PER ACCERTARE SE LA
DISCOPATIA DELL’IMPIEGATO VIDEOTERMINALISTA SIA STATA
CAUSATA DALL’ATTIVITA’ LAVORATIVA PUO’ ESSERE APPLICATO ANCHE IL CRITERIO
EPIDEMIOLOGICO – Facendo riferimento alla letteratura scientifica
(Cassazione Sezione Lavoro n. 8073 del 27 aprile 2004, Pres. Mattone, Rel. Di
Iasi).
Paolo B., affetto da artropatia degenerativa del
rachide cervicale e dorso-lombare, con discopatia multipla, ha chiesto
all’INAIL il riconoscimento del suo diritto alle prestazioni assicurative e
previdenziali previste per le patologie di origine lavorativa, sostenendo che
la malattia era stata causata dall’attività di impiegato video terminalista da
lui svolta per alcuni decenni. L’INAIL non ha accolto la domanda. Ne è seguito
un giudizio davanti al Pretore di Chieti, che ha rigettato la domanda. In
grado di appello il Tribunale di Chieti ha nominato un consulente tecnico il
quale ha escluso che l’attività di impiegato video terminalista presenti
rischi a carico della colonna vertebrale. Il consulente di parte del
lavoratore ha evidenziato la necessità di utilizzare il criterio
epidemiologico nella ricerca del nesso di causalità tra la patologia accertata
e l’attività lavorativa svolta, facendo riferimento alla letteratura
scientifica e ai risultati di congressi medici. Il Tribunale ha ignorato i
rilievi del consulente di parte, affermando che l’artropatia degenerativa del
rachide è una malattia comune a un gran numero di persone, specie le anziane.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza del
Tribunale per difetto di motivazione ed in particolare per non avere preso in
esame la relazione del consulente tecnico di parte.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8073 del 27 aprile
2004, Pres. Mattone, Rel. Di Iasi), ha accolto il ricorso, in quanto ha
ritenuto che il Tribunale, omettendo di valutare le affermazioni del
consulente di parte, sia incorso in difetto di motivazione. In omaggio al
principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – ha osservato la
Corte – il ricorrente ha riportato brani significativi del ricorso in appello
e della consulenza di parte ad esso allegata, dai quali si evince che fu
evidenziata la necessità di utilizzo del criterio epidemiologico nella ricerca
del nesso di causalità tra le patologia accertata e l’attività di terminalista;
il giudice di merito avrebbe pertanto dovuto valutare, anche solo per
disattenderla, tale affermazione, peraltro non genericamente espressa, ma
supportata dal richiamo ai risultati di congressi medici e alla letteratura
scientifica, specie tenendo presente che l’attività di videoterminalista è
attività relativamente “recente” e pertanto non possono ritenersi ancora
definitivamente accertati nella scienza medica gli effetti che l’attività
suddetta, svolta nell’arco di molti anni, può avere sulla salute del
lavoratore. Non deve escludersi in materia – ha affermato la Corte –
l’adozione del criterio epidemiologico, specie per accertare, in relazione a
malattie multifattoriali, quantomeno l’incidenza concausale dell’attività
lavorativa svolta. L’affermazione (contenuta nella sentenza impugnata) secondo
la quale l’artropatia degenerativa del rachide è malattia comune a un gran
numero di persone, specie se anziane – ha concluso la Cassazione – non è
certamente sufficiente al rigetto della domanda, atteso che, a tal fine, il
giudice di merito avrebbe dovuto motivatamente escludere (specie in presenza
di una patologia multifattoriale quale l’artropatia) che l’attività lavorativa
abbia avuto un, anche minimo, ruolo concausale, dovendosi per tale ritenere
pure quello determinante una piccolissima accelerazione di una malattia
pregressa.
La
Corte ha rinviato la causa, per un nuovo esame, alla Corte di Appello di
L’Aquila.
IL “MOBBING” VERTICALE
IN DANNO DEL DIPENDENTE, ATTUATO MEDIANTE DEQUALIFICAZIONE E COLLOCAZIONE IN
AMBIENTE INSALUBRE, COSTITUISCE UN’INADEMPIENZA CONTRATTUALE –
Per violazione degli articoli
2087 e 2103 cod. civ. (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 8438 del 4 maggio
2004, Pres. Giustiniani, Rel. Miani Canevari).
Sergio B., pubblico impiegato, dipendente dell’Istituto
Agrario di S. Michele all’Adige, si è rivolto al Tribunale di Trento
sostenendo di essere stato sottoposto, durante il rapporto di impiego, nel
periodo dal 1987 al 1993, ad atti di mobbing e chiedendo la condanna
dell’Istituto al risarcimento del danno. In particolare egli ha affermato di
essere stato dequalificato con l’assegnazione di mansioni di assistente
agronomo, inferiori a quelle direttive inizialmente assegnategli, di essere
stato collocato in locali angusti e disagevoli e costretto a lasciare
l’alloggio di servizio, nonché di avere fruito irregolarmente dei congedi
ordinari; egli ha sostenuto che il trattamento subito gli aveva causato una
sindrome psiconeurosica ansioso depressiva. Egli ha chiesto l’applicazione
dell’art. 2087 cod. civ., che tutela la salute e la personalità del lavoratore
e dell’art. 2103 cod. civ., che tutela la sua professionalità.
L’istituto ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice
ordinario, sostenendo che l’azione avrebbe dovuto essere proposta davanti al
giudice amministrativo perché concernente inadempienze agli obblighi derivanti
dal rapporto di impiego asseritamente verificatesi prima del 30 giugno 1998.
Il Tribunale, con sentenza non definitiva, ha rigettato l’eccezione,
affermando la giurisdizione del giudice ordinario, in quanto ha ritenuto che i
comportamenti attribuiti all’ente configurassero illeciti extracontrattuali.
Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Trento, che ha
affermato la giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto ha ritenuto
che Sergio B. abbia fondato la sua domanda su inadempienze dell’Istituto agli
obblighi derivanti dal rapporto di pubblico impiego, verificatesi prima del 30
giugno 1998.
Sergio B. ha proposto ricorso per cassazione sostenendo di
aver agito per ottenere il risarcimento de danno derivatogli da condotta
illecita (“mobbing verticale”) posta in essere dall’ente “non in riguardo
allo svolgimento del rapporto contrattuale di lavoro, ma riguardo a condizioni
relazionali e di vita che nell’ambiente di lavoro sono state appesantite da un
accanimento e da atteggiamenti e condotte, anche omissive, che rappresentano
vere e proprie violazioni del principio aquiliano del neminem laedere”;
egli ha altresì rilevato che, nell’ipotesi di mobbing “il rapporto di
lavoro diviene solamente lo scenario di fondo (l’occasione) di innumerevoli
attività e condotte, anche omissive che mirano all’isolamento del soggetto
mobbizzato fino a provocare in lui un senso di smarrimento, di impotenza, di
frustrazione psicologica e anche fisica, di svilimento alla libertà e alla
dignità della persona tale da provocare danni cronici alla salute”.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 8438 del 4 maggio
2004, Pres. Giustiniani, Rel. Miani Canevari) ha rigettato il ricorso ed ha
affermato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto ha
ritenuto che le pratiche di “mobbing” denunciate dall’impiegato configurino
inadempienza agli obblighi derivanti dal rapporto di impiego, come tali
rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo, se verificatesi
prima del 30 giugno 1998.
I comportamenti illeciti denunciati – ha osservato la Corte –
consistono, secondo l’esposizione della parte:
- nel mutamento, dopo il “reinquadramento” nella qualifica di
assistente agronomo, delle mansioni già svolte, con il trasferimento,
nell’aprile del 1989, ad altra unità con compiti puramente esecutivi di
inserimento di dati in un computer;
- nella successiva attribuzione, dal luglio 1990, della qualifica
di collaboratore agronomo VII livello funzionale, destinato all’Ufficio
Contabilità Agraria con mansioni esecutive, mantenute per tutto il periodo
successivo;
- nell’assegnazione, nella stessa epoca e fino al 1998, di un posto
di lavoro in locale angusto, scarsamente illuminato e insalubre;
- nella privazione, nel 1993, dell’alloggio prima concessogli a
titolo gratuito nell’ambito della struttura dell’Istituto;
- nell’ingiusto comportamento che aveva impedito al B. di godere di
periodi di riposo, ed anche di accedere alla relativa documentazione
personale.
In relazione alla situazione soggettiva dedotta in giudizio –
ha affermato la Corte – la domanda va riferita – indipendentemente dalla
prospettazione della parte – ad un’azione di responsabilità contrattuale;
infatti, se il termine “mobbing” (utilizzato dalla parte per descrivere il
caso in esame) può essere generalmente riferito ad ogni ipotesi di pratiche
vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in
modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro, nella fattispecie
vengono in rilievo, violazione di specifici obblighi contrattuali derivanti
dal rapporto di impiego. Questo non rappresenta dunque – ha osservato la Corte
– un mero presupposto estrinseco ed occasionale della tutela invocata, in
quanto la stessa attiene a diritti soggettivi derivanti direttamente dal
medesimo rapporto, lesi da comportamenti che rappresentano l’esercizio di
tipici poteri datoriali, in violazione non solo del principio di protezione
delle condizioni di lavoro, ma anche della tutela della professionalità
prevista dall’art. 2103 cod. civ. (in relazione alla quale si chiede il
ripristino della precedente posizione di lavoro e della corrispondente
qualifica); si tratta pertanto di atti di gestione del rapporto di lavoro che,
indipendentemente da una concreta correlazione con un disegno di persecuzione
reiterata, trovano un diretto referente normativo nella disciplina della
regolamentazione del rapporto e ricevono da questa la loro sanzione di
illiceità. La fattispecie di responsabilità – ha affermato la Corte – va così
ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali
norme, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il
ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto alla salute)
che trovano la loro tutela specifica nell’ambito del rapporto obbligatorio.
Nella vicenda descritta – ha concluso la Cassazione – i singoli atti lesivi
dei diritti del dipendente risultano tutti riferiti ad epoca antecedente al 30
giugno 1998: la controversia riguarda quindi questioni attinenti al periodo
del rapporto di lavoro anteriore alla data fissata come discrimine temporale
dalla richiamata norma transitoria, interpretata secondo un criterio
ermeneutico inteso ad evitare frazionamenti della tutela processuale fra
giurisdizioni diverse; d’altro canto non assume alcuna rilevanza, a tal fine,
l’epoca della manifestazione delle patologie denunciate dal ricorrente.