Quando dal mobbing si passa al bullyng il reato è quello di maltrattamenti

 

 


“Quando dal mobbing si passa al bullyng il reato è quello di maltrattamenti”
Di V.P.


Il fenomeno è nuovo per le aule di giustizia, ma non lo è certamente per la realtà dei luoghi
di lavoro.
E’ stato etichettato, con un termine di derivazione anglosassone “mobbing” (dall’inglese to
mob che significa attaccare, assalire) e consiste in continuate vessazioni, pressioni, angherie
e violenze talvolta fisiche, ma il più delle volte soltanto morali e psicologiche, cui sono
sottoposti taluni lavoratori. Alcuni lo definiscono come una forma di terrore psicologico,
caratterizzato dalla ripetizione protratta nel tempo, esercitata sul luogo di lavoro, da parte di
un superiore o di colleghi di lavoro singoli o in gruppi, con lo scopo di isolare, emarginare
o eliminare un lavoratore ritenuto scomodo.
E’ il fenomeno corrispondente, sul luogo di lavoro, al bullismo tra gli studenti e al
nonnismo in caserma. Studi in campo europeo, cominciati negli anni Ottanta, hanno stimato
in oltre l’otto per cento i lavoratori che nel vecchio continente sono stati oggetto, per
periodi più o meno lunghi, di intimidazioni o soprusi da parte di colleghi o superiori.
Tradotto in numeri significa che i mobbizzati in Europa sono stati circa dodici milioni.
In Italia, dove il fenomeno è stato studiato solo negli ultimi dieci anni, vi sarebbero
coinvolti il 4,2 per cento dei lavoratori, vale a dire un milione e mezzo di persone, l’ottanta
per cento circa delle quali di sesso femminile..
Tra i settori maggiormente interessati vi sono quello bancario (dove si toccherebbero punte
del 18 per cento degli addetti) e quello sanitario, in cui i soggetti maggiormente coinvolti
sarebbero le infermiere.
Non mancano, poi, i casi denunciati nel mondo della scuola, con presidi o colleghi nel ruolo
di mobbers e insegnanti per qualche ragione non graditi nella veste di mobbizzati. O in
quello universitario, soprattutto in campo medico, spesso verso coloro che non rispettano le
regole non scritte delle baronie.
Il mobbing può essere individuale, quando l’azione discriminatoria è rivolta ad un singolo
lavoratore, ovvero collettivo quando sono colpiti interi gruppi di lavoratori (i più giovani,
quelli addetti ad un determinato ufficio, le donne, etc.)
Vittime delle attenzioni fastidiose e continue dei propri colleghi (è il caso del mobbing vero
e proprio o mobbing di tipo orizzontale) o dei propri capi (nel qual caso di parla di bullyng
o di mobbing verticale) sono o lavoratori con qualifiche abbastanza elevate (quali i cd.
quadri) o i lavoratori precari, interinali e a tempo determinato..
Il motivo è presto spiegato: sono i soggetti più facilmente ricattabili in cambio del silenzio.
Si tratta, infatti, nel primo caso di lavoratori fortemente interessati alla progressione in
carriera (e innanzitutto all’approdo a qualifiche dirigenziali), nel secondo caso di lavoratori
non garantiti normativamente e sindacalmente nella conservazione del posto di lavoro.
Tale debolezza viene sfruttata nell’ambiente di lavoro per sottoporre il lavoratore alle
pressioni psicologiche e ai soprusi di cui si è detto. Ecco così che la lavoratrice si trova
costretta a subire commenti sulle rotondità che si evincono dalla camicetta, sulla lunghezza
delle proprie gonne o pesanti allusioni sulle proprie capacità amatoriali. E per chi non è
disposto a subire c’è pronta l’adibizione a mansioni inutili, quali il preparare lettere che non
saranno mai spedite o il redigere progetti che mai nessuno leggerà, o ancora il fare quintali
di inutili fotocopie.
Talvolta il mobbing è addirittura pianificato a livello aziendale ed è posto in essere dalla
direzione del personale nei confronti di dipendenti che si vuole spingere alle dimissioni,
perché ad esempio troppo anziani o non al passo con le nuove tecnologie.(in tal caso si
parla di bossing).
Non è un caso che proprio un caso di presunto bossing ha suscitato per la prima volta
l’interesse della magistratura penale verso il fenomeno del mobbing. E’ avvenuto nel 1998,
quando gli inquirenti si sono occupati del caso di una settantina di impiegati dell’Ilva di
Taranto che, non avendo accettato di trasformarsi in operai, erano stati collocati dalla
direzione aziendale presso la palazzina Laf sede dell’ex laminatoio a freddo, in uffici spogli
e spettrali, a non fare nulla per l’intera giornata.
Raro, ma talora riscontrato, è il caso del “mobbing dal basso”, sia individuale che
collettivo, quando vittima ne è un superiore gerarchico, di cui viene messa in discussione
l’autorità.
Il fenomeno è stato a lungo ritenuto di esclusiva competenza delle scienze psicologiche.
Una prima valenza in campo giuridico gli è stata riconosciuta nel campo del diritto del
lavoro dove, intorno alla fine degli anni novanta, si è registrata qualche interessante
sentenza volta a tutelare il lavoratore che decida di ribellarsi a questo stato di cose.
Si segnalano in tal senso due interessanti pronunce del Tribunale di Torino in funzione di
giudice unico del lavoro di primo grado (16 novembre 1999 nella causa Erriquez contro
Ergom Materie Plastiche S.p.a. e 30 dicembre 1999 nella causa Stomeo contro Zilani
S.p.a.) che ha condannato dei datori di lavoro a risarcire dei dipendenti per non avere
garantito ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. la loro integrità fisio psichica nei confronti di
atti di bullyng posti in essere dai preposti.
La prima tutela contro il mobbing, in campo giuslavorilistico, ha visto dunque condannati
non direttamente i mobbers, ma quei datori di lavoro che avevano il compito di impedire
che questi agissero come tali nelle loro aziende.
Emblematico uno dei due casi sottoposti all’attenzione dei giudici torinesi, di un’operaia
costretta a lavorare ad una stampatrice in un locale angusto, senza alcun contatto con i
colleghi, e a subire le bestemmie e le ingiurie che le indirizzava il caporeparto quando
veniva chiamato per un guasto macchina, che era caduta in una “sindome depressiva di tipo
reattivo con agorafobia”.
Secondo il Tribunale di Torino “Il mobbing …designante in etologia il comportamento di
alcune specie di animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per
allontanarlo, è riscontrabile anche nelle aziende quando si versa in presenza di ripetuti
soprusi da parte dei superiori ed, in particolare, di pratiche dirette ad isolare il dipendente
dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è quello di
intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità
lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora
persino suicidio”.
“Il datore di lavoro -tenuto ex art. 2087 c.c. a garantire l’integrità fisiopsichica dei propri
dipendenti e, quindi, ad impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori
da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti -si legge sempre in
una delle sentenze torinesi- è chiamato a rispondere del risarcimento del danno sofferto (sia
biologico sia da dequalificazione professionale) da liquidarsi in via equitativa, più interessi
legali e trasmissione degli atti di causa alla Procura della Repubblica per le valutazioni e le
eventuali iniziative del caso in relazione a quanto accertato in corso di giudizio”.
I giudici del lavoro hanno poi sempre più spesso riconosciuto tutela al mobbizzato per
l’annullamento delle dimissioni provocate dai continui soprusi subiti o attraverso
l’annullamento delle stesse ex art. 428 cod. civ., dimostrando che le dimissioni erano state
rassegnate in un momento di temporanea incapacità di intendere e di volere, ovvero in base
al disposto degli articoli 1434 e 1438 cod. civ., se si dimostri che le stesse siano state
estorte con violenza o minaccia, anche psicologica.
In sede civile numerose sentenze hanno affermato la risarcibilità del danno da mobbing,
stabilendo che al mobbizzato vadano riconosciuti il danno patrimoniale (come danno alla
capacità produttiva di reddito sia nel senso del danno emergente che del lucro cessante), il
danno biologico e, qualora i comportamenti vessatori integrino una fattispecie di reato, il
danno morale o alla vita di relazione.
Naturalmente il lavoratore che sia vittima di comportamenti persecutori da parte del datore
di lavoro o di colleghi potrà ottenere il risarcimento del cd. danno biologico (ad esempio
derivante da disturbi al sistema nervoso), solo se riuscirà a dimostrare l’esistenza di un
nesso causale tra i comportamenti vessatori subiti e il pregiudizio alla propria salute (così
Cassazione Sezione Lavoro sentenza n. 5491 del 14.12.1999-2.5.2000 Pres: Grieco Est:
Stile Ric: Casarolli ).
Taluni giudici di merito hanno poi riconosciuto alla vittima del mobbing un addizionale
risarcimento del danno, da qualificarsi come danno esistenziale e da liquidarsi in via
equitativa ex art. 1226 cod. civ. (così ad esempio il Tribunale di Forlì in funzione di
Giudice del Lavoro di I grado nella sentenza 23.2.2001-15.3.2001 Est: Sorgi Causa: Mulas
c. BNA ).
Nel caso di una lavoratrice sottoposta da parte di un superiore gerarchico a molestie
sessuali e ad atti di mobbing, che ne avevano determinato le dimissioni per giusta causa, il
Tribunale di Pisa - giudice unico di primo grado (sentenza 3.10.2001-7.10.2001 Est:
Nisticò Causa: Fulceri c. Autogrill e Rigo) ha ritenuto l’esistenza di un danno contrattuale
“esistenziale”, del quale ha ritenuto responsabili in solido il molestatore e il datore di
lavoro ai sensi dell’articolo 2087 cod. civ., e di un danno morale, extracontrattuale,
addebitabile al solo molestatore reo di atti di libidine violenta.
La norma di cui all’articolo 2087 cod. civ. -va ricordato- ha introdotto uno speciale obbligo
di protezione del lavoratore da parte del datore di lavoro ribadito ed esteso dall’articolo 3
del Decreto legislativo 626/94 in materia di sicurezza sul lavoro.
Il fenomeno del mobbing è stato posto anche all’attenzione dei giudici amministrativi.
In una recente sentenza il T.A.R. del Lazio (Sez. 3bis, c.c. del 20.1.2001,
Pres. e Est. Scognamiglio, Ric: Fossatelli c. Ministero della Pubblica Istruzione e altri) ha
annullato una serie di atti amministrativi con i quali era stato disposto, tra l’altro, il
trasferimento di sede di un’insegnante di liceo, affermando non esservi dubbio “che si è in
presenza di una ipotesi di quella situazione ogge detta di mobbing”).
In campo penale, se le vessazioni non si spostano dal piano psicologico e morale a quello
fisico, l’intervento del giudice si è sempre palesato come difficile.
Da anni si discute, infatti, dell’introduzione di una norma incriminatrice che, come accade
in Scandinavia, sanzioni specificamente il mobbing.
A tutt’oggi, però, la gran parte delle pronunce in qualche modo riconducibili al mobbing
sono quelle in cui, essendo le attenzioni verso il lavoratore spintesi sul piano sessuale, si è
potuta ravvisare anche o soltanto la fattispecie dell’abuso sessuale ex art. 609bis c.p.
E’ il caso della sentenza n. 3176/2002 pronunciata dalla IX Sezione del Tribunale di
Napoli (Pres. e Est. Acierno) il 22.4.2002 e depositata l’11.6.2002 pubblicata in queste
pagine.
Il caso all’esame dei giudici partenopei si avvicina ad un caso di mobbing di tipo verticale
(bullying) collettivo, in quanto si è in presenza di un singolo capo che in forma non
episodica pone in essere iniziative vessatorie e persecutorie nei confronti di una serie di
lavoratori (nella specie tutti quelli di sesso femminile).
La fattispecie si discosta invece dal mobbing tipico in quanto i comportamenti dell’uomo
non hanno avuto come scopo quello di eliminare o isolare dei colleghi scomodi, ma più
semplicemente quello di affermare verso l’esterno la personalità maschilista e narcisista
dell’autore.
Quest’ultimo è un dirigente comunale il quale aveva preso di mira tutte le lavoratrici
dell’ufficio, per lo più dipendenti da lui. I giudici partenopei hanno dato credito alle
numerose testimonianze delle persone offese, tutte donne, che hanno ricostruito con
coerenza, lucidità e dovizia di particolari uno sconcertante quadro di vessazioni quotidiane
che erano costrette a subire, che andavano ben oltre la soglia del cattivo gusto o del
gallismo e si palesavano chiaramente come comportamenti delittuosi.
Il comportamento dell’uomo era talmente eclatante che fa pensare come la
denuncia nei suoi confronti da parte delle impiegate sia avvenuta solo molti
mesi dopo l’inizio delle avances, segno evidente del timore che egli era in
grado di incutere sulle vittime, timorose di conseguenze negative per il loro rapporto di
lavoro.
Meraviglia altresì come le segnalazioni interne operate dalle dipendenti ai superiori
dell’imputato non abbiano avuto seguito, indizio inequivocabile delle tacite connivenze di
cui può giovarsi il mobber, soprattutto quando si tratti di un uomo che rivolge le sue
attenzioni alle donne. Il dirigente comunale -come si legge nella sentenza- aveva vari
livelli d’attenzione nei confronti delle sue vittime, evidentemente in virtù del suo maggior o
minore interesse sessuale verso l’una o l’altra donna ovvero del grado di resistenza che egli
credeva potessero opporgli.
C’era così l’impiegata che ogni giorno veniva chiamata più volte nella sua stanza per
ragioni non d’ufficio e che doveva sentirsi rivolgere frasi del tipo “come stai bene vestita
così, vestiti anche domani nello stesso modo” e invitata a dargli del tu. Quella cui veniva
prospettata la possibilità di un lavoro extra (un’indagine Istat) in cambio del proprio
numero di telefono.
O quella che era costretta a subire, nei minimi particolari, il racconto da parte dell’uomo di
sue presunte performances sessuali.
C’era ancora quella che aveva visto l’imputato avvicinarsi alla sua scrivania e, dopo averle
rivolto degli apprezzamenti volgari, seguire con le mani la forma del reggiseno sui lati della
camicetta e sbottonarglielo. O, ancora, la rappresentante sindacale che, pur essendo alle
dipendenze di un altro dirigente, veniva chiamata nel suo ufficio dove l’uomo le diceva di
immaginarla sul letto con i capelli biondi sparsi, aggiungendo espressioni volgari relative
ad un rapporto sessuale.
Alla stessa donna, dinanzi ai colleghi, il dirigente comunale aveva detto -si legge nella
sentenza- che “sarebbero usciti sui giornali perché le avrebbe fatto fare un figlio da dietro”,
al punto che la stessa, ossessionata dal comportamento del superiore, era stata costretta a
ricorrere ad un congedo per malattia. Comune a tutte c’era il dover subire piccole
“toccatine”, con la scusa ad esempio di dover togliere loro un capello dal vestito o con il
fare di chi opera piccoli e affettusi abbracci.
Scrivono i giudici partenopei: “L’imputato con tale atteggiamento riaffermava “erga omnes
“ il suo mancipium” su tutte le donne dell’ufficio, inteso come sottomissione delle stesse al
suo potere di superiore gerarchico, che includeva gli apprezzamenti e i toccamenti lascivi,
come gli faceva ritenere il suo portato culturale e la sua apertura mentale, nonostante che
l’epoca storica ed i suoi rivolgimenti culturali in tema di liberazione della donna datassero
già alcuni decenni.”.
C’erano stati poi i casi più gravi che hanno portato alla condanna dell’imputato per il reato
di violenza sessuale, ritenuto nella forma di minore gravità di cui al terzo comma
dell’articolo 609bis cod. pen. La circostanza che sia stata ritenuta la forma attenuata ha
fatto sì che, pur essendosi i fatti verificati prime dell’entrata in vigore della legge 66/1996,
è stata irrogata all’imputato, per il principio del favor rei, la pena prevista dall’articolo
609bis co.3 cod. pen. (nel caso di specie tre anni di reclusione) e non quella più grave per
gli atti di libidine violenti prevista dall’abrogato art. 520 cod. pen.
Con una delle dattilografe addetta a predisporre le delibere comunali le avances erano,
infatti, andate ben oltre. Quando il dirigente la chiamava nel suo ufficio la faceva
avvicinare con il pretesto di mostrarle qualche punto dello scritto da dattiloscrivere e ne
approfittava per toccarle il sedere o il seno. In un’altra occasione l’aveva invitata a sdraiarsi
con lui sul divano che c’era nella sua stanza e le aveva chiesto un rapporto orale e
ancora, in un altro frangente, dopo averle chiesto un passaggio in macchina, aveva tentato
con la forza di fare l’amore con lei.
Un’altra impiegata ha rivelato ai giudici di essere addetta ad un altro ufficio, ma di essere
chiamata continuamente nel suo ufficio da quel dirigente, che le saltava addosso, la voleva
baciare e le decantava le sue attività amatorie.
La stessa donna aveva dichiarato che il suo superiore in un’occasione l’aveva attirata in un

appartamento vuoto, nel centro città, con il chiaro intento di abusare di lei, ma lei era
scappata via e non vi era ritornata nonostante le minacce dell’uomo che se non vi fosse
salita avrebbe passato “i guai più brutti della sua vita”.
Da un punto di vista giuridico, tali ultimi casi -certamente in fatto di un’inaudita gravità-
sono i meno interessanti.
Pare evidente, infatti, che essi rientrano a buon titolo tra gli atti di violenza sessuale,
consumata o tentata a seconda dei casi, puniti come tali a norma dell’articolo 609bis cod.
pen.
Non siamo di fronte, dunque, come ha ritenuto lo stesso Tribunale di Napoli, a casi di
mobbing.
Un’attività di mobbing era invece certamente quella posta in essere dal dirigente comunale
napoletano allorquando -come scrivono i giudici- poneva in essere le sue “tecniche
collaudate” quali quella di agitare il medio sotto il palmo della mano della dipendente,
nell’atto di stringere la mano, di togliere peli inesistenti guarda caso sempre posizionati sul
seno delle donne del suo ufficio, di sottoporre quotidianamente le dipendenti ai suoi
apprezzamenti volgari, alle sue allusioni pesanti, al suo fraseggio sboccato, agli inviti più o
meno espliciti a fare l’amore, “tutti espresione di una personalità narcisista, maschilista e
meschina, che prestava attenzione a che i suoi “giochini” non fossero conosciuti all’esterno
ed in particolare dai vertici dell’amministrazione comunale cui apparteneva” .

Tali attività sono state ritenute punibili ai sensi degli articoli 660 cod. pen (molestie alle
persone) e dell’articolo 594 cod. pen.(ingiurie). Tali conclusioni non appaiono
condivisibili. Casi come quelli sopra indicati, più che al mobbing vanno ricondotti come
detto al bullyng, che si caratterizza per essere le vessazioni provenienti da un superiore
gerarchico.