Lo Schema di testo
unificato per i disegni di legge n. 122 e connessi in materia di tutela
dei lavoratori dal fenomeno del mobbing rappresenta un progetto di
grande interesse, che rende maggiormente articolato e meglio esigibile
l'obbligo di prevenzione generale (ed è auspicabile una sua approvazione
in termini rapidi), e direttamente contrattuale, di ogni forma di
molestia sul luogo di lavoro ai danni dei lavoratori, già previsto in
linea di principio dall'art. 2087 del codice civile, nel contesto del
principio della massima sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale
concretamente attuabile.
Da tale articolo già oggi "è agevole desumere a carico del datore di lavoro l'esistenza di un obbligo primario e di un obbligo strumentale, essendo al suddetto datore di lavoro, innanzi tutto, vietato di porre in essere quei comportamenti commissivi dai quali possa derivare la lesione dei beni garantiti (dalla medesima disposizione di legge e dagli articoli della Costituzione sopra indicati) e, inoltre, essendogli fatto obbligo di predisporre quelle cautele che valgono a tutelare i beni in questione". In tal senso "il contenuto dell'obbligo previsto dall'art. 2087 c.c. non è circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, cosiddetta protettiva, che statuisce precisi adempimenti positivi tramite l'adozione di misure adatte al caso concreto, ma soprattutto richiede che non venga posto in essere un comportamento che violi il diritto alla integrità psicofisica del lavoratore; l'esistenza di tale comportamento, infatti, in quanto determinato da dolo o da colpa e attuato nel luogo e durante l'orario e il compimento dell'attività di lavoro, costituisce di per sè fonte di rispettabilità contrattuale per il datore di lavoro, integrando lo stesso un adempimento della suddetta obbligazione primaria prevista dalla legge (oltre che dei doveri di buona fede e di correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., giustamente pure indicati nel ricorso)" (Cassazione civile sez. lav., 17 luglio 1995, n. 7768, Rossi e altro c. Felici, in Giust. civ. Mass. 1995,1385; Mass. giur. lav. 1995, 561 con osservazioni di Riccardi, Notiziario giur. lav. 1995, 740). In questi casi, però, oltre alle disposizioni che prevedono responsabilità di carattere civilistico, come avverrà in modo ancora più ampio dopo l'entrata in vigor edella nuova legge sul mobbing, potranno risultare applicabili, per esempio, l'art. 590 del codice penale che sanziona, con previsione generale, chi cagiona per colpa una lesione personale ad altri soggetti (art 590 cp, lesioni personali colpose) o l'art 594 del codice penale che punisce l'offesa all'onore o al decoro di una persona presente, anche quando l'ingiuria è commessa attraverso comunicazione telefonica o scritta. Reati, di competenza del giudice unico, perseguibili a querela di parte. Dunque i principali articoli cui fare riferimento sono: - l'art. 590 c.p., lesioni personali colpose, che sanziona, con previsione generale, chi cagiona per colpa una lesione personale ad altri soggetti; - l'art. 610 c.p., violenza privata, che sanziona chi, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa; - l'art. 594 c.p., ingiurie, che punisce l'offesa all'onore o al decoro di una persona presente, anche quando l'ingiuria è commessa attraverso comunicazione telefonica o scritta; - l'art. 595 c.p., diffamazione, che punisce il comportamento di chi lede la reputazione di un soggetto; - gli artt.609 bis c.p e segg., violenza sessuale, che puniscono varie tipologie di comportamenti che violano la libertà sessuale della vittima; - oltre a tutte le sanzioni nelle quali può incappare il datore di lavoro per violazione delle disposizioni di tutela della sicurezza e salute del lavoratore di cui al D.Lgs. 626/1994. Va ricordato poi l'art. 571 del Codice penale, - Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina - ai sensi del quale: Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni. E, analogamente, l'art. 572 - Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli - del codice penale che prevede che: Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni. Infine, e la sentenza che segue ne rappresenta una interessante applicazione, va ricordato l'art. 610 - Violenza privata - del codice penale ai sensi del quale "chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall'articolo 339".
La tutela penale in materia di mobbing (2/2)
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Articolo a cura di Rolando Dubini,
avvocato in Milano. "La Corte di Cassazione, con l'importante sentenza n.10090
del 12 marzo 2001 [...], ha affrontato in modo specifico il tema dei
maltrattamenti e della violenza privata, costitutive del mobbing..."
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La prima parte dell’articolo è stata pubblicata
sul numero di ieri di PuntoSicuro.
[…]
La Corte di Cassazione, con l'importante sentenza n.10090 del 12 marzo 2001
(Sezione Sesta Penale - Presidente L. Sansone - Relatore T. Garribba) ha
affrontato in modo specifico il tema dei maltrattamenti e della violenza
privata, costitutive del mobbing.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con sentenza dell'1 febbraio 1999 la Corte d'appello di Milano confermava le
condanne alle pene di anni cinque e anni quattro di reclusione rispettivamente
inflitte dal pretore a E.O. e C.C., dichiarati colpevoli:
- il primo, dei reati continuati di cui agli artt. 572 e 610 cod. prn., per
avere, quale capogruppo responsabile di zona per le vendite porta a porta di
prodotti per la casa per conto della ditta gestita da C.C., maltrattato, con
atti di vessazione fisica e morale, alcuni giovani sottoposti alla sua autorità
nello svolgimento dell'attività lavorativa e, inoltre, per avere, con i medesimi
atti di violenza fisica e morale, costretto i predetti giovani a intensificare
l'impegno lavorativo oltre ogni limite di accettabilità;
- il secondo, del reato continuato di cui all'art. 610 cod. pen., per avere,
quale titolare della ditta predetta, avvalendosi del clima di intimidazione
creato dai suoi capigruppo e omettendo di reprimere i loro eccessi, costretto
gli anzidetti giovani ad aumentare l'impegno lavorativo oltre il tollerabile.
Avverso tale sentenza entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per
cassazione.
2. E. denuncia violazione della legge penale e vizio di motivazione:
1. in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di maltrattamenti,
deducendo: a) l'insussistenza di un elemento costitutivo del reato, perché il
rapporto di lavoro non può essere assimilato al rapporto di convivenza familiare
previsto dall'art. 372 cod. pen.; b) che non sarebbe stato provato il dolo,
perché gli isolati episodi di violenza sarebbero stati commessi con dolo
d'impeto;
2. in ordine al reato di violenza privata, deducendo che non sarebbe stata
dimostrata la pretesa coazione, dato che i giovani erano assolutamente liberi di
interrompere il rapporto di lavoro quando l'avessero voluto;
3. in ordine alla pena inflitta, lamentando che essa sarebbe eccessiva non
essendosi tenuto conto della condotta positiva susseguente al reato.
2.1. Cominciando dall'esame del primo motivo, si osserva che, anche se l'ipotesi
di reato di più frequente verificazione è quella che dà il nome alla rubrica
dell'art. 572 cod. pen. ("maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli"), la
norma incriminatrice prevede altresì le ipotesi di chi commette maltrattamenti
in danno di "persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni
di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una
professione o di un'arte". Si tratta di ipotesi di reato, in questi ultimi casi,
in cui non è richiesta, a differenza della prima, la coabitazione o convivenza
tra il soggetto attivo e quello passivo, ma solo un rapporto continuativo
dipendente da cause diverse da quella familiare.
Venendo al caso in esame, non v'è dubbio che il rapporto intersoggettivo che si
instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato
dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei
confronti del lavoratore dipendente, pone quest'ultimo nella condizione,
specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di "persona
sottoposta alla sua autorità", il che, sussistendo gli altri elementi previsti
dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di
maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente.
Vi è da aggiungere che nel caso di specie il rapporto interpersonale che legava
autore del reato e vittime era particolarmente intenso, poiché, a parte il
contatto quotidiano dovuto a ragioni di lavoro, nel corso delle lunghe
trasferte, viaggiando su un unico pulmino, consumando insieme i pasti e
alloggiando nello stesso albergo, si realizzava tra le parti un'assidua
comunanza di vita.
Ma l'aspetto saliente della presente vicenda sta nel fatto diffusamente
illustrato dai giudici del merito - che l'imputato, con ripetute e sistematiche
vessazioni fisiche e morali, consistite in schiaffi, calci, pugni, morsi,
insulti, molestie sessuali e, non ultima, la ricorrente minaccia di troncare il
rapporto di lavoro senza pagare le retribuzioni pattuite (minaccia assai
cogente, dato che il lavoro era svolto in mero e le retribuzioni venivano
depositate su libretti di risparmio intestati ai lavoratori, ma tenuti da datore
di lavoro), aveva ridotto i suoi dipendenti, tra i quali una minorenne, in uno
stato di penosa sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a
sopportare ritmi di lavoro forsennati, essendo il profitto dell'impresa
direttamente proporzionale al volume delle vendite effettuate.
Ne risulta, dunque, una serie di atti volontari, idonei a produrre quello stato
di abituale sofferenza fisica e morale, lesivo della dignità della persona, che
la legge penale designa col termine di maltrattamenti.
Per quanto attiene poi all'elemento psicologico del reato, la sentenza impugnata
ha posto in rilievo non soltanto la sussistenza del dolo, concretatosi nella
coscienza e volontà di ledere in modo abituale l'integrità fisica e morale dei
soggetti passivi, ma anche il movente - individuato nella ricerca del massimo
profitto - che, al di là di ogni dubbio, prova il disegno sottostante ai singoli
fatti di violenza e minaccia, che risultano quindi cementati da una volontà
unitaria e persistente, che va oltre il singolo episodio.
Il motivo di ricorso è quindi infondato.
2.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato, dato che la sentenza
impugnata, proprio per rispondere alla deduzione difensiva già proposta con i
motivi d'appello, ha spiegato che l'asserita libertà delle vittime, di
licenziarsi in qualsiasi momento l'avessero voluto, era puramente apparente,
perché, atteso il meccanismo del pagamento posticipato delle retribuzioni e del
deposito delle relative somme, su libretti di risparmio trattenuti dal datore di
lavoro, esse temevano che, andandosene, si sarebbe verificato quanto era stato
loro minacciato, cioè la perdita delle retribuzioni già maturate.
2.3. È manifestamente infondato anche il terzo motivo, perché il giudice di
merito ha indicato a quali dei parametri elencati dall'art. 133 cod. pen. si è
attenuto nell'esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena
(la gravità dei fatti, la durata nel tempo della condotta delittuosa, il numero
degli episodi e delle vittime), e tale scelta, essendo adeguatamente motivata,
non è censurabile in sede di legittimità.
2.4. Con motivo nuovo presentato ai sensi dell'art. 585 comma 4 cod. proc. pen.,
la difesa del ricorrente E. denuncia altro profilo di violazione della legge
penale, sostenendo che i fatti contestati avrebbero dovuto essere qualificati
come abuso dei mezzi di correzione e disciplina a mente dell'art. 571 cod. pen.,
perché le violenze e minacce costituivano manifestazione, seppure abnorme, del
potere disciplinare che competeva al ricorrente quale responsabile dell'attività
produttiva delle vittime. Anche questo motivo è palesemente infondato.
L'abuso punito dall'art. 571 cod. pen. ha per presupposto logico necessario
l'esistenza di un uso lecito dei poteri di correzione e disciplina, e quindi si
verifica quando l'uso è effettuato fuori dei casi consentiti o con mezzi e
modalità non ammesse all'ordinamento.
Venendo al caso concreto, si rammenta che lo Statuto dei lavoratori ha bandito
ogni ricorso alla violenza da parte del datore di lavoro nei confronti del
lavoratore subordinato, per cui le violenze nella fattispecie commesse non
possono rientrare nella previsione dell'art. 571 cit..
Non solo, ma alla sussunzione dei fatti nella fattispecie legale prevista
dall'art. 571 osta la finalità perseguita dagli autori del reato nell'esercizio
del preteso jus corrigendi. Come hanno rimarcato i giudici del merito, gli
imputati perpetrarono sui giovani dipendenti le vessazioni fisiche e morali
sopra descritte, non come punizione per l'erronea esecuzione del lavoro o per
episodi di indisciplina o per altri fatti inerenti al corretto svolgimento
dell'attività lavorativa, ma per costringerli a sopportare ritmi di lavoro
altrimenti intollerabili, riducendoli di tal guisa in una condizione di
sfruttamento di tipo schiavistico. la condotta afflittiva posta in essere dagli
imputati non perseguiva dunque il fine educativo-correttivo che deve
contraddistinguere l'uso dei mezzi di correzione, ma mirava soltanto a scopi di
lucro personale.
Il ricorso di E. deve dunque essere rigettato.
3. C. denuncia mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla
ritenuta colpevolezza, sostenendo che non sarebbe stata fornita la dimostrazione
ch'egli sapesse o incoraggiasse la condotta illecita dei suoi capigruppo, ché,
anzi, sarebbe risultato che, ogni qualvolta fu informato dei loro eccessi, egli
intervenne per reprimerli. Si duole infine dell'entità della pena irrogata e del
diniego delle circostanze attenuanti generiche.
3.1. Il ricorrente C. è stato ritenuto colpevole del reato di violenza privata
continuata in applicazione del principio stabilito dall'art. 40 cod. pen.,
secondo cui non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire,
equivale a cagionarlo. Infatti - argomenta la sentenza impugnata - egli, quale
imprenditore, era tenuto in forza del disposto di cui all'art. 2087 cod. civ.
"ad adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro", per cui, omettendo di porre fine alle
vessazioni attuate dai capigruppo sui lavoratori dipendenti, se ne rese
corresponsabile.
Quanto al dolo, la Corte di merito, con motivazione coerente con le risultanze
probatorie e logicamente ineccepibile, ha spiegato che il ricorrente era
perfettamente consapevole dei metodi vessatori usati dai capigruppo (e anzi li
condivideva, essendo personalmente interessato al massimo sfruttamento dei
dipendenti, i cui libretti di deposito tratteneva a fini ricattatori), e,
sebbene ripetutamente sollecitato dalle povere vittime a intervenire, nulla
aveva fatto per reprimere o interrompere la condotta antigiuridica dei
capigruppo.
Le censure sollevate dalla difesa su questo punto sono dunque infondate, al pari
di quelle concernenti il diniego delle circostanze attenuanti generiche
(peraltro concesse dal primo giudice) e la misura della pena inflitta, che il
giudice d'appello ha ritenuto di confermare, sottolineando, con valutazione
discrezionale insindacabile, la notevole gravità dei fatti.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte di Cassazione rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in
solido delle spese processuali.