartrosi) e non meramente sindromica (lombalgia), tenuto oltretutto conto che trattasi di patologia cronico-degenerativa.

 

Successivamente dovrà essere vagliata l’ipotesi di relazione causale tra noxae lavorative e quadro morboso osservato. Pur se riesce utile la conoscenza di dati statistico-epidemiologici dell’incidenza delle spondiloartropatie nel settore lavorativo di appartenenza, non bisogna dimenticare che la valutazione medico-legale assicurativa deve considerare la singola fattispecie in esame. In particolare dovranno essere soddisfatti tutti i criteri medico-legali in tema di nesso causale, ricordando che non può attribuirsi rilievo determi­nante ai soli criteri cronologico e topografico. Per quanto riguarda i tempi di esposizione (parametro comune a tutte le fattispecie di rischio), si ricorda che occorre tenere conto dell’esposizione media annua, mensile e giornaliera (almeno per il 50% dell'orario di lavoro) e dell’esposizione complessiva nell’intera vita lavorativa (almeno 10 anni).

 

Per ciascuna noxa lavorativa concretamente individuata e documentata si dovrà quindi sinteticamente definire il livello di rischio (meglio se in tre gradi crescenti: basso, medio, alto), considerando sia l'entità che la durata di esposizione e precisando altresì le eventuali condizioni di aggravamento del rischio stesso.

 

Quindi si procederà al vaglio dei fattori di rischio extralavorativi, focalizzando l'attenzione su quelle situazioni cliniche (congenite o acquisite) di per sé stesse suscettibili di produrre normalmente le alterazioni degenerative osservate.

 

Riassumendo, per indennizzare una spondiloartropatia come MP non tabellata, dovrà essere necessariamente precisata:

-         la diagnosi in termini di un quadro clinico, anatomo-funzionale e strumentale nosograficamente definito in senso diagnostico-differenziale (spondilodiscoartrosi lombare come sopra definita) e caratterizzato da fenomeni biologici più precoci e/o intensi rispetto a quello/i presentato/i dalla popolazione non lavorativa, tenuto conto delle caratteristiche individuali (costituzione, sesso, età, etc.);

-         la pregressa esposizione in termini significativi per natura, intensità e durata ad uno o più fattori di rischio lavorativo;

-         la relazione tra fattori morbigeni extralavorativi e noxae professionali, che devono aver svolto un ruolo superiore a quello assunto etiopatogeneticamente dai primi.


 

BIBLIOGRAFIA

 

1)          Abenhaim L. et al.: “Risk of recurrence of occupational back pain of three year follow-up” – Br. J. Ind. Med., 1988, n.45

 

2)          Alibrandi G.: “Infortuni sul lavoro e malattie professionali” – Giuffrè, 1988

 

3)          Anderssonn G.B.J.: “Epidemiological aspects on low back pain in industry” – Spine, 1981, n.6

 

4)          Barnes W.S.: “The relationship between maximum isometric strength and intramuscular circulatory occlusion” – Ergonomics, 1980, n.23

 

5)          Berkowitz M.: “Returning injured workers to employment: an international perspective” – ILO, Geneva, 1990

 

6)          Biering-Sorensen F.: “A prospective study of low back pain in a general population: occurrence, recurrence and etiology” – Scand. J. Rahabil. Med., 1983, n.15

 

7)          Bigos S.J. et al.: “A prospective study of work perceptions and psycho socila factors affecting the report of back injury” – Spine, 1991, vol.16, n.1

 

8)          Boshuizen H. et al.: “Self reported back pain in fork-lift truck and freight-containers tractor drivers exposed to whole body vibration” – Spine, 1992, vol.17

 

9)          Burdorf A.: “Reducing random measurements error in assessing postural load on the back in epidemiological surveys” - Scand. J. Work Environ Health, 1995, vol.21, 1

 

 

10)    Burdorf A. et al.: “Positive and negative evidence of risk factors for back disorders” - Scand. J. Work Environ Health, 1997, vol.23, 4

 

11)    Burton A. K. Et al.: "Back injury and work loss. Biomechanical and psychosocial influences" - Spine, 1997, vol.22, 21

 

12)    Camerino D. et al.: “Guida di mezzi pubblici e disturbi alla colonna vertebrale: valutazione soggettiva dei rischi” – Med. Lav., 1997, vol.88, 5

 

13)    Candela V. et al.: “Traumatologia dello sport” – Rhone Poulenc Ed., 1998

 

14)    Colombini D. et al.: “Alterazioni del rachide nei conducenti di automezzi pesanti” – Med. Lav. 1986, vol.77

 

15)    Coste J. Et al.: “Classification of non specific low back pain: clinical diversity of organic forms” – Spine, 1992, vol. 17, n.9

 

16)    Deyo R.A. et al.: What can the history and physical examination tel us about low back pain?” – JAMA 1992, vol. 268, n.6

 

17)    Frank J.W. et al.: “Occupational back pain – an unhelpful polemic” - Scand. J. Work Environ Health, 1995, vol. 21, 1

 

18)    Frank J. W. Et al.: "Disability resulting from occupational low back pain. Part I and part II" - Spine, 1996, vol. 21, 24

 

19)    Hagberg M. et al.: “Work related musculoskeletal disorders (WMSDs): a reference book for prevention” – Taylor & Francis, 1995, 1st ed.

 

 

 

20)    Hemingway H. et al.: “Sickness absence from back pain, psychosocial work characteristics and employment grade among office workers” - Scand. J. Work Environ Health, 1997, vol.23, 2

 

21)    Krause N. et al.: "Occupational disability due to low back pain: a new interdisciplinary classification based on a phase model of disability" - Spine, 1994, vol.19, 9

 

22)    Krause N. et al.: “Psychosocial job factors associated with back and neck pain in public transit operators” - Scand. J. Work Environ Health, 1997, vol.23, 3

 

23)    Jensen M.C.: “Magnetic resonance imaging of the lumbar spine in people without back pain” – N. Engl. J. Med., 1994, n.331

 

24)    Lapadula G.: “Glicosaminoglicani e osteoartrosi” – Ed. Piccin, 1990

 

25)    Lawrence V.A. et al.: “Acute low back pain and economics of therapy: the iterative loop approach” – J. Clin. Epidemiol., 1992, vol.45, n.3

 

26)    “Linee guida regionali per l’applicazione del D. Lgs 626/94” – 1996

 

27)    Malchaire J. B. et al.: "Isometric and dynamic performances of the trunk and associated factors." - spine, 1995, vol.20, 15

 

28)    Mezzetti A. G. et al.: “Elementi pratici di procedura operativa in infortunistica sul lavoro” – Ed. INAIL, 1989

 

29)    Murphy P.L. et al.: "Is occupational low back pain on the rise?" - Spine, 1999, vol.24, 7

30)    Nachemson A.: “Disc pressure measurements” – Spine, 1981, vol.6, n.1

 

31)    Nachemson A.: “Newest knowledge of low back pain” – Clin. Orthop., 1992, 8-20

 

32)    Occhipinti E. et al.: “Attività muscolare e carico articolare: metodi e criteri di valutazione” – Atti Sem. Naz. EPM <Lavoro e patologia del rachide>, Milano, 1989

 

33)    Occhipinti E. et al.: “Messa a punto e validazione di un questionario per lo studio delle alterazioni del rachide in collettività lavorative” - Atti Sem. Naz. EPM <Lavoro e patologia del rachide>, Milano, 1989

 

34)    Ong C.N. et al.: “Musculoskeletal disorders among operators of visual display terminals”- Scand. J. Work Environ Health, 1995, vol.21, 1

 

35)    Pope M.H.: “Risk indicators in low back pain” – Ann. Med. 1989, n.21

 

36)    Pope M.H. et al.: "Low back pain and whole body vibration" - Clin. Orthop., 1998, vol. 354

 

37)    Riihimaki H.: “Hands up or back to work: future challenges in epidemiological research on musculoskeletal diseases” - Scand. J. Work Environ Health, 1995, vol.21, 6

 

38)    Schilbye B. et al.: “Musculoskeletal symptoms among sewing machine operators” - Scand. J. Work Environ Health, 1995, vol.21, 6

 

 

 

39)    Toomingas A. et al.: “Associations between self-rated psychosocial work conditions and musculoskeletal symptoms and signs” - Scand. J. Work Environ Health, Scand. J. Work Environ Health, 1997, vol.23, 2

 

40)    Van der Weide W. E. et al.: “Vocational outcome of intervention for low-back pain” - Scand. J. Work Environ Health, 1997, vol.23, 3

 

41)    Viikari-Juntura E. et al.: "Standardized physical examination protocol for low back pain disorders: feasibility of use and validity of symptoms and signs" - J. Clin. Epidemiol., 1998, vol.51, 3

 

42)    Volinn E.: “Theories of back pain and health care utilization” – Neurosurg. Clin. North Am, 1991, n.2

 

43)    Waddell G.: “Biopsychosocial analysis of low back pain” – Clin. Rheumatol., 1992, n.6

 

44)    Waddell G.: “Low back disability: a syndrome of western civilization” – Neurosurg. Clin. North Am., 1991, n.2

 

45)    Waddell G.: “Epidemiology review: the epidemiology and cost of back pain” – Her Majesty’s Stationery Office, 1994

 

46)    Walsh K. Et al.: “Occupational causes of low back pain” - Scand. J. Work Environ Health, 1989, vol.15

 

47)       Waters T.R. et al.: "Evaluation of the revised NIOSH lifting equation. A cross sectional epidemiologic study" - Spine, 1999, vol.24, 4


 

LE RADICOLOPATIE LOMBARI

 

F. Rossi Espagnet

Consulente Neurologo Centrale INAIL

 

Dal punto di vista anatomico, il plesso lombare è costituito dalle prime quattro radici lombari secondo il seguente schema:

·         La prima radice lombare (L1) si divide nel nervo ileo-ipogastrico (con il contributo di D12) e nel nervo ileo-inguinale;

·         La seconda radice lombare (L2), dopo anastomosi con la prima, si divide nel nervo femoro-cutaneo, nervo genito-crurale, nelle radici superiori del nervo otturatore e del nervo femorale;

·         La terza radice lombare (L3) dà le radici medie del nervo femorale e del nervo otturatore;

·         La quarta radice lombare (L4) dà luogo alle radici inferiori del nervo femorale e del nervo otturatore e si anastomizza con la quinta radice lombare (L5) dando luogo al tronco lombo-sacrale;

·         La quinta radice lombare (L5) dà luogo a tre branche collaterali, da cui originano i nervi addomino-genitali, il nervo genito-crurale ed il nervo femoro-cutaneo, e a due branche terminali, da cui prendono origine il nervo otturatore ed il nervo femorale.

 

Si definisce radicolopatia una sofferenza nervosa periferica che interessi una o più radici nervose. Può essere dovuta a spondiloartrosi o a fenomeni patologici del disco intervertebrale (protrusione, erniazione). Questi ultimi, per ragioni anatomo-funzionali, interessano prevalentemente le radici L4-L5 e L5-S1.

 

 La sofferenza radicolare si manifesta clinicamente con la presenza di diversi sintomi e segni clinici, a seconda della radice interessata e dello stadio evolutivo. Da un punto di vista generale distinguiamo:

-         segni di irritazione (dolore, parestesie, contrattura muscolare, rigidità articolare);

-         segni di compressione (ipotonia e ipotrofia muscolare, deficit di forza, riduzione dei riflessi);

-         segni di interruzione (ipotonia e ipotrofia muscolare fino all’atrofia, paralisi nel territorio radicolare corrispondente, abolizione dei riflessi).

 

         Il dolore lombosciatalgico deve essere accuratamente descritto riportando la positività o meno dei seguenti segni clinici:

-         Delitala (evocato con la pressione digitale profonda sulla doccia paravertebrale);

-         Laségue (con il paziente in decubito dorsale, si afferra il piede dell’arto inferiore malato e a gamba estesa, lo si flette sul bacino);

-         Wassermann (con il malato in decubito prono si flette la gamba sulla coscia e si iperestende quest’ultima);

-         Neri I (al paziente in posizione supina viene flesso improvvisamente il capo sul tronco);

-         Neri II (al paziente eretto, ad arti inferiori divaricati, viene flesso il tronco);

-         Kernig (al paziente sdraiato, con arti inferiori estesi, viene flesso il tronco sulle cosce);

-         Sicard (al paziente sdraiato viene flesso il piede in senso plantare);

-         Roussy e Corni (evocato con l'intrarotazione del piede sulla gamba).

 

Momento centrale dell'esame clinico è in sostanza la formulazione di una diagnosi di livello radicolare, per la quale si dovrà esaminare minuziosamente, nel territorio d'innervazione corrispondente, la sensibilità, lo stato dei riflessi e la forza muscolare.

L1-L2 (L3)

sensibilità: alterata in corrispondenza della regione inguinale, della coscia, del ginocchio;

riflessi:       non alterati;

motilità:      deficit di forza nella flessione della coscia.

L2-L3 (L4)

sensibilità: alterata in corrispondenza della coscia, del ginocchio, della regione mediale della gamba;

riflessi:       non alterati,

motilità:      deficit di forza nell'estensione della gamba e nell'adduzione della coscia.

L4

sensibilità: alterata in corrispondenza della regione mediale della gamba, del malleolo interno;

riflessi:       riduzione/abolizione del rotuleo;

motilità:      deficit di forza nell'estensione della gamba e nella dorsi-flessione del piede.

L5

sensibilità: alterata in corrispondenza della regione laterale della gamba e del dorso del piede;

riflessi:       non alterati;

motilità:      deficit di forza nell'estensione delle dita del piede, alluce compreso.

S1 (plesso sacrale)

sensibilità: alterata in corrispondenza della regione posteriore latero-mediale della coscia, della regione laterale della gamba e della pianta del piede;

riflessi:       riduzione/abolizione dell'achilleo e del medio plantare;

motilità:      deficit di forza nella flessione della coscia sul tronco, nella flessione della gamba sulla coscia e del piede sulla gamba, nella flessione delle dita del piede.

 

Infine, è necessario che lo specialista neurologo, qualora si trovi di fronte ad un paziente con dolore lombosciatalgico, integri l'esame clinico con uno studio neurofisiopatologico al fine di trovare o meno conferma all proprio orientamento diagnostico. Gli acccertamenti strumentali ad oggi ritenuti più utili sia da un punto di vista clinico che medico-legale sono ad oggi l'elettromiografia (EMG) ed i Potenziali evocati somatosensitivi (PESS) degli arti inferiori.

 

ELETTROMIOGRAFIA (EMG)

 

L’indagine elettromiografica ad ago può documentare a riposo una parziale denervazione sotto forma di aumento di attività d’inserzione, potenziali di fibrillazione e potenziali positivi di denervazione, mentre l’attività volontaria può essere caratterizzata da una ridotta attività di unità motorie con occasionale aumento di durata dei singoli potenziali ed aumentata incidenza dei potenziali polifasici. Le velocità di conduzione sono in genere normali, con eventuale modesto rallentamento della V.C.M. nelle radicolopatie croniche di vecchia data.

 

         In caso di sofferenza radicolare le risposte muscolari tardive (onda F e riflesso H*) mostrano latenze aumentate, soprattutto se paragonate a quelle della gamba asintomatica, a dimostrazione che esiste un deficit di propagazione nei settori più prossimali delle fibre che governano il nervo tibiale. Nei casi gravi il riflesso H è totalmente assente e corrisponde all’impossibilità clinica ad elicitare il riflesso achilleo.

 

POTENZIALI EVOCATI SOMATOSENSITIVI (PESS) DEGLI ARTI INFERIORI

 

I PESS del nervo SPI, come la maggioranza delle altre metodiche utilizzate (EMG, onda F, riflesso H) risultano inalterati se non vengono obiettivati deficit sensitivo-motori. Nei pazienti con una multiradicolopatia lombo-sacrale possiamo comunque avere un aumento dell'interpicco PG-N22 (indicativo di un ritardo di conduzione prossimale e di un danno prevalentemente mielinico) o una destrutturazione morfologica o assenza delle risposte evocate spinali (indicative di un blocco di conduzione o di una grave assonopatia).

 


 

LA DIAGNOSI RADIOLOGICA DELLA SPONDILO-DISCO-ARTROSI

O. Michelini, M. Caulo, G. Spacca*, C. Masciocchi

Dip. Diagnostica per Immagini, ASL-Università L’Aquila

* Servizio di Riabilitazione, ASL L’Aquila

 

LE METODICHE DI INDAGINE

 

La radiologia convenzionale rappresenta la tecnica di esame fondamentale per lo studio dell’apparato scheletrico e, il più delle volte, è sufficiente da sola per formulare una corretta diagnosi. La naturale radioopacità del tessuto osseo, legata alla presenza di un’alta concentrazione di sali minerali ad elevato numero atomico, ne consente la facile evidenziazione con questa tecnica, essendo il tessuto osseo ben differenziato dalla cartilagine, dalle strutture fibrose e dai tessuti molli circostanti. Inoltre con l’esame radiografico è possibile valutare non solo la morfologia dell’osso, ma anche la sua organizzazione strutturale in osso compatto e osso spongioso, potendo così evidenziare quelle lesioni che determinano alterazioni della forma e/o della struttura normale dell’osso. Nella maggior parte dei casi è sufficiente eseguire l’esame radiografico nelle due proiezioni ortogonali, ma a volte essendo l’immagine radiografica un’immagine sintetica planare di una struttura tridimensionale è necessario ricorrere a proiezioni oblique in grado di sproiettare determinate formazioni che si andrebbero a sovrapporre, mascherandosi a vicenda, nelle proiezioni ortogonali standard.

 

La tomografia assiale computerizzata (TC) invece, grazie alla sua elevata risoluzione spaziale e alla buona risoluzione di contrasto, consente la visualizzazione, oltre che della componente scheletrica e del suo stato di mineralizzazione, anche delle strutture cartilaginee, capsulo-legamentose e muscolo-tendinee. Risulta pertanto molto utile nello studio della patologia articolare e della patologia traumatica dell’osso, soprattutto in caso di traumi particolari e complessi. La possibilità di ottenere ricostruzioni tridimensionali delle scansioni assiali acquisite ha aumentato di molto le potenzialità diagnostiche di questa tecnica soprattutto nell’ambito della patologia traumatica e tumorale dell’osso.

 

La risonanza magnetica nucleare (RM) possiede infine una ottima risoluzione spaziale e di contrasto ed offre la possibilità di effettuare scansioni multiplanari; pertanto viene attualmente considerata come un’indagine con enormi potenzialità nella diagnostica osteo-articolare. L’immagine RM dell’osso è interamente dovuta al midollo osseo in esso contenuto: l’osso spugnoso e ancor più quello compatto, essendo privi di protoni liberi ed avendo una struttura piuttoto rigida e ripetitiva non contribuiscono al segnale e pertanto vengono rappresentati come aree di assenza di segnale e quindi neri. La RM viene utilizzata con successo nello studio della maggior parte delle articolazioni, con buona valutazione dei costituenti articolari, soprattutto delle strutture legamentose. Ruolo sempre più importante sta acquisendo la RM nello studio delle lesioni muscolari. Ogni mutamento di tipo acuto o cronico della composizione del tessuto muscolare può risultare in un’alterazione dell’intensità di segnale all’indagine RM. I vari tipi di sequenze utilizzabili per lo studio della patologia muscolare consentono quasi sempre di formulare una corretta diagnosi.

 

LA DIAGNOSI RADIOLOGICA

 

La semeiotica radiografica dell’artrosi vertebrale contempla una notevole varietà di quadri che vanno dalla sclerosi, alla presenza di geodi, alla produzione di osteofiti e, estendendo il concetto alla disco-artrosi, ai processi di degenerazione discale ed alla patologia erniaria. Ad una tale varietà di quadri si è tentato di riferire un unico movente patogenetico che è stato riassunto in due differenti teorie: quella biochimica e quella biomeccanica (anche detta del sovraccarico funzionale).

 

La sintomatologia clinica dell’artrosi delle grandi articolazioni è caratterizzata generalmente da dolore ed impotenza funzionale. Nel caso dell’artrosi vertebrale i sintomi sono inoltre correlati anche agli stretti rapporti anatomici che la colonna vertebrale contrae con strutture anatomiche vascolari e nervose. Per questo motivo la clinica dell’artrosi vertebrale si arricchisce di dati determinati dal conflitto tra vasi arteriosi (arterie vertebrali) e strutture nervose (radici spinali, midollo spinale) con i processi artrosici.

 

La gravità clinica dell’artrosi vertebrale non è sempre strettamente correlabile alla “quantità” dei processi degenerativi ma spesso va valutata considerando la localizzazione e la “strategicità” di questi. Il concetto di “strategicità” è senza dubbio una acquisizione “antica” in radiologia, ma soprattutto oggi riveste un ruolo fondamentale in radiodiagnostica, grazie alle possibilità che offrono la TC e la RM di effettuare studi a spessore di strato sottile e addirittura (RM) su diversi piani dello spazio, in modo da poter stabilire con esattezza i rapporti che i fenomeni degenerativi artrosici contraggono con le strutture anatomiche circostanti.

 

Ad esempio, nel caso di un piccolo osteofita che origini dal muro posteriore di un corpo vertebrale o da un’articolazione interapofisaria e che impegni un forame di coniugazione, questo è in grado di dare una sintomatologia dolorosa e funzionale importante pur essendo lesione di piccole dimensioni che qualora localizzata a livello del muro vertebrale anteriore non avrebbe avuto alcun significato clinico (Fig.1). Con la RM e soprattutto la TC, è possibile evidenziare anche piccole formazione osteofitosiche e giustificare un quadro clinico di irritazione radicolare. Lo studio radiologico deve pertanto essere quantitativo ma soprattutto qualitativo nel caso dell’artrosi vertebrale e deve costantemente ricercare la correlazione tra il dato clinico e quello dell’immagine.

 

Le tecniche e le metodiche radiologiche oggi disponibili permettono di diagnosticare facilmente la patologia artrosica vertebrale e di seguirne nel tempo i processi evolutivi.  La crescente attenzione nei confronti dei “costi” delle procedure diagnostiche indirizza il radiologo verso l’utilizzo di procedure il più possibile “economiche”. La radiologia tradizionale permette di effettuare una corretta diagnosi di artrosi vertebrale, ma non sempre è in grado di offrire informazioni tali da consentire la creazione di un esatto correlato clinico-radiologico né è oggi possibile accettare per la diagnosi della patologica spondilo-disco artrosica il ricorso a metodiche obsolete (ad es. la tomografia) o invasive quali la saccoradiculografia, la febografia epidurale e la discografia.

 

Il radiogramma convenzionale resta il primo atto diagnostico nello studio dell’artrosi vertebrale ma, qualora il giudizio clinico lo richieda, deve essere integrato con metodiche di diagnostica “pesante” quali la TC e la RM.

Tradizionalmente in radiologia si distinguono nell’artrosi vertebrale segni generici e segni specifici. Tra i segni generici ricordiamo la riduzione dello spazio intersomatico, la sclerosi ed irregolarità delle lamine vertebrali, l’osteofitosi vertebrale, la sclerosi ed irregolarità delle faccette articolari interapofisarie (Fig. 2).

 

Gli aspetti radiologici specifici di artrosi vertebrale vengono divisi in aspetti tipici di discopatia e quelli tipici della stenosi del canale. I segni tipici di discopatia sono:

-        nodi di Schmorl (si tratta di ernie intraspongiose che originano dalle limitanti somatiche inferiore o superiore di un corpo vertebrale)

-        segno di Harris-Mc Nab (in proiezione A-P e L-L si apprezza asimmetrica riduzione di altezza dello spazio intersomatico)

-        fenomeno di Knutsson  (presenza di stria di densità gassosa nello spazio intersomatico)

-        spondilolistesi degenerativa.

 

I segni tipici della stenosi del canale vertebrale sono a loro volta suddivisi per le forme congenite e per quelle acquisite:

CONGENITE: rapporto interapofisario-somatico <50% e accorciamento peduncoli <1,5cm;

ACQUISITE: osteofitosi, ipertrofia delle faccette articolari delle articolazioni interapofisarie, ipertrofia dei legamenti gialli

 

Un cenno particolare merita la spondilolistesi degenerativa che va differenziata dalla forma congenita, in quanto in quest’ultima sono interrotti gli istmi peduncolari. Per diagnosticare una spondilolistesi è spesso necessario effettuare dei radiogrammi funzionali. Nella massima flessione infatti si accentua o compare lo scivolamento del corpo vertebrale cui solitamente si associa una riduzione in ampiezza del forame di coniugazione con conseguente conflitto radicolare; questa evenienza risulta ancora più probabile qualora coesistano osteofiti “strategici” aggettanti nel forame di coniugazione.

 

Pur essendo la semeiotica radiologica dell’artrosi la stessa per tutti i distretti rachidei, alcuni distinguo vanno effettuati.

 

La cervico-artrosi è una entità patologica molto comune dopo i 40 anni. In questo distretto l’esplorazione radiologica richiede una tecnica in grado di studiare tre differenti sistemi articolari dei quali due comuni agli altri distretti rachidei: articolazioni interapofisarie e discosomatiche e un sistema articolare peculiare del tratto cervicale: articolazioni unco-vertebrali. L’artrosi interapofisaria interessa prevalentemente il tratto C3-C5 ed è caratterizzata radiologicamente da riduzione dello spazio intersomatico, sclerosi dell’osso subcondrale e deformazione osteofitosica marginale dei contorni. Nel caso della spondilosi la deformazione osteofitica interessa gli spigoli somatici. L’artrosi unco-vertebrale è caratterizzata dal riscontro di apposizioni osteofitosiche a livello degli apici dei processi uncali che appaiono slargati (slargamento a fungo) o inclinati verso l’esterno. Ai fini clinici sono importanti le degenerazioni artrosiche delle articolazioni interapofisarie che possono determinare impegno del canale di coniugazione e conseguente conflitto radicolare e la degenerazione artrosica delle articolazioni uncovertebrali che può determinare compressione a livello dell’arteria vertebrale anche se nell’insufficienza vertebro-basilare la cervico-artrosi giuoca un ruolo ancillare (15% dei casi). A livello del tratto dorsale l’artrosi è un’evenienza patologica rara dovuta alla rigidità della gabbia toracica che impedisce che si abbiano osteofitosi ad estrinsecazione nel canale vertebrale o degenerazioni discali con protrusioni. Nel tratto toracico, più spesso che altrove, l’artrosi dei corpi vertebrali si esplica prevalentemente sul versante anteriore dei corpi vertebrali data la presenza della cifosi fisiologica e pertanto è scarsamente sintomatica e quindi spesso misconosciuta.

 

Lo studio della spondilo-artrosi mediante TC consente di evidenziare numerosi aspetti peculiari della malattia. La sclerosi delle limitanti somatiche appare come un aumento di spessore e di densità della corticale mentre l’osteofitosi si presenta con protuberanze ossee ben visibili poste in continuità con l’osso vertebrale. Facilmente evidenziabili con lo studio TC sono i fenomeni degenerativi delle strutture legamentose: tali fenomeni sono dovuti a deposizioni di sali di calcio e si presentano sui radiogrammi TC come lamelle di densità elevata che seguono per tratti più o meno brevi più frequentemente il decorso del legamento longitudinale posteriore. Le ernie di Schmorl hanno alla TC un aspetto caratteristico ed appaiono come lacune ipodense circondate da un orletto sclerotico (Fig.3). Le modificazioni degenerative delle faccette interapofisarie sono caratterizzate da riduzione dello spazio articolare, fenomeni di vacuum e presenza di formazioni pseudo-cistiche. A questo quadro si associano quasi sempre alterazioni ossee che vanno dalla sclerosi delle faccette alla produzione di grossolani osteofiti.

I fenomeni degenerativi disco-somatici sono estremamente comuni a carico del tratto lombo-sacrale ed aumentano con il progredire dell’età.

 

Per quanto riguarda la patologia discale, questa inizia con un processo degenerativo caratterizzato da una progressiva disidratazione e trasformazione fibrosa del disco intersomatico che porta alla fine ad una perdita di continuità dell’anulus fibroso con conseguente possibile erniazione del nucleo polposo attraverso la fissurazione.

 

Circa 1/3 della popolazione sessantenne è affetta da ernia discale. Il 90% delle ernie discali sono localizzate a livello lombare distale (L4-S1), mentre più rare sono le ernie cervicali che però sono nella maggior parte di origine traumatica e non degenerativa. Il tratto di rachide cervicale maggiormente interessato dalla patologia erniaria è quello C5-C7. La TC, la RM e la mielografia presentano stessi valori di sensibilità nella diagnosi di patologia erniaria. Nei pazienti con ernia discale lo studio mielografico evidenzia un difetto di riempimento extradurale, la dislocazione e rigonfiamento della radice spinale. L’immagine TC evidenzia, nel caso di ernia discale, una massa di tessuto che protrude in direzione del canale vertebrale e che disloca il grasso epidurale ed il sacco durale posteriormente. Con la RM la patologia erniaria viene solitamente studiata sul piano di scansione assiale e su quello sagittale. L’ernia discale in questo modo viene ben evidenziata come pure vengono evidenziati i rapporti che questa contrae con le strutture anatomiche viciniori (Fig.4). I piani di scansione sagittali paramediani permettono di identificare con facilità i forami di coniugazione per valutare un eventuale impegno di uno o entrambi questi. In alcuni casi il materiale discale può superare le fibre più periferiche dell’anulus fibroso (fibre di Sharpey) e il legamento longitudinale posteriore e migrare in direzione craniale o caudale all’interno del canale vertebrale. In questo caso si parla di ernia discale espulsa e anche in questo caso sia la TC che la RM che la mielografia possono esprimere un corretto giudizio diagnostico.

 

Generalmente la diagnosi di ernia viene oggi effettuata mediante esame TC e/o RM. Esistono delle indicazioni all’uso di una metodica piuttosto che un’altra a parità, come abbaiamo detto, di sensibilità nella diagnosi di ernia discale. Il dato a favore dell’utilizzo della RM consiste nella capacità da parte di questa metodica di esprimere un giudizio diagnostico sulla compressione e compromissione del midollo spinale da parte di un’ernia discale o di un osteofita che protrudano in direzione del canale vertebrale nel tratto cervico-dorsale. Le sequenze T2-dipendenti, condotte su piani di scansione sagittali ed assiali sono in grado di rilevare la presenza di aree di alterato segnale a livello midollare che indicano una sofferenza ischemica dovuta a compressione dell’arteria spinale anteriore. La condizione di sofferenza midollare va necessariamente sempre ricercata in caso di compressioni da parte di osteofiti o di ernie discali e pertanto lo studio RM risulta assolutamente imprescindibile nel tratto di colonna cervicale e dorsale.

Di particolare importanza nel campo della diagnostica per immagini in infortunistica è la possibilità che offre la RM di stabilire la cronologia di una ernia discale permettendo di distinguere le ernie discali “acute” da quelle inveterate. Il riscontro nelle sequenze T2-dipendenti di alta intensità di segnale a livello dell’ernia discale depone per la presenza di una quota di edema che risulta tipica delle ernie “acute”, al contrario il riscontro di bassa intensità di segnale è segno di avvenuti fenomeni fibrotici che depongono per una condizione di cronicità.

 

In alcuni casi di quadri degenerativi della colonna la RM mostra dei limiti diagnostici nella capacità di differenziare una compressioni dovuta ad una ernia discale o ad un osteofita. In questi casi l’integrazione TC-RM risulta indispensabile ai fini di una corretta diagnosi (Fig.5).

 

Altro limite imposto alla RM è quello di riconoscere la presenza di una componente di metaplasia ossicalcifica all’interno di un’ernia discale. Questo riscontro è al contrario facilmente evidenziabile con lo studio TC (Fig.6).

 

In conclusione, se nello studio dei tratti cervicali e dorsali la RM si impone come esame di scelta, nella valutazione del tratto di rachide lombare la TC riveste ancora un ruolo diagnostico importante anche in considerazione della maggiore diffusione sul territorio di apparecchiature TC rispetto a quelle RM e del minor costo dell’esame.

 

 

 


 

* Onda F: si riscontra nei muscoli flessori del piede durante la stimolazione del nervo tibiale al malleolo interno. E' riscontrabile durante la stimolazione sovramassimale di un nervo misto (20-40 msec dopo la risposta M) e viene utilizzata per avere indicazioni sulla propagazione nervosa lungo i settori piu prossimali di nervi periferici (plessi, radici). La differenza tra i due arti inferiori non supera i 3 msec, tra i due superiori i 2 msec.

Riflesso H: durante la registrazione dal muscolo soleo con stimolazione del nervo al poplite. E’ così denominato dal nome del suo scopritore: Hoffman. Il riflesso è caratterizzato dalla comparsa di una risposta muscolare tardiva, intorno ai 30 msec, in seguito a stimolazione elettrica delle fibre afferenti di grosso calibro (con impulsi di lunga durata, circa 1 msec e d’intensità intorno alla soglia di elicitazione dell’onda M). Rappresenta il corrispettivo elettrofisiologico del riflesso miotatico.