IL MOBBING: ANALISI DI DUE RECENTI DECISIONI

di Giampaolo Perdonà
Avvocato in Verona


1. La definizione del mobbing secondo la psicologia del lavoro.

Per la psicologia del lavoro, il mobbing consiste in “una situazione lavorativa di qualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui uno o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità; conflittualità sistematica che provoca la conseguenza per la quale “il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosopatici relazionali e dell’umore, che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione”. (1)


 


 

2. La nozione di mobbing nella giurisprudenza.

Le decisioni che qui si annotano si pongono nel solco di una esperienza oramai ricca di precedenti.

La giurisprudenza che si è misurata con il problema della definizione concettuale del fenomeno in argomento, è vieppiù concorde nel riferirlo a condotte datoriali volte a vessare sistematicamente il lavoratore dipendente, mediante l’impiego di atti e condotte (di per se stesse, eventualmente, legittime) (2) frequenti e perduranti nel tempo, preordinate a menomarlo sul piano dell’autoconsiderazione e dell’equilibrio psicofisico, al fine, per lo più, di spuntarne la fuoriuscita dai ranghi aziendali, per iniziativa sua “spontanea”.

In sede di delibazione della questione, sollevata al relativo cospetto, afferente alla sospetta illegittimità costituzionale di legge regionale (3) imperniata su di una prima regolamentazione normativa del fenomeno in argomento, la Corte Costituzionale (4), nell’affermare la riportabilità della potestà legislativa in materia in capo allo Stato, lo ha definito, in particolare, come segue: “la sociologia ha mutuato il temine mobbing da una branca dell’etologia per designare un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.

Detti atti persecutori, secondo l’avviso della Corte Costituzionale, possono risultare “se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico…”, assumendo, purtuttavia, “rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto…” e risolvendosi, normalmente, in “disturbi di vario tipo e, a volte, patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress postraumatico”.

In termini sostanzialmente omologhi si è inoltre pronunciata la Suprema Corte di Cassazione (5), che ha individuato il mobbing in: “ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro…”.

Secondo orientamento giurisprudenziale che può dirsi pertanto tendenzialmente conforme, nel mobbing distinguesi un elemento materiale, sostanziato, come visto, dalla perduranza di condotte vessatorie reiterate, rivolte, da uno o più soggetti, alla corrispondente loro vittima, ed un elemento psicologico, sostanziato dalla coscienza e dalla volontà dell’autore d’offendere il soggetto da escludere.

Si segnalano, purtuttavia, taluni precedenti, per il vero isolati, in forza dei quali il mobbing sostanzierebbe fenomeno, da un lato necessariamente riportabile ad iniziative di tipo collettivo, in quanto attuate mediante il concorso di più soggetti, organizzati al fine di arrecare cosciente nocumento alla vittima designata (6) e, dall’altro, ricorrerebbe altresì in ipotesi di condotte - o di atti - datoriali unisussistenti (e non quindi imperniate/i su vessazioni e soprusi reiterati e perduranti nel tempo) ove destinate/i a produrre effetti pregiudizievoli perlomeno duraturi (e così, in ipotesi di condotte/atti quali il trasferimento del lavoratore pregiudicatone, a sede disagiata (7) od il suo demansionamento) (8).

Non costituisce, viceversa, mobbing, per opinione diffusa, lo stato di fisiologica contrapposizione tra le diverse componenti di un rapporto di lavoro, in quanto mera conseguenza di tensioni suscitate dalla difficile, problematica componibilità delle regiproche attese ed obiettivi; né costituisce mobbing, per indirizzo conforme, il saltuario ricorso, da parte del datore di lavoro, a misure di ordine organizzativo illegittime, o l’assunzione, sempre da parte di costui, di occasionali contegni illeciti, sul piano dei rapporti personali, specie se non complessivamente e scientemente preordinate ad escludere il soggetto interessatone (9) (ovvero, a maggior ragione, lo stato di disagio in cui il lavoratore sia incorso, per effetto di un suo proprio contegno inadempiente) (10).

Per quanto attiene infine all’elemento psicologico accompagnante le condotte poste in essere dall’agente, si sostiene, per lo più, che questi debba essere animato da dolo (generico) improntato a consapevole vessazione del soggetto da penalizzare (11).

Si è anche, in taluni casi, affermato che, oltre alla volontà ed alla consapevolezza di offendere la dignità del soggetto aggredito, il mobber debba – affinché si realizzi la fattispecie in questione - informare la propria condotta a dolo “specifico” e cioè a finalità che ne comportino l’espulsione dai ranghi aziendali (12).

3. Il mobbing nella contrattazione collettiva.

Anche i contraenti collettivi, nel registrare la preoccupante emersione del fenomeno in argomento, hanno proceduto di recente ad inquadrarlo, sul piano “istituzionale”, così definendolo: “esso è caratterizzato da una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti, diversi o ripetuti nel tempo, in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie, tali da comportare il degrado delle condizioni di lavoro e idonei a compromettere la salute o la professionalità, o la dignità del lavoratore stesso, nell’ambito dell’ufficio di appartenenza, o, addirittura, tali da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento”. (13)

4. Le condotte esponenziali del fenomeno mobbing.

Secondo la psicologia del lavoro, il mobbing si articolerebbe, sul piano dinamico/strutturale, in 4 fasi progressive: la fase del conflitto quotidiano, la fase di inizio del terrorismo psicologico, la fase degli errori e degli abusi di parte datoriale e la fase dell’esclusione dal mondo del lavoro del soggetto vittima, con conseguenti ripercussioni d’ordine sanitario, a suo carico. (14)

La stessa psicologia del lavoro ha inoltre particolareggiatamente classificato le più ricorrenti condotte-indice del mobbing, (in quanto attuate onde progressivamente pregiudicare l’integrità psicofisica del soggetto vittima).

Gli studiosi che si sono occupati della materia hanno in proposito approntato appositi prospetti riepilogativi dei contegni sussumibili in condotte riportabili al fenomeno in argomento (ove reiterate e diffuse nel tempo) (15).

Tali condotte attengono, di massima, ad iniziative volte ad emarginare il lavoratore da escludere, mediante un suo isolamento - fisico e non - rispetto ai colleghi con i quali egli opera, mediante l’impiego, nei relativi confronti, d’un linguaggio non urbano e/o provocatorio, mediante la formulazione ad esso di critiche o rilievi disciplinari infondati, mediante la sottrazione al medesimo di informazioni utili al disimpegno della prestazione sua istituzionale, mediante la revisione peggiorativa delle mansioni di sua pertinenza, mediante il diniego all’interessato dei riconoscimenti economici viceversa attribuiti ai suoi colleghi (a parità di posizione ricoperta e di risultati ottenuti) mediante l’assoggettamento a controlli esasperati circa la correlativa produttività, ovvero circa il suo stato di malattia, mediante spostamenti suoi ripetuti, dal punto di vista del luogo di resa delle prestazioni, e via di seguito.


 

5. Le fonti della responsabilità susseguente all’adozione di atti e comportamenti mobbizzanti.

I principi sui quali si reggono le tutele approntate a garanzia del soggetto fatto destinatario di mobbing, secondo taluna dottrina, sarebbero anzitutto imperniate su disposizioni di rango costituzionale, quali l’art. 2, l’art. 4, l’art. 32 e l’art. 41 Cost. (16).

Le medesime tutele, altresì, costituirebbero, per la stessa dottrina “derivato” del complesso di norme contenuto nel D.l.vo n. 626/94, in materia di prevenzione delle infermità e degli infortuni sul lavoro (17).

La responsabilità civile ingenerata a carico del datore di lavoro dall’adozione di perduranti contegni vessatori esercitati in danno del lavoratore subordinato, è inoltre comunemente definita quale responsabilità all’un tempo extracontrattuale, ex artt. 2043 e 2049 c.c., e contrattuale, sotto il particolare profilo dell’art. 2087 c.c. (18).

L’autore della condotta illecita di cui si tratti è in particolare perseguibile ai sensi dell’art 2043 c.c. (siccome tra l’altro affermato dal Tribunale di Agrigento, nel contesto della sentenza che si annota) (19).

Il datore di lavoro è a propria volta passibile di responsabilità civile, in relazione ai fatti di mobbing posti in essere, ai danni di un proprio sottoposto, da uno o più suoi collaboratori, ai sensi del medesimo art. 2043 c.c., nel caso in cui gli sia ascrivibile contegno istigativo o compartecipativo, sotto qualsivoglia specie, all’adozione degli atti in argomento (oltre che, evidentemente, allorquando egli ne sia stato il primo ed esclusivo interprete).

Il medesimo datore di lavoro risponde, inoltre, sul piano civile, nei confronti del proprio sottoposto fatto bersaglio di vessazioni e soprusi, a titolo di responsabilità (sempre) extra contrattuale, ex art. 2049 c.c. (20), in considerazione del ruolo istituzionale di committente che esso ricopre, e, in ragione degli obblighi, afferenti alla salvaguardia dell’incolumità psicofisica e dell’integrità morale del proprio personale, dal medesimo eventualmente inosservati - anche solo mediante condotta omissiva e/o tollerante - a titolo di responsabilità contrattuale, ex art. 2087 c.c. (21).

Nonostante, infine, allo stato, l’ordinamento positivo non conosca il reato di mobbing, si è ciò nondimeno teorizzato che l’assunzione di condotte vessatorie sui luoghi di lavoro possa dar luogo, al variare dei casi, a responsabilità penale dell’autore, per la consumazione di illeciti quali l’abuso d’ufficio, l’omissione di atti d’ufficio, i maltrattamenti, la morte o le lesioni, quali conseguenze di altro delitto, l’omicidio colposo, l’ingiuria, la diffamazione, la violenza sessuale, la violenza privata, la minaccia, la molestia od il disturbo alle persone (22).


 

6. Aspetti processuali. L’onere della prova

Il lavoratore è gravato dell’onere probatorio inerente vuoi alla consumazione in proprio danno di condotte mobbizzanti, poste in essere dal correlativo datore di lavoro (o dai suoi preposti), vuoi alla ascrivibilità all’agente d’un contegno doloso, vuoi dell’effettività del danno addotto, vuoi, infine, alla ricorrenza di un nesso casuale tra condotta e danno allegati; al contrario, il datore di lavoro è tenuto a dimostrare d’aver adottato tutte le misure necessarie, onde garantire al lavoratore interessato l’integrità psicofisica (23).

Si segnalano, purtuttavia, taluni precedenti, in forza dei quali si è ritenuto fatto notorio, ex art 115 c.p.c., il fenomeno del mobbing, in quanto tale non abbisognevole di una prova rigorosa, con riferimento al caso di specie di cui trattisi e si è “liquidata” la questione del nesso di causa, - nel senso di ritenerla in atti accertata - mediante la semplice annotazione per la quale le affezioni dal lavoratore interessatone addotte gli fossero ignote, in epoca antecedente la concretizzazione dei contestati contegni datoriali (senza nemmeno, in tali casi, passare per il vaglio di una consulenza tecnica d’ufficio, ad impronta medico-legale) (24).

Da ultimo, si sottolinea, incidentalmente, il dato di delicatezza estrema, afferente alla posizione della parte che ascriva al datore di lavoro, od ai suoi sottoposti, condotte mobbizzanti in proprio danno perpetrate, atteso che l’eventuale indefinizione, in sede processuale civile, del tema relativo alla prova inerente alla veridicità dei fatti lamentati, può dar luogo a responsabilità disciplinare dell’interessato (in un caso tradottasi, addirittura, nella comminazione d’un licenziamento per giusta causa, passato indenne al vaglio giudiziale di legittimità) (25).


 

7. Le sentenze che si annotano.

Le due decisioni che si annotano trattano problematiche correlate all’assunzione di pratiche datoriali cosiddette mobbizzanti, operate ai danni di due lavoratori subordinati, perpetrate nel settore pubblico.

Il caso deciso dal Tribunale di Agrigento si riferisce, in particolare, a pratiche vessatorie esercitate da un dirigente scolastico, ai danni d’un direttore dei servizi amministrativi.

Il caso invece definito dal Tribunale di Milano interessa condotte emulative adottate da due dirigenti scolastici, in pregiudizio di una insegnante.

Il lavoratore rivoltosi al Tribunale di Agrigento, Sezione Lavoro, aveva in particolare dedotto d’aver patito, per una periodo della durata di circa 10 mesi, reiterate aggressioni alla propria sfera morale, sostanziatesi in più di 20 episodi, afferenti vuoi ad ordini di servizio impartitigli in tono minatorio, vuoi a disposizioni operative contrarie alla disciplina generale, vuoi alla reiterata minaccia di sanzioni disciplinari poi mai irrorate, vuoi alla privazione di strumenti di lavoro ad esso utili, vuoi all’interruzione di flussi informativi indispensabili all’esercizio delle sue mansioni (vuoi ad altro ancora).

Quale conseguenza di detti episodi, il medesimo lavoratore aveva lamentato l’insorgenza a proprio carico di una patologia riconducibile a sindrome post traumatica da stress.

La lavoratrice che aveva invece adito il Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, aveva lamentato d’aver sofferto, per pluriennale periodo, sistematiche e reiterate vessazioni sul luogo di lavoro, improntate, tra l’altro, a linguaggio irriguardoso, nei relativi riguardi impiegato, a mortificazioni “pubbliche” impartitele, a discriminazioni di vario tipo e natura impostile, quanto all’organizzazione del lavoro (e ad altro ancora); vessazioni che, a sua detta, le avevano procurato grave crisi ansioso-depressiva.

La prima delle decisioni in commento spicca per ampiezza d’approfondimento delle tematiche d’ordine psicosociologico, involte dalla trattazione del fenomeno conosciuto quale “mobbing”, oltre che per la puntuale disamina delle implicazioni di carattere giuridico, che la ricorrenza di tale fenomeno importa.

La seconda decisione che si annota si segnala, viceversa, per la scrupolosa attenzione posta alle dinamiche di fatto, connotanti il caso di specie.

Entrambe le sentenze in argomento, iscrivendosi all’orientamento giurisprudenziale pressochè conforme sopra riferito, formulano anzitutto l’assunto per il quale il mobbing consiste in una pratica datoriale illecita, importante aggressione sistematica e perdurante della personalità complessiva del lavoratore, preordinata a minarne l’autostima e l’integralità psicologica.

In ambo le sentenze di cui trattasi, ritenuta, poi, ad opera dei giudici incaricati, in punto di fatto, la ricorrenza di pratiche mobbizzanti attuate ai danni dei lavoratori interessatine, discettasi del tema delle responsabilità che dalla perpetrazione di dette illecite condotte scaturiscono, a carico del soggetto che ne sia stato l’autore (e cioè della persona fisica che se ne sia fatta interprete) ovvero del datore di lavoro di questi.

Nel contesto della sentenza pronunciata dal Tribunale di Agrigento, il giudice del lavoro fonda la propria statuizione di condanna del convenuto persona fisica, agente delle condotte mobbizzanti di cui trattavasi, sul disposto di cui all’art. 2043 cod. civ., mandando viceversa assolta - per ragioni di carattere eminentemente processuale - dalla domanda nei correlativi confronti proposta, la convenuta amministrazione, dopo aver, incidentalmente, sul piano astratto, affermata l’ascrivibilità al datore di lavoro di responsabilità congiuntiva, ex art. 2087 c.c., rispetto a quella propria dell’autore degli illeciti in argomento.

Nell’ambito invece della sentenza emessa dal Tribunale di Milano, il giudice del lavoro limitasi a condannare l’ente convenuto (in seno al processo di cui trattasi, invero, non erano stati evocati i soggetti artefici delle condotte mobbizzanti lamentate) senza indicare peraltro le fonti giuridiche sulle quali si regge la ritenuta responsabilità dell’ente medesimo.

Ambo le decisioni in argomento affrontano infine il tema delle categorie di danno ipoteticamente ingenerate dalla realizzazione di condotte mobbizzanti, definendole, sul piano dell’“an” e del “quantum”, con riferimento ai rispettivi casi di specie (26).

Il Tribunale di Agrigento, in particolare, riconosce al lavoratore interessato il diritto al risarcimento del danno patrimoniale allegato, del danno biologico dedotto e del danno morale - esistenziale, dal medesimo ascritto all’agente.

Lo stesso giudice, (discostandosi dall’orientamento più recente della Suprema Corte di Cassazione in materia, in forza del quale il danno da demansionamento appartiene alla categoria del pregiudizio non patrimoniale) (27) liquida all’interessato il nocumento alla professionalità riscontrato, in via equitativa (ragguagliandolo ad una quota della retribuzione di sua pertinenza)”; egli accorda poi al ricorrente il risarcimento del danno biologico, accertato a mezzo di CTU, oltre che del danno morale e del danno esistenziale (che tiene quindi tra loro distinti), parametrando il secondo al grado di sofferenza biologica accertata.

Il Tribunale di Milano, invece, accorda alla lavoratrice interessata il risarcimento del danno biologico, (ancora una volta accertato, nella sussistenza e consistenza, a mezzo di CTU) ed il danno esistenziale, liquidato in misura proporzionale al nocumento biologico accertato, negandole viceversa il diritto al risarcimento del danno morale addotto.

Le pronunce in argomento, per il resto tendenzialmente sovrapponibili, si discostano, l’una dall’altra, con riferimento precipuo ai criteri (eletti) di liquidazione del danno esistenziale, (nei frangenti di cui trattasi addotto da entrambi gli interessati) ed in relazione alla scelta operata, per quanto attiene alla definizione del tema relativo al riconoscimento del diritto, in capo ai ricorrenti, al risarcimento del danno morale (da ambedue lamentato).

Nel mentre invero l’una e l’altra decisione in commento correlano, sul piano della corrispondente quantificazione, il danno esistenziale al danno biologico, definendo il primo in misura proporzionale al secondo, (in ragione, in particolare, della durata delle pratiche mobbizzanti accertate) il Giudice del Lavoro di Agrigento definisce l’entità del pregiudizio in parola, in rapporto al numero dei mesi che interessarono le pratiche vessatorie di cui si tratta, allorché il Giudice del Lavoro di Milano l’aggancia ad una pura percentuale (più consistente) del danno biologico accertato, senza disporre ulteriori operazioni adeguatrici (28).

Sul punto, chi scrive non prende posizione in ordine alla preferenza da accordarsi all’una, piuttosto che all’altra delle alternative opzioni formulate nell’ambito delle sentenze che ci occupano, ma conviene con coloro i quali reputano assai poco affidabile il criterio sovente assunto dalla magistratura di merito (così come dai giudici in questione) in sede di liquidazione del danno esistenziale, mediante una sua correlazione percentualistica al danno biologico registrato, specie in forza della considerazione per la quale non sempre il soggetto fatto destinatario di illecita persecuzione (riporta e) deduce l’insorgenza a proprio carico d’una affezione psicofisica (29).

Il giudice del lavoro di Agrigento, pur senza esporre, in seno alla sentenza che si commenta, le ragioni del proprio convincimento per il quale alle condotte ascritte all’agente dei fatti di mobbing di cui trattasi possa attribuirsi il carattere di illecito penale, accorda, inoltre, “sbrigativamente”, al soggetto offesone, il risarcimento del pregiudizio morale, (anch’esso proporzionato al danno biologico accertato per CTU).

Al contrario, il giudice del lavoro di Milano, nel contesto della decisione che del pari qui si annota, nega (implicitamente, e senza resa di motivazione sul punto) al lavoratore interessato il diritto al risarcimento del danno morale addotto.

Al riguardo, non può non essere spesa benevola critica alle decisioni in argomento, stante la patente carenza di approfondimento che le denota, per quanto attinente alla definizione dei presupposti che giustificano, in sede civile, il riconoscimento all’interessato del diritto al risarcimento del danno morale addotto e del rapporto che corre tra danno esistenziale e danno morale (30).

Il riconoscimento, invero, a colui che lo rivendichi, del diritto al risarcimento del danno morale, postula, vincolativamente, ex art. 2059 c.c., la ricorrenza di un fatto reato, che tale danno abbia provocato; di talché, con particolare riferimento al tema di cui si disquisisce, obiettasi alla decisione del Tribunale di Agrigento carenza di indagine, circa le categorie penalmente disciplinate, alle quali le condotte poste in essere dall’aggressore “di turno” potessero essere ricondotte.

Contestasi, inoltre, sempre bonariamente, alla medesima decisione, l’omessa esposizione delle ragioni per le quali al soggetto interessato, attinto da condotte vessatorie che gli avrebbero inferto nocumento sul piano morale, spetti tanto la liquidazione del danno morale in senso stretto, quanto la liquidazione del danno esistenziale (in senso tecnico); ed analoga critica, per finire, si muove alla decisione del Tribunale di Milano, atteso che in essa la soluzione data al problema in questione (in termini esattamente opposti) non appare (altrettanto) minimamente motivata.


 

________________________________________
1 Ege H, La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002, 39.

Per un approfondimento dei profili d’ordine psicosociologico interessanti il mobbing e la relativa genesi scientifica, si veda, tra gli altri, Leymann, The definition of Mobbing at Work, in Leymann, The Mobbing Encyclopaedia http://www.leymann.se.

 

 

2 Affinchè, invero, gli atti in questione possano assumere il connotato di elementi facenti parte di una condotta complessiva mobbizzante, è sufficiente che essi, ancorchè legittimi, siano vessatori.

Per una distinzione, in proposito, tra atto illecito ed atto vessatorio, si rimanda a dissertazione di P. Morozzo Della Rocca, in Dir. Fam., 2001, II, 1117.

 

 

3 Trattasi della legge della Regione Lazio dell’11 luglio 2002, n. 16, intitolata: “Disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro”, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Lazio del 30 luglio 2002, n. 21.

Si segnala, incidentalmente, l’esistenza di numerosi disegni di legge d’iniziativa parlamentare, dedicati ad una regolamentazione del fenomeno in discussione; di questi, si menziona, tra i più recenti, il disegno di legge n. 3255 del 22 dicembre 2004, nel cui articolato compare altresì disposizione in forza della quale si istituisce il reato specifico di mobbing.

 

 

4 Corte Cost. n. 359 del 10-19 dicembre 2003, consultabile in Gazzetta Ufficiale, Serie Speciale, n. 51 del 24 dicembre 2003.

 

 

5 Cass. Civ., Sez. Un., 4 maggio 2004, n. 8438, in Juris Data, 4/2004, Giuffrè.

 

 

6 Così, Tribunale di Como, 22 maggio 2001, in Il lavoro nella giur., 2002, 73, con nota, fortemente critica, di Ege.

 

 

7 In tal senso, si veda Tribunale di Forlì, 15 marzo 2001, in R.g.l. 2002, II, 103, con nota di Fodale: “è illegittimo, per riconducibilità della condotta del datore di lavoro al fenomeno del “mobbing”, il provvedimento con il quale l’azienda dispone il trasferimento del dipendente presso una sede secondaria della medesima (se) non ricorrono … i presupposti oggettivi che giustificano in base all’art. 2103 c.c., il provvedimento in questione …”.

 

 

8 In tal senso, si veda Cass. Civ., Sez. Un., 4 maggio 2004, n. 8438, in D. & G. 2004: “Nel caso di demansionamento – che integra una delle tante ipotesi di mobbing verticale – il lavoratore vessato potrà chiedere il risarcimento dei danni per violazione degli obblighi contrattuali da parte del datore di lavoro”. Di avviso contrario è, pero, Tribunale di Venezia, 26 aprile 2001, in R.g.l. 2002, II, 88, con nota di Cimaglia.

 

 

9 Per l’indifferenza, nella prospettiva delle tutela del lavoratore, di episodi occasionali di conflitto tra le diverse componenti di un rapporto di lavoro, non suscitati dall’intendimento del datore di lavoro o dei suoi sottoposti d’escludere il soggetto interessatone, si segnalano Tribunale di Cassino, 18 dicembre 2002, in Gius 2003, 993, Tribunale di Milano, 20 maggio 2000, in O.g.l., 2000, I, 958.

 

 

10 Per un caso di comportamenti datoriali infondatamente dedotti quali episodi di mobbing, in quanto provocati da inadempimento contrattuale del lavoratore interessatone, si veda Tribunale di Milano, 11 febbraio 2002, in Il lavoro nella giur., 2002, 1112.

 

 

11 Per la necessaria ricorrenza, a fini di realizzazione della fattispecie in commento, d’atteggiamento doloso del soggetto persecutore, si sono pronunciati, tra i tanti, Tribunale di Siena, 19.04.2003, in Il lav. nelle P.A., 2003, 575, con nota di Cundari, Tribunale di Roma, 28 marzo 2003, in Gius, 2003, 2599, e Tribunale di Torino, 18 dicembre 2002, in Gius, 2003, 2463.

 

 

12 Postula, a fini di concretizzazione della fattispecie in analisi, la ricorrenza di un dolo specifico, in capo al datore di lavoro, Tribunale di Como, 22 febbraio 2003, in M.g.l., 2003, 328, con nota di Beretta: “il mobbing … si compone di un elemento oggettivo … e di un elemento psicologico … consistente, oltre che nel dolo generico –“animus nocendi”- anche nel dolo specifico di nuocere psicologicmente al lavoratore, al fine di emarginarlo dal gruppo e di allontanarlo dall’impresa”.

Dissente, rispetto a tale ricostruzione C. Cardarello, in “Il mobbing e il risarcimento del danno …”, in D. & G., 9, del 2005, secondo la cui opinione il fenomeno mobbing ricorrerebbe in forza della semplice sussistenza del correlativo elemento materiale e cioè di angherie, soprusi e scorrettezze reiterate e perpetuate nel tempo.

 

 

13 CCL 12 giugno 2003, art.6, sez. 1, Comparto Ministeri, quadriennio normativo 2002-2005 e biennio economico 2002-2003.

 

 

14 Per un approfondimento degli aspetti relativi agli indici rivelatori ed alla sequenza in cui si realizza il mobbing, si vedano, tra gli altri, Oliva, Mobbing, quale risarcimento?, in Danno e Resp., 2000, 27, Monateri, Bona e Oliva, Mobbing. Vessazioni sul lavoro, 2000, Tullini, Mobbing: la prima sentenza che esamina tale fenomeno, in Lav. Giur., 2000, 364 e segg.

 

 

15 Le tabelle richiamate nel testo sono consultabili in D. & G., 9/05, inserto, VI e VII – 56-57.

 

 

16 Così C. Cardarello, cit., IX (59).

 

 

17 Così C. Cardarello, cit., X (60).

 

 

18 Per la contrattualità della responsabilità in argomento, si veda, in dottrina, P. Di Marzio, in D. & G., n. 15 del 2004, inserto, XX (64).

Nel senso dell’applicabilità, a carico del datore di lavoro, in relazione all’ipotesi di mobbing accertato, peraltro, del disposto dell’art. 2049 c.c., si veda, ancora, in dottrina, P. Di Marzio, cit., XXI (65).

In giurisprudenza, si sono pronunciate nel senso del doppio titolo di responsabilità del datore di lavoro, e contrattuale, ed extracontrattuale, Cass. Civ., Sez. Lav., n. 2569/2001, in Giur. It., 2002, 64, nonchè Tribunale di Pinerolo, 14 gennaio 2003, in Giur. merito, 2003, f. 5.

 

 

19 Circa la diretta evocabilità in giudizio dell’autore di fatti di mobbing, non coincidente con il datore di lavoro si segnala l’opinione di P. Di Marzio, cit. XXI (65).

 

 

20 In giurisprudenza, in proposito, si veda Tribunale di Pisa, 3 dicembre 2001, in Lav. Giur., 2002, 456; nello stesso senso, in dottrina, si può leggere P. Albi, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, in questa rivista, n. 6/2004, 1333.

 

 

21 Si segnala, peraltro, l’opinione di chi riconduce la responsabilità contrattuale del datore di lavoro al disposto dell’art. 1228 c.c., in forza del quale “il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro” (P. Albi, cit. 1333).

 

 

22 In proposito si veda C. Cardarello, cit. X (60)

 

 

23 Per l’enunciazione del principio in argomento, si veda Cass. Civ., Sez. Lav., 2 maggio 2000, n. 5491, in Il lavoro nella giur. 2000, 830, con nota di Nunin.

 

 

24 Si veda, in proposito, Tribunale di Torino, 16 novembre 1999, in Lav. Giur., 2000, 361 e Trib. di Torino, 13 dicembre 1999, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2000, 378; in dottrina si legga, poi, Michele Carnevale, in D. & G., n. 15/2004, inserto, XXIII (67).

Si segnala, in proposito, l’opinione dottrinale di chi ritiene dimostrabile processualmente l’effettiva sussistenza del fenomeno in oggetto, con riferimento al caso pratico interessatone, mediante presunzioni (V. Tullini, “Mobbing e rapporto di lavoro …” in R.I.D.L., 2000, I, 265).

Per una singolare fattispecie di giudiziale identificazione tra presupposti oggettivi del mobbing e prova di quest’ultimo, si veda, poi, Tribunale di Bari, 12 marzo 2004 in D. & G., 2004, f.15, con nota di Di Marzio.

 

 

25 Cass. Civ., Sez. Lav., 8 gennaio 2000, n. 143, in Dir. Lav. 2001, II, 3, con nota di Foglia, massimata come di seguito : “è esente da vizi logici e sorretta da motivazione congrua e coerente la decisione del giudice di merito in base alla quale le accuse non provate di « mobbing » giustificano il licenziamento ex art. 2119 c.c., per il venir meno del rapporto fiduciario tra le parti”.

 

 

26 Per altra rappresentazione delle categorie di danno suscitate dall’esercizio di condotte mobbizzanti, si veda Tribunale di Tempio Pausania, 10 luglio 2003, in Giur. Mer. 2003, 2539, con nota di Rosa Bian: “il pubblico dipendente … sottoposto a mobbing ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale e ai fini della liquidazione deve distinguersi il danno biologico e il danno esistenziale; quest’ultimo comprende il danno da demansionamento, il danno all’immagine e, più in generale, le sofferenze patite dal lavoratore per aver lavorato in un ambiente ostile e pregiudizievole”.

 

 

27 In tali termini, si veda Cass. Civ., Sez. Lav., 26 maggio 2004, n. 10157, in Gius 21/2004, 3745.

 

 

28 In tema di liquidazione del danno esistenziale, si segnala una singolare pronuncia del Tribunale di Torino, datata 23 dicembre 2002 (in Giust. Civ., 2003, I, 2971, con nota di Casamassima) in forza della quale si è stabilito quale criterio di liquidazione del pregiudizio in argomento, il parametro tabellare in uso per la liquidazione del danno orale, ridotto alla metà.

 

 

29 In tali termini si veda C. Cardarello, cit., XVI (66).

 

 

30 Per quanto attiene al distinguo concettuale/giuridico tra le nozioni di danno esistenziale e di danno morale si veda Tribunale di Parma, 17 aprile 2003, (in D.L. Riv. Critica Dir. Lav., 2003, 668, con nota di Tagliagambe):”…il danno esistenziale si traduce nell’impossibilità di svolgere precedenti attività quotidiane realizzatrici della propria personalità, mentre il danno morale attiene alle sofferenze fisiche e morali patite a cagione dell’altrui comportamento”; sul medesimo tema si vedano inoltre Corte Cost., 11 luglio 2003, n. 233, in Giur. It., 2004, 723, con nota di Cassano, Tribunale di Como, 18 dicembre 2002, in Giustizia a Milano, 2003, 5, nonché Tribunale di Bari, 13 maggio 2004, in Giurisprudenza locale-Bari 2004.

Nel senso, al contrario, della sostanziale identità tra le nozioni di danno esistenziale e di danno morale e, per l’effetto, della non conseguibilità, in dipendenza di un medesimo fatto originativo di un danno di tipo psichico, di ambo le categorie in argomento, si veda Tribunale di Roma, 16 gennaio 2004 (in Giur. Romana 2004, 106): “non è concepibile nel nostro ordinamento, e di conseguenza non è autonomamente risarcibile, il danno c.d. “esistenziale”, asseritamene consistente nella perdita o nello stravolgimento delle proprie abitudini di vita; tale tipo di pregiudizio, infatti, costituisce un danno indistinguibile dalle sofferenze morali, con la conseguenza che di esso si deve debitamente tenere conto nella liquidazione del (unico ed unitario) danno morale, e non può essere liquidato a parte ed in aggiunta rispetto ad altri danni non patrimoniali”; in termini, si vedano anche Tribunale di Monza, 13 maggio 2003, in Giur. Merito 2003, 1720 e Tribunale di Roma, 7 marzo 2002, in Giur. It, 2003, 934, con nota di Ciccarelli.