Omessa formazione del lavoratore
Una sentenza di merito affrontato la materia delle responsabilità del direttore di stabilimento per assegnazione del lavoratore a mansioni lavorative per le quali lo stesso non aveva ricevuto idonea formazione

Il Tribunale Penale di Nola - Sentenza 23 aprile - 23 maggio 2004 – ha affrontato la spinosa materia delle responsabilità del direttore di stabilimento per assegnazione del lavoratore a mansioni lavorative per le quali lo stesso non aveva ricevuto idonea formazione in materia di sicurezza e salute (art. 22 D. Lgs. n. 626/94)

Sentenza.

Nessun dubbio sussiste poi in ordine alla ascrivibilità del fatto all’odierno imputato, posto che egli è pacificamente risultato rivestire la qualifica di “datore di lavoro” ai sensi del D. L.vo 626/94, trattandosi del direttore dello stabilimento. E’ da escludersi che nel caso di specie possa evidenziarsi un esonero da responsabilità in ragione del meccanismo della delega a terzi, come dedotto dalla difesa nell’affermare che la responsabilità per l’omissione in questione sarebbe da imputare ai responsabili del personale. Ed infatti, per pacifica giurisprudenza condivisa da questo giudicante, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro l’esonero del datore di lavoro da responsabilità può avvenire solo se la delega di funzioni, che il soggetto responsabile per legge assume di aver conferito ad altri, non soltanto sia data a persone affidabili ovvero in grado di assolvere i relativi compiti, ma anche a condizione che il delegato abbia piena autonomia decisionale, affrancata da ogni ingerenza del delegante (in tal senso, cfr. Cass. IV, 18.10.1990, n. 13726). Nel caso di specie, per quanto emerso dall’istruttoria dibattimentale, e segnatamente dalle dichiarazioni dei testimoni della difesa, l’O. ebbe ad occuparsi personalmente della problematica relativa alla gestione del lavoratore, come richiesto dalla particolare delicatezza del caso; furono inoltre rivolte direttamente a lui, che sottoscrisse il relativo verbale, le prescrizioni degli ispettori del lavoro cui si è fatto cenno”.

Commento

Il caso è semplice, il lavoratore non ricevette idonea formazione come previsto dall'art. 22 del D. Lgs. n. 626/94 per tutti i lavoratori, e questo nonostante l'organo di vigilanza avesse già riscontrato una precisa e specifica contravvenzione, verbalizzando l'inadempimento a carico del direttore di stabilimente.

D'altro canto la linea difensiva, usuale, di invocare fantomatiche deleghe di compiti prevenzionistici viene facilmente smontata dalla Corte di legittimità mettendo in evidenza l'inesistenza, nel caso di specie, di una delega efficace conferita a soggetto idoneo, e fornito di indipendenza decisionale e autonomia finanziaria. O

ccorre ricordare che fra i nuovi e impegnativi compiti previsti dal D. Lgs. n. 626/94 a carico del datore di lavoro e della gerarchia aziendale, l'obbligo informativo e formativo è risultato essere uno di quelli meno omogeneamente ed adeguatamente adempiuto nella variegata gamma di imprese che costituiscono il tessuto produttivo italiano, benché l'obiettivo del decreto è stato fin da subito “quello di assicurare una più elevata protezione dei lavoratori, tramite provvedimenti di protezione e bonifica dai rischi aziendali, anche attraverso l'informazione, la formazione e, in termini più generali, la partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti alla cogestione della sicurezza in azienda” 1

In sostanza il D.Lgs. n. 626/94 ha rafforzato un quadro giuridico centrato sulla prevenzione del rischio intesa come responsabilità soggettiva di ogni soggetto titolare di obblighi di sicurezza, sul concetto di auto-tutela e sul concetto di cultura della sicurezza.


 

I primi due termini ci vogliono ricordare che la sicurezza dipende direttamente dal comportamento dello stesso lavoratore (cfr. art. 5 D.Lgs. n. 626/94), che deve rispettare le norme di sicurezza aziendali e che può, e deve, contribuire attivamente con segnalazioni, proposte e controllo generale sull’organizzazione (cfr. art. 5 c. 2 del D.Lgs. n. 626/94), anche attraverso i propri rappresentanti per la sicurezza (cfr. art. 17 D.Lgs. n. 626/94).

La gestione programmata della sicurezza e igiene del lavoro (prescritta dal'art. 3 e dell'art. 4 comma 2 lettera c del D.Lgs. n. 626/94) richiede il coinvolgimento attivo e operante, e la partecipazione continua e consapevole di tutti i soggetti presenti in azienda, che sono ritenuti ex lege responsabili della propria e altrui sicurezza, non solo nei termini di adesione alle norme stabilite, ma soprattutto, e in modo essenziale, nei termini di condivisione e interiorizzazione dei principi tecnico-culturali della prevenzione, della protezione, della sicurezza e della salute sul luogo di lavoro.

Il concetto di cultura, invece, pone rilievo sul fattore sociale della sicurezza e sulla necessità della diffusione di una prospettiva culturale condivisa anche attraverso azioni informative e formative.

Il datore di lavoro deve “avere la cultura, la “forma mentis” del garante di un bene prezioso qual'è certamente l'integrità del lavoratore” e deve quindi “accuratamente illustrare agli operai i pericoli cui vanno incontro”, deve “pretendere che la superficialità venga bandita”, deve «educare e costringere i lavoratori a tenere a portata di mano» i dispositivi di protezione individuale, deve «insegnare e ribadire» natura, rischi e condizioni delle operazioni lavorative da eseguire, affinché i lavoratori si pongano, opportunamente muniti dei necessari mezzi personali di protezione, «nelle condizioni di non nuocere a se stessi” [Cass. pen. sez. IV, 3 giugno 1995, n. 6486, Grassi, Cass. pen. 1996,1957 (s.m.), in motivazione].


 

Il Tribunale Penale di Nola - Sentenza 23.4. - 23.5. 2004
Il Tribunale Penale di Nola - Sentenza 23 aprile - 23 maggio 2004: il testo completo. Condannati il direttore di stabilimento per omessa informazione e il medico competente per omessa sorveglianza sanitaria.

 

Sentenza.


 

Giudice Dott.ssa Tamara De Amicis


 

Omissis…


 

L’analisi degli addebiti mossi agli odierni imputati richiede un breve excursus delle vicende concernenti la vita professionale della parte offesa A.G.A., per come risultate dall’istruttoria dibattimentale.


 

Ha riferito l’A. di aver lavorato alle dipendenza della “A. s.p.a.” dal 16.2.1970 al 27.2.2002 come impiegato di settimo livello, e di aver cessato il rapporto di lavoro con la suddetta azienda a seguito di licenziamento. La parte offesa ha asserito, con le precisazioni che si evidenzieranno nel seguito della motivazione, che il licenziamento costituirebbe l’esito di una lunga e sgradevole vicenda iniziata nel 1998, che lo vede come soggetto sostanzialmente “perseguitato” dai propri dirigenti mediante trasferimenti immotivati (dapprima dallo stabilimento di P. a quello di C., e poi da quest’ultimo a quello di N.), che lo portarono a svolgere mansioni professionali diverse da quelle per la quali era stato assunto e, soprattutto, non confacenti alla sua qualifica professionale; viceversa, secondo la prospettazione dell’azienda (quale risultante dal tenore della lettera di licenziamento) il recesso dal rapporto di lavoro sarebbe stato determinato dall’atteggiamento disciplinarmente scorretto del lavoratore, caratterizzato da un rifiuto di svolgere le mansioni affidategli, protratto nel tempo, totale e non suffragato da alcuna reale giustificazione.


 

Giunto presso la sede di C. con preavviso orale di sole dodici ore e senza indicazione delle mansioni da svolgere, l’A. vi prestò la propria attività per diciotto mesi in una condizione di sostanziale isolamento dal resto dell’azienda; qui, infatti, non era stata predisposta una struttura lavorativa adeguata né gli erano state affidate mansioni specifiche da svolgere; in sostanza, egli si limitava ad essere presente all’interno del suo ufficio unitamente ad altro dipendente che, come lui, era stato trasferito dalla sede di P. a seguito di contrasti personali con i vertici aziendali. Il 29.5.2000 fu trasferito a N. con le mansioni di “specialista in ingegneria della manutenzione”, senza mai ricevere adeguata formazione professionale in relazione alle nuove funzioni. Il dato da ultimo indicato, relativo al mutamento del profilo professionale, può essere considerato oggettivamente acquisito al processo in quanto riscontrato dalla documentazione in atti costituita dalla lettera con la quale fu comunicata all’A. la variazione delle funzioni, con specifica indicazione – in allegato – del contenuto dei compiti da espletare. Per chiarezza espositiva, e considerata l’importanza della individuazione del profilo professionale al quale si dovrà in seguito fare riferimento per la valutazione delle condotte omissive ascritte agli odierni imputati, si ritiene opportuno trascriverne qui il contenuto:


 

P., 29.5.2000


 

Abbiamo dovuto purtroppo costatare che la sua adibizione allo Stabilimento di C. ha prodotto un esito assolutamente deludente.


 

Fermo restando che è nostra convinzione di aver agito in assoluta legittimità e che è stato ingiustificato il suo atteggiamento di pregiudiziale rifiuto dei compiti assegnati, riteniamo tuttavia, soprattutto in un’ottica di recupero del rapporto di lavoro, di dover porre termine a questa situazione di reciproco disagio e improduttività.


 

Le comunichiamo pertanto che il Suo trasferimento allo Stabilimento di C. comunicatoLe a dicembre ’98, è revocato e che dal 1 luglio 2000 Ella presterà invece la Sua attività presso il nostro Stabilimento di N., con le mansioni di “Specialista in Ingegneria di Manutenzione”, indicate nell’allegato profilo professionale.


 

Siamo fiduciosi che con tale nostro provvedimento siano definitivamente risolti i problemi e le evidenti incomprensioni del passato e che il rapporto riprenda a svolgersi secondo i normali canoni di rendimento e collaborazione.


 

Vorrà cortesemente restituirci debitamente sottoscritta copia della presente e dell’allegato.


 

Con l’occasione gradisca distinti saluti.


 

A. A.o


 

Allegato:


 

PROFILO PROFESSIONALE


 

Posizione prevista: Specialista in Ingegneria di Manutenzione.


 

Attività / Competenze


 

1.Manutenzione migliorativa: modifiche di macchine/impianti produttivi con lo scopo di ridurre il tasso di guasto ed i tempi di intervento durante le operazioni di manutenzione. Elaborazione di specifiche tecniche prevedendo: l’impegno lavorativo in ore, lo skill del personale operativo da dedicare, i materiali e le attrezzature necessarie.


 

2.Manutenzione correttiva: analisi dei reports con le indicazioni riportate sugli O.d.L. ove si segnalano le necessità di interventi. Ispezione diretta delle anomalie, studio ed emissione specifiche tecniche per gli interventi.


 

3.Emissione di specifiche: per interventi di retrofitting o di revisione delle macchine o per nuovi investimenti (individuazione delle caratteristiche della macchina / impianto, descrizione tecnica degli interventi, descrizione dei materiali richiesti, valutazione dell’impegno lavorativo. Pianificazione delle attività con l’interfaccia produttiva dello stabilimento).


 

4.Gestione dell’archivio tecnico: aggiornamento degli schemi elettrici e meccanici, organizzazione dell’archivio dei disegni, implementazione della documentazione tecnica effettuando ricerche sia presso le case costruttrici di macchine sia presso fornitori specializzati.


 

5.Aggiornamento schede di manutenzione preventiva: studio dell’andamento dei guasti ed individuazione di ulteriori operazioni manutentive, aggiornamento delle frequenze ottimali delle ispezioni. Descrizione delle attività secondo un “ciclo lavoro” tempificato ed aggiornato allo stato delle macchine.


 

L’A. rifiutò di svolgere le mansioni indicate non ritenendosi idoneo allo scopo, in ciò confortato da un parere fornitogli dall’ordine degli Ingegneri di Napoli che – sempre per quanto riferito dal teste – aveva reputato idoneo al profilo funzionale in questione un soggetto laureato in ingegneria meccanica al massimo trentacinquenne, con significativa esperienza nel campo della manutenzione. Il rifiuto di prestare quel genere di attività lavorativa, sempre comunicato per iscritto all’azienda, era tra l’altro determinato dalla consapevolezza del pericolo derivante dall’affidamento ad un soggetto inadeguato di compiti di manutenzione di macchine dal funzionamento molto complesso quali quelle esistenti presso lo stabilimento A. di N., che l’A. ha definito “uno dei più automatizzati del mondo”; il teste ha quindi precisato che la propria incapacità derivava in primo luogo dalle proprie cognizioni di base, essendo egli laureato in giurisprudenza, ed in secondo luogo – in ogni caso – dall’assenza di qualsiasi attività di formazione svolta dall’azienda in suo favore. A seguito di ogni suo rifiuto scritto di svolgere una certa attività si instaurava un regolare procedimento disciplinare che si concludeva normalmente con l’applicazione di una sanzione. A titolo meramente esemplificativo, l’A. ha riferito che la prima contestazione disciplinare gli fu mossa in relazione al rifiuto di ottemperare alla richiesta di andare a visionare il carro-ponte che si era fermato e di fornire le indicazioni necessarie per la riparazione; il teste ha spiegato la estrema difficoltà di un intervento di tal genere evidenziando che presso lo stabilimento di N. esiste un sistema integrato di carri-ponte, interamente automatizzato e funzionante mediante un software estremamente complesso, progettato da una ditta tedesca che attualmente ne cura anche la manutenzione. Richiesta di analoga difficoltà tecnica riguardò la direzione dell’attività di lubrificazione dell’intero parco macchine utensili dell’azienda, costituito di strumenti ad elevata automazione, la cui gestione richiede specializzazione ed esperienza prolungata nel settore (omissis … perché poi finito con i carroponti mi hanno detto di andare ad interessarmi della lubrificazione del parco macchine A., stiamo parlando di macchine ed utensili, di bancali di 60 metri altamente automatizzati, dove ci vuole gente che probabilmente è nata con quelle macchine e forse quando muore ancora non riesce a metterci le mani vicino, tanto è vero che continuamente l’azienda è costretta a chiamare la .i americana che è la costruttrice delle macchine: pag. 19, udienza del 24.1.2003). Il teste ha fatto riferimento ad un cospicuo carteggio intercorso con l’azienda in relazione a tutte le contestazioni disciplinari, dal quale si evincerebbe il contenuto dei compiti di volta in volta richiestigli e rifiutati per le ragioni esposte; la mancanza di tale produzione documentale impedisce di dare un riscontro oggettivo a questa parte della deposizione, che non appare tuttavia sfornita di attendibilità in quanto compiti del tipo di quello descritto rientrano pienamente nel profilo funzionale attribuito all’A. (si veda, in particolare, il punto n. 1).


 

Secondo l’opinione dell’A. sarebbero state queste notevoli difficoltà connesse al lavoro a procurargli uno stato ansioso che si andò aggravando col tempo, tanto che il lavoratore avanzò più volte richiesta all’azienda di essere sottoposto a visita medica specialistica per valutare la compatibilità della malattia psichica con le funzioni lavorative assegnategli. A fronte di un sostanziale disinteresse dell’azienda, ed in particolare del medico a ciò competente, l’A. fece anche delle richieste formali in tal senso (a mezzo di lettere raccomandate); fu quindi visitato, una sola volta, dal dottor P. il quale lo giudicò idoneo – sotto il profilo psicofisico – alle mansioni assegnategli.


 

Pochi mesi prima del licenziamento (nel novembre 2001) partecipò ad un corso concernente la sicurezza sul lavoro.


 

Le dichiarazioni dell’A. hanno trovato riscontro nella deposizione dei testi D. e B., rispettivamente medico del lavoro ed ispettore della ASL che effettuarono gli accertamenti presso l’azienda a seguito di esposto del lavoratore.


 

La dottoressa D.L.G. (udienza del 24.1.2003) ha riferito di aver accertato, mediante ispezione presso l’azienda, che l’A. era stato trasferito dallo stabilimento di C. a quello di N. a seguito di una ristrutturazione aziendale che aveva riguardato anche altre due persone. L’A., sentito dal medico, imputava l’insorgenza e l’ingravescenza della patologia psichiatrica al trasferimento avvenuto, a suo dire, senza necessità ed anzi come forma di persecuzione attuata nei propri confronti. Interpellati sul punto, i dirigenti dell’azienda spiegavano che il profilo funzionale cui il lavoratore era stato adibito rappresentava in realtà un livello ottimale cui lo stesso sarebbe arrivato con il trascorrere del tempo mediante l’acquisizione di una progressiva specializzazione (… omissis … l’azienda ha risposto che questo era un profilo a tendere, cioè non era … cioè tutto quello che veniva richiesto, che doveva essere espletato in questa mansione doveva essere una cosa che doveva poi imparare con il tempo. … omissis …: pag. 48). In ogni caso, gli ispettori verificarono che all’A. non era stata impartita la dovuta formazione per l’attività che avrebbe dovuto svolgere, ed effettuarono una specifica prescrizione in tal senso all’azienda (si veda il teste B., pag. 71, udienza del 24.1.2003).


 

Con riferimento alle visite mediche necessarie per la verifica dello stato di salute del lavoratore, la teste ha aggiunto che l’A. non era addetto ad un lavoro soggetto a rischi specifici, sicché non era sottoposto a sorveglianza sanitaria obbligatoria; tuttavia egli stesso aveva richiesto la visita del medico dell’azienda allo scopo di far verificare la compatibilità del suo stato di salute con le mansioni da esercitare; fu quindi visitato dal dottor P. che lo giudicò idoneo allo svolgimento delle mansioni alle quali era stato adibito. Gli ispettori del lavoro (ed in particolare il medico), effettuata la propria valutazione dello stato di salute dell’A., sostanzialmente non condivisero le conclusioni cui era pervenuto il medico dell’azienda e prescrissero, alternativamente, di trasferire il lavoratore ad altro incarico onde consentirgli di svolgere una mansione più adeguata al suo stato di salute, oppure di sottoporlo a visita medica specialistica al fine di accertare più compiutamente la patologia lamentata (verbale stenotipico, pag. 51). Furono assegnati all’azienda, rispettivamente, 15 e 30 giorni come termine per ottemperare alle due indicate prescrizioni; fu altresì concessa, su richiesta dell’azienda motivata dalla temporanea assenza del lavoratore, una proroga dei citati termini. Alla scadenza del termine fu effettuata una verifica presso l’azienda, nel corso della quale si accertava, quanto alla prima prescrizione, che la formazione del lavoratore era stata fatta in modo carente e, quanto alla seconda, che il lavoratore era stato trasferito ad altra mansione (addetto all’ufficio di rifornimento di materiale di produzione), più confacente al suo stato di salute e che era stata predisposta un’attività di formazione in relazione a tale nuova funzione (in data 24.1.2002). Dopo l’assegnazione alle nuove mansioni l’A. faceva un’ulteriore richiesta di ispezione deducendo un aggravamento del suo stato di salute che asseriva essere stato segnalato all’azienda, senza esito. Seguì un ulteriore accertamento nel corso del quale si verificò che il medico dell’azienda aveva confermato la propria valutazione senza effettuare alcuna richiesta di visita specialistica.


 

Giova fin da ora evidenziare che le dichiarazioni dell’ispettore del lavoro e del medico della ASL incaricato dell’accertamento hanno fornito un riscontro assolutamente preciso a quanto affermato dall’A. in merito alla sua inidoneità rispetto alle mansioni assegnategli, tanto da aver determinato prescrizioni specifiche in tale senso nei confronti dell’azienda.


 

La ricostruzione dei fatti, così come effettuata dai testimoni indicati dal pubblico ministero, non ha trovato sostanziale smentita nelle dichiarazioni rese dai testimoni della difesa, pur se le affermazioni di questi ultimi, espressive – in ragione del tenore delle domande, consentite per la particolarità della materia – anche di valutazioni personali, sono state orientate nel senso di ridimensionare notevolmente la problematica lavorativa della parte offesa.


 

Il dott. P.L.M., dirigente dell’A. – come responsabile delle politiche aziendali per l’ambiente, la medicina e la sicurezza del lavoro negli anni 2000 – 2002, e tuttora consulente dell’azienda per la medesima materia, ha riferito che, come prescritto dalla legge, presso l’A. è predisposto un piano di valutazione dei rischi connessi all’esecuzione delle varie tipologie di lavoro cui fa seguito la predisposizione di una specifica attività di informazione e formazione dei lavoratori. Con riferimento al caso di specie, venuto a conoscenza della vertenza in atto tra l’A. e l’azienda in ordine allo stato di salute del lavoratore, il teste formulò una sorta di consulenza in favore dei medici dell’azienda dicendo loro che non erano tenuti ad effettuare alcuna visita nei confronti di quel dipendente che non era esposto a rischi lavorativi particolari; si veda quanto riferito specificamente:


 

RISPOSTA – Sì, certamente sì, ho detto a chi di dovere, ai medici competenti che ovviamente sono sul luogo e devono effettuare le visite e la sorveglianza sanitaria dei dipendenti che qualora le attività – come mi era stato detto – del dipendente A. non mostrassero l’esposizione a dei rischi normati dalle attuali leggi la sorveglianza sanitaria sarebbe stata più che non necessaria non dovuta perché sappiamo addirittura che una sorveglianza sanitaria disposta per soggetti non esposti a rischi normati è praticamente al di fuori di quelle che sono le norme della legge attuale.


 

I medici dell’azienda riferirono al L.M. che l’A. aveva presentato varie certificazioni provenienti da sanitari esterni all’azienda, attestanti disturbi della sfera neuropsichica; ma anche in questo caso egli ritenne inutile una visita medica approfondita, sostanzialmente non ritenendo la malattia diagnosticata idonea ad incidere sulle mansioni del lavoratore, meramente impiegatizie; ed in questo senso furono i suoi suggerimenti ai medici aziendali.


 

Benché presso l’azienda operino vari sanitari, nel caso di specie fu il dottor P., specialista in medicina del lavoro, ad effettuare le visite mediche richieste dall’A.; e fu il P. a dichiarare il lavoratore idoneo allo svolgimento delle mansioni assegnategli, senza ritenere necessario un supplemento di diagnosi attraverso medici specializzati in relazione a quella patologia.


 

Il teste C.P., responsabile del personale dello stabilimento “A.” di P., ha escluso in primo luogo che il trasferimento del dipendente fosse stato determinato da motivi di risentimento personale nei confronti dello stesso, specificando che il mutamento delle mansioni – peraltro, per quanto si dirà, a suo dire soltanto parziale – fu deciso nell’ambito di una più complessa riorganizzazione aziendale che coinvolse tutti i tre dipendenti del medesimo settore cui apparteneva l’A.. Ha quindi specificato le mansioni cui quest’ultimo era adibito: svolgeva dapprima una funzione di acquisto degli impianti industriali, mentre successivamente fu inserito nell’ente di ingegneria della manutenzione che, presso lo stabilimento di N., si stava costituendo in quel momento; tale ultimo compito consisteva nel recepire dai tecnici indicazioni in ordine ai guasti degli impianti, provvedendo poi a contattare le ditte che avrebbero dovuto provvedere alla manutenzione straordinaria dei macchinari. Si trattava di una mansione che, ad avviso del teste, era assolutamente adeguata alle capacità professionali di quel dipendente, maturate sulla base delle pregressa esperienza – definita di buyer – avente ad oggetto l’acquisito dei macchinari industriali, attività che doveva essere necessariamente preceduta dalla predisposizione di una scheda valutativa di natura tecnica da sottoporre alle ditte fornitrici per poter consentire la proposizione di offerte di vendita. Anche le mansioni alle quali l’A. era stato trasferito avrebbero avuto dunque una natura amministrativo-contabile, consistendo in attività impiegatizia non comportante specifici rischi alla salute. Successivamente alla verifica dell’ASL e alla formulazione di specifiche prescrizioni sul punto da parte degli ispettori del lavoro, l’azienda avrebbe offerto all’A. la possibilità di svolgere attività nell’ambito di cinque diversi profili professionali, tutti rifiutati dal lavoratore che, di fatto, rimase assente dal lavoro per un periodo estremamente prolungato inducendo alla fine l’azienda a recedere, per giusta causa, dal rapporto di lavoro. Il teste ha precisato che l’A. fu assunto con la qualifica di perito, non ricordando tuttavia la specifica materia del suo titolo di studio, e conseguì la laurea in giurisprudenza in epoca successiva all’assunzione; ha aggiunto, tuttavia, che il profilo professionale al quale egli si è riferito durante la deposizione, corrispondente a quello preso in considerazione di volta in volta dall’azienda, era quello connesso alla specifica competenza acquisita sulla base della sua pluriennale esperienza lavorativa nel medesimo settore, quindi indipendente dal tipo di diploma di scuola media superiore presentato e preso a riferimento al momento dell’assunzione. Con specifico riguardo al profilo professionale concernente le nuove mansioni da svolgersi presso la sede di N. il teste ha precisato, sostanzialmente confermando quanto già affermato dalla teste D., che quanto risultante dalla indicazione scritta comprendeva attività rispetto alle quali il dipendente avrebbe acquisito soltanto in un momento successivo una idonea capacità professionale (“… Il profilo professionale che ha letto era un profilo di arrivo maturo. E’ evidente che nello stenderlo volevamo anche dare delle chance di crescita professionale …”: udienza del 13.2.2004, pag. 23). In ogni caso, egli analizzò approfonditamente il problema sollevato dall’A. cercando, unitamente all’Ingegner O. che all’epoca era direttore dello stabilimento di N., di trovare al dipendente una collocazione lavorativa che fosse di suo gradimento e potesse risolvere per via stragiudiziale le controversie che si erano venute a determinare, culminate anche in due ricorsi di natura cautelare proposti dall’A. nei confronti dell’azienda, fondati sulla dedotta illegittimità del trasferimento, e – sempre per quanto riferito – rigettati dal giudice del lavoro.


 

Analoghe circostanze di fatto sono state riferite dal teste S.G., dipendente dell’”A.” con funzioni di responsabile del servizio manutenzione presso lo stabilimento di N. e, in precedenza, presso quelli di C. e di P.. Questi ha precisato che nell’ambito delle mansioni assegnategli a seguito del trasferimento l’A. avrebbe dovuto occuparsi esclusivamente della gestione economica dei contratti di manutenzione; precisamente, gli addetti di altre aree gli avrebbero fatto pervenire i programmi dettagliati afferenti alle esigenze di manutenzione ordinaria o straordinaria degli impianti, e lui avrebbe dovuto provvedere a contattare le aziende competenti per i lavori richiesti; in ogni caso, poiché l’A. stava iniziando in quel momento un’attività di tipo nuovo, tutti gli altri addetti del settore avevano manifestato la propria disponibilità ad aiutarlo. In considerazione della gravità della situazione generata dal rifiuto dell’A. di svolgere mansioni che riteneva inadeguate alle proprie capacità, il responsabile del personale S. ebbe vari colloqui con il direttore dello stabilimento Ingegner O., il quale cercò di trovare la migliore soluzione alla vertenza.


 

Così ricostruito lo svolgimento dei fatti, occorre formulare alcune considerazioni in ordine alla configurabilità dei reati contestati ed alla ascrivibilità degli stessi agli odierni imputati.


 

Va preliminarmente precisato che oggetto del presente processo sono esclusivamente le fattispecie contestate nell’imputazione formulata dal pubblico ministero, afferenti – rispettivamente – alla mancata formazione professionale e alla mancata effettuazione delle visite mediche richieste dal lavoratore. Non si prenderanno perciò in considerazione i molteplici aspetti relativi alle modalità ed alle ragioni del trasferimento dell’A. da una sede all’altra con conseguente cambio di mansioni. Peraltro, non può non evidenziarsi come le domande rivolte ai testimoni dalla difesa dell’imputato e della parte civile abbiano talvolta “sofferto” (specie con riferimento alla parte civile) l’esistenza di vicende che nulla hanno a che fare con l’oggetto del presente processo, in quanto investono questioni concernenti una presunta illegittimità del trasferimento, e delle quali, ovviamente, non si è tenuto conto ai fini della decisione.


 

Limitando quindi l’analisi delle risultanze probatorie alle sole fattispecie contestate agli imputati, con riferimento al reato ascritto all’O. va evidenziato che, a fronte di un mutamento di mansioni avvenuto il 29.5.2000, il primo ed unico corso di formazione fu effettuato nel gennaio 2002 a seguito di specifica prescrizione in tal senso da parte degli ispettori del lavoro, ed in modo comunque inadeguato, come da questi ultimi verificato e riferito in dibattimento. Non vi è traccia, nella produzione documentale, dei libri di istruzione cui ha fatto riferimento la difesa nel corso della discussione finale come strumento di formazione fornito al lavoratore, comunque non sufficiente in relazione allo scopo.


 

Non presenta poi alcun rilievo la circostanza che l’A. di fatto non abbia mai svolto le mansioni assegnategli, atteso che la formazione professionale da parte del datore di lavoro ha necessariamente carattere preventivo rispetto all’assunzione della funzione per l’ovvia ragione che si tratta di attività finalizzata ad un corretto espletamento del lavoro, con prevenzione dei rischi ad esso connessi. Nel caso di specie, dunque, potrebbe dirsi che l’atteggiamento dell’A. sia stato addirittura responsabile, essendosi egli astenuto dal porre in essere un’attività che, mediante una scorretta esecuzione, avrebbe potuto arrecare danno al lavoratore e a terzi nonché all’azienda stessa. Come sopra precisato, non si intende qui esprimere alcuna valutazione in ordine alla correttezza del comportamento delle parti contrattuali nello svolgimento del rapporto di lavoro, che forse avrebbero potuto entrambe mostrare una maggiore forma di collaborazione e disponibilità; ma tali aspetti di tipo latamente deontologico non sono comunque idonei ad escludere – come ha dedotto la difesa – la sussistenza del fatto-reato contestato all’imputato O.. Viceversa, ritiene il giudicante che il reato di cui all’art. 22 D. L.vo 626/94 abbia natura formale, e debba perciò essere ascritto al datore di lavoro che, quanto meno colposamente, non ottemperi ad un obbligo espressamente statuito dalla legge.


 

Nessun dubbio sussiste poi in ordine alla ascrivibilità del fatto all’odierno imputato, posto che egli è pacificamente risultato rivestire la qualifica di “datore di lavoro” ai sensi del D. L.vo 626/94, trattandosi del direttore dello stabilimento. E’ da escludersi che nel caso di specie possa evidenziarsi un esonero da responsabilità in ragione del meccanismo della delega a terzi, come dedotto dalla difesa nell’affermare che la responsabilità per l’omissione in questione sarebbe da imputare ai responsabili del personale. Ed infatti, per pacifica giurisprudenza condivisa da questo giudicante, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro l’esonero del datore di lavoro da responsabilità può avvenire solo se la delega di funzioni, che il soggetto responsabile per legge assume di aver conferito ad altri, non soltanto sia data a persone affidabili ovvero in grado di assolvere i relativi compiti, ma anche a condizione che il delegato abbia piena autonomia decisionale, affrancata da ogni ingerenza del delegante (in tal senso, cfr. Cass. IV, 18.10.1990, n. 13726). Nel caso di specie, per quanto emerso dall’istruttoria dibattimentale, e segnatamente dalle dichiarazioni dei testimoni della difesa, l’O. ebbe ad occuparsi personalmente della problematica relativa alla gestione del lavoratore, come richiesto dalla particolare delicatezza del caso; furono inoltre rivolte direttamente a lui, che sottoscrisse il relativo verbale, le prescrizioni degli ispettori del lavoro cui si è fatto cenno (teste B., pag. 78).


 

E’ da escludere poi che l’attività assegnata all’A. non necessitasse di formazione professionale. Ed infatti l’omissione fu rilevata espressamente dagli ispettori del lavoro all’esito di una complessa valutazione effettuata in azienda; né, d’altra parte, il giudicante ritiene di poter addivenire a conclusioni di segno contrario ove si tenga conto della complessità del profilo professionale assegnato al lavoratore. Al riguardo giova osservare che il documento prodotto in atti costituisce un indubbio riscontro alle affermazioni dell’A., atteso che al punto n. 1 si fa riferimento alla elaborazione di specifiche tecniche con previsione del personale e dei mezzi necessari per la manutenzione migliorativa, ed al punto n. 3 si parla di individuazione delle caratteristiche delle macchine, degli interventi richiesti, dei materiali e dell’impegno lavorativo; si tratta, come è evidente, di attività che richiedono cognizioni tecniche elevate, acquisibili mediante una formazione specifica che non è surrogabile con l’esperienza acquisita in un settore del tutto diverso (consistente nell’acquisto di macchinari i cui requisiti tecnici non potevano che essere indicati da terzi, anche in considerazione del fatto che nel reparto acquisti l’A. non svolgeva certamente funzioni direttive ed era perciò sicuramente privo del potere di scelta di quanto acquistare), né con il mero possesso di un diploma di scuola media superiore in materie tecniche (d’altra parte, lo stesso teste della difesa ha evidenziato che l’assegnazione delle mansioni è avvenuta tenendo conto della esperienza acquisita e non dei titoli di studio del lavoratore). Il richiamato documento contenente l’indicazione del profilo professionale del dipendente smentisce, poi, le affermazioni del teste della difesa S. nella parte in cui ha dichiarato che anche nell’ambito delle nuove mansioni l’A. non avrebbe dovuto far altro che gestire gli aspetti economici di problemi tecnici affrontati da altri; invero, tale funzione è indicata al punto n. 2 del profilo professionale che, evidentemente, non è l’unico.


 

Relativamente all’elemento soggettivo del reato non occorre spendere particolari considerazioni, atteso che si tratta di fattispecie colposa, e che non vi sono – né sono state dedotte – sostanziali questioni circa la possibilità di adempiere alla prescrizione normativa da parte del soggetto obbligato, neppure potendosi imputare l’omissione al periodo di assenza dell’A. dal lavoro, atteso che non si è trattato comunque di un tempo particolarmente prolungato e che, sicuramente, la parte offesa fu a lungo presente – e inattiva – in azienda.


 

Quanto al reato contestato al P., si evidenzia in primo luogo come la patologia dalla quale risultava (e risulta) affetto l’A. fosse grave e prolungata nel tempo, con forme di aggravamento; i certificati medici prodotti datano, ad intervalli regolari di pochi mesi, dall’aprile ‘99 fino al febbraio 2003 ed evidenziano una patologia ingravescente: si passa dalla “sindrome depressivo ansiosa a genesi reattiva” alla “psicosindrome marginale a genesi reattiva”, al “disturbo di adattamento con conflittualità nell’ambiente di lavoro”, allo “scompenso psicoemotivo con spinte deliranti ... reattivo a situazione di grave stress socio – ambientale”, alla “psicosi delirante”, alla “psicosi dissociativa”, alla “psicosi … affettiva”.


 

Come si vede, si tratta di una malattia niente affatto trascurabile, che avrebbe richiesto un serio approfondimento diagnostico sia quanto alla genesi che quanto alla possibilità di cura. Viceversa, nel caso di specie, pur su richiesta specifica del lavoratore, non vi è stata alcuna attività in tal senso, e l’A. è stato dichiarato idoneo, sotto il profilo psicofisico, allo svolgimento delle proprie mansioni.


 

Sull’argomento non può essere assolutamente condiviso quanto affermato dal teste L.M. il quale, pur essendo medico, ha evidenziato una conoscenza a dir poco scarsa della patologia psichiatrica, correlandone la rilevanza esclusivamente alla necessità di “gestire la risorsa” malata piuttosto che curarla, affermando quindi che il relativo problema avrebbe dovuto essere affrontato dai responsabili del personale piuttosto che dal medico; si veda il passo della deposizione (pag. 23, udienza del 13.2.2004):


 

GIUDICE – Senta, per come è stato sottoposto a lei il problema, lei ha parlato sempre dei rischi previsti dalla legge ai sensi della 626, ma le è stato prospettato il problema dell’ansia, delle forme di ansia, dei disturbi psichici che aveva l’A.? Le è stato prospettato questo tipo di problema?


 

RISPOSTA – Marginalmente sì, mi è stato prospettato, però a un certo momento il problema dell’ansia relativamente a un’attività che non presenta dei rischi di patologia organica, o di altro, è un problema che deve essere risolto a livello della gestione del personale. Omissis.


 

Non si può e non si vuole qui affrontare una questione clinica assolutamente delicata, ma è possibile certamente affermare – anche senza essere competenti del settore – che la patologia evidenziata non è risolvibile (come prospettato dal L. M.) con una mera riduzione del carico di lavoro, di cui possa occuparsi – quanto alle modalità concrete – il direttore del personale, specialmente in una situazione in cui la genesi reattiva della malattia trova la fonte (come risulta dai certificati medici) nell’ambiente lavorativo.


 

Il P., a fronte delle molteplici certificazioni provenienti da strutture sanitarie pubbliche, che attestavano una patologia psichiatrica grave a carico dell’A., avrebbe dovuto prescrivere una visita specialistica, non essendo emerso che egli sia in grado – per carenza di competenza specifica – di affrontare adeguatamente la problematica psicopatologica (dalla documentazione prodotta dalla parte civile si evince infatti che, alla data del 3.7.2003, egli risultava in possesso della specializzazione Endocrinologia e di quella in Medicina dei Lavoratori e Psicotecnica). Non si esclude che la visita specialistica avrebbe potuto evidenziare la compatibilità dello stato patologico con lo svolgimento di attività lavorativa, probabilmente con il supporto di idonee indicazioni terapeutiche; comunque, anche in ipotesi contraria, ovvero nel caso fosse stata ravvisata una inabilità temporanea o permanente al lavoro, la questione avrebbe dovuto essere affrontata traendone le conseguenze del caso, tenendo conto altresì delle necessità dell’azienda. Il dato di fatto acquisito al processo, unico del quale si deve in questa sede tenere conto, è una ingiustificata condotta omissiva del medico dello stabilimento, integrante gli estremi del reato contestato, evidenziandosi come la richiesta del lavoratore fosse chiaramente correlata al rischio professionale, ove si consideri – come in precedenza specificato – che lo stato ansioso dell’A. era determinato proprio da una presunta sua inadeguatezza rispetto alle mansioni assegnategli con possibile danno a se stesso, agli altri ed alle strutture aziendali (inadeguatezza, come visto, giudicata fondata anche dagli ispettori del lavoro). Con riferimento all’elemento soggettivo, si evidenzia che la stessa modalità di svolgimento dei fatti, soprattutto ove si tenga conto del prolungato periodo di tempo che vide i vertici dell’azienda impegnati nella soluzione del problema sollevato dall’A. (tutto fondato su una presunta inabilità al lavoro assegnatogli strettamente connessa al suo stato psichico), sono indicative della colpa mostrata dall’imputato nel non aver adempiuto ai propri obblighi; l’assenza di una specializzazione nella materia psichiatrica, unitamente alla delicatezza della patologia, rappresentano poi dati che inequivocabilmente indurrebbero chiunque – dunque, non soltanto un medico – a richiedere gli approfondimenti diagnostici necessari.


 

Quanto alla determinazione della pena, si ritiene che ad entrambi gli imputati, in considerazione dello stato di incensuratezza, possano essere concesse le circostanze attenuanti generiche. Con riferimento ai criteri indicati dall’art. 133 c.p. si deve tenere conto da un lato – quale elemento che connota di gravità sotto un profilo oggettivo entrambe le condotte contestate – del prolungato periodo di tempo durante il quale gli imputati si occuparono della questione per cui è processo, nonché delle sollecitazioni “esterne” (si pensi non soltanto alla reiterata presentazione di certificati medici provenienti da strutture pubbliche, ma anche alla pendenza di controversie di natura civilistica tra il lavoratore e l’azienda ed il conseguente coinvolgimento dei vertici aziendali dei vari settori per la soluzione del problema); dall’altro – quale elemento che non rappresenta certamente una scriminante in quanto attinente a materia del tutto diversa (la legittimità o meno del trasferimento, mentre il reato contestato all’O. attiene alla mancata formazione professionale e presuppone quindi l’avvenuto trasferimento senza che rilevi la legittimità o meno dello stesso; e così pure quello contestato al P., che prescinde anch’esso da ogni valutazione di ordine civilistico), ma connota in termini meno gravi il grado della colpa – la circostanza che la gestione del caso è stata verosimilmente affidata ai legali dell’azienda e il direttore dello stabilimento può essersi ritenuto sia pur parzialmente “rassicurato” dall’esito, positivo per l’azienda, delle controversie civilistiche di natura cautelare. Si stima pertanto equo applicare soltanto la pena pecuniaria, nelle seguenti misure:


 

a O., Euro 2000,00 di ammenda (p.b. = € 3000,00; ridotta ex art. 62 bis c.p.);


 

a P., Euro 500,00 di ammenda (p.b. = € 750,00; ridotta ex art. 62 bis c.p.).


 

Consegue la condanna degli imputati – in solido – al pagamento delle spese processuali.


 

Non sussistono ragioni ostative alla concessione del beneficio della non menzione della condanna; l’esiguità della sanzione non fa ritenere necessario concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena.


 

Il P.o deve essere altresì condannato al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile costituita. I certificati medici prodotti non sono tuttavia idonei per quantificare in questa sede, in modo certo ed analitico, l’entità del danno corrispondente alle varie voci richieste nella memoria scritta depositata; la determinazione dell’ammontare del danno va dunque rimessa al giudice civile. Consegue altresì la condanna del P. alla refusione delle spese processuali in favore della costituita parte civile, nella misura determinata in dispositivo (con la sola precisazione che non sono dovute le spese di trasporto con mezzo aereo di difensore proveniente da altro foro).


 

In ragione della complessità del processo si riserva il termine di trenta giorni per il deposito della motivazione.


 


 

P.Q.M.


 

Visti gli artt. 533, 535 c.p.p.,


 

dichiara O.G. e P.S.F. colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti in rubrica e, concesse ad entrambi le circostanze attenuanti generiche, condanna O.G. alla pena di Euro 2.000,00 di ammenda, e P.S.F. alla pena di Euro 500,00 di ammenda, nonchè entrambi – in solido – al pagamento delle spese processuali.


 

Concede ad entrambi gli imputati il beneficio della non menzione.


 

Visti gli artt. 538 e ss. c.p.p.,


 

condanna P.S.F. al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali, che liquida in complessivi Euro 1700,00, oltre IVA e CPA come per legge.


 

Visto l’art. 544 comma 3° c.p.p.,


 

riserva il termine di trenta giorni per il deposito della motivazione.


 

Nola, 23.4.2004


 

Il Giudice


 

Dott. Tamara De Amicis