1. Il danno non patrimoniale
valutato alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali
La sentenza in commento si iscrive a pieno titolo nel nuovo
filone giurisprudenziale, che, inaugurato dalle “storiche” sentenze
della Suprema Corte nn. 8827 e
8828 del 2003 e da quella, di poco successiva, n.
233 della Consulta [1],
ha ricondotto il risarcimento del danno alla persona ad un sistema
bipolare, basato su una rilettura costituzionalmente orientata
dell’art. 2059 c.c.
Molti autori, a tal riguardo, hanno parlato di “nuovo articolo
2059” ed effettivamente non si può che concordare sulla rilevanza e
sul forte impatto, che tali pronunce mostreranno a breve sugli
orientamenti, finora consolidati, delle Corti di merito e, più in
generale, sul tradizionale inquadramento delle voci di danno nel
caso di sinistro con conseguenze dannose per le persone.
Com’è noto, infatti, prima delle sentenze in parola, il sistema
risarcitorio imperante nel nostro ordinamento risultava
cristallizzato, se non proprio ingessato, nelle sue principali
componenti: ragionando in termini generali, erano, infatti,
sostanzialmente tre le voci di risarcimento che trovavano diritto di
cittadinanza nelle aule giudiziarie e si dimostravano ben
individuate anche le norme di riferimento per ciascuna di esse.
In primo luogo, com’è ovvio, il danno patrimoniale, costituito
dalla perdita di reddito o dalle spese di varia natura originate dal
sinistro e basato sulla norma cardine nel sistema di responsabilità
per illecito extracontrattuale, ovvero l’art. 2043 c.c., con il suo
generale principio del neminem laedere.
Ancora, il danno biologico [2],
cioè quella “menomazione dell’integrità psicofisica della persona in
sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore dell’uomo in
tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola
attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle
funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita
si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche
biologica, sociale, culturale ed estetica”. [3]
Esso è stato da sempre qualificato come “dannoevento” a carattere
prioritario [4],
in quanto si presenta come primo effetto della condotta illecita,
mentre il danno patrimoniale e quello non patrimoniale sono state
ritenute conseguenze ulteriori ed eventuali.
La risarcibilità di tale danno, al quale spesso nella
terminologia corrente è stato associata, come sinonimo,
l’espressione “danno alla salute” [5],
fu riconosciuta dalla giurisprudenza in virtù del carattere
immediatamente precettivo dell’art. 32 Cost., da intendersi come
ammissivo di un diritto soggettivo alla salute, al quale veniva
strettamente connesso l’art. 2043 c.c., data l’impossibilità di
applicare l’art. 2059 c.c. per l’interpretazione data alla relativa
riserva di legge.
Per tali ragioni, si è ritenuto il danno biologico risarcibile in
modo autonomo, indipendentemente dalla concreta possibilità di
risarcire quello patrimoniale (subordinata alla prova della
diminuzione patrimoniale o della perdita di guadagno) e quello non
patrimoniale (per la quale era necessaria, come detto, la
sussistenza delle condizioni dettate dall’art. 2059 c.c.).
Infine, il danno morale subiettivo, identificato storicamente con
quel patema d’animo e quelle sofferenze di ordine psichico e
strettamente personali, che il soggetto è costretto a subire in
conseguenza dell’illecito e che sono in qualche modo presunti dalla
legge: si tratta del danno non patrimoniale per antonomasia, il cui
risarcimento è finalizzato a lenire, attraverso lo strumento del
denaro, i dolori sofferti, sempre che nel fatto illecito altrui
fossero ravvisabili gli estremi del reato.
Infatti, l’art. 2059 c.c., norma di copertura per tale
risarcimento veniva letta in necessario combinato disposto con
l’art. 185 c.p., limitando il riconoscimento di una somma di denaro
al solo caso di fattoreato: la condanna al pagamento, cioè, serviva
anche a rafforzare la sanzione penalistica principale, cui
soggiaceva il colpevoledanneggiante [6].
Tale consolidato sistema è stato rotto, come visto, dalle citate
sentenze dell’estate 2003, alle quali quella in commento si allinea
pienamente.
I giudici della Suprema Corte ribadiscono, in principio, la
necessità che, nella liquidazione del danno biologico e di quello
morale, si faccia riferimento al criterio equitativo di cui agli
artt. 2056 e 1223 c.c. e, nel contempo, si dia la giusta rilevanza
alle circostanze del caso concreto, fra cui specificamente la
gravità delle lesioni, gli eventuali postumi permanenti, l’età,
l’attività espletata, le condizioni sociali e familiari del
danneggiato.
La bontà di tale criterio di liquidazione viene confermata dalla
Corte anche a seguito del nuovo orientamento sulla portata dell’art.
2059 c.c. e ciò sulla base di un ben preciso ed argomentato iter
logicogiuridico.
In particolare, vengono dapprima fissati due principi
fondamentali, ovvero da un lato che il concetto di danno non
patrimoniale non si può assimilare in maniera riduttiva con quello
di danno morale subiettivo, e dall’altro che la lettura
costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. determina che il
legislatore non possa restringere ai soli casi previsti dalla
normativa ordinaria il risarcimento della lesione dei valori della
persona ritenuti inviolabili dalla Carta Costituzionale.
Da tali assunti, la Corte fa discendere, in linea col nuovo
orientamento, che non si ravvisa più l’esigenza di appigliarsi al
dettato dell’art. 2043 c.c., attraverso la tesi del “danno evento” o
del tertium genus di danno accanto al patrimoniale ed al morale
subiettivo: la responsabilità extracontrattuale, al contrario, deve
risolversi nell’alternativa danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) –
danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) [7].
Alla luce di tali considerazioni, l’inquadramento del danno
biologico appare più che scontato, in quanto, utilizzando le stesse
parole dei giudici di legittimità, “quale danno alla salute, rientra
a pieno titolo, per il disposto dell’art. 32 Cost., tra i valori
della persona umana considerati inviolabili dalla Costituzione e
poiché detta norma non solo ha efficacia precettiva nei confronti
dello Stato, ma è anche immediatamente efficace tra i privati, ne
consegue, per coerenza del sistema, che la sua tutela è apprestata
dall’art. 2059 c.c. e non dall’art. 2043 c.c., che attiene
esclusivamente ai danni patrimoniali”.
2. La liquidazione del danno non patrimoniale nel caso di
morte del soggetto leso durante il giudizio
Dopo la riflessione su tali assunti di carattere generale, la
Corte si sofferma sulle questioni più rilevanti poste dalla
fattispecie al suo esame, riguardanti in particolare la liquidazione
del danno biologico e morale [8].
La sentenza si mostra fortemente critica nei confronti della
decisione adottata dal giudice di appello, nella misura in cui
questa ha ritenuto congrua la liquidazione operata in primo grado
“tenuto conto delle complessive condizioni psicofisiche del
soggetto”: la Corte ritiene, infatti, quest’ultima una motivazione
apparente, in quanto non consente di ricostruire il percorso
argomentativi seguito dal giudice per determinare il quantum del
risarcimento.
L’impugnata pronuncia viene “demolita” anche sotto altro profilo:
il giudice di appello, infatti, avrebbe dovuto tenere in giusta
considerazione la circostanza della morte del danneggiato durante il
giudizio, ancorando la liquidazione dei danni non alle speranze di
vita, ma all’effettività della stessa.
Anche in tal caso, la Suprema Corte illustra molto efficacemente
le motivazioni dei suoi dicta, che, complessivamente considerati, si
mostrano condivisibili.
Il punto di partenza è dato dalla considerazione di carattere
generale che, laddove al momento di liquidare il danno biologico, il
soggetto leso sia morto per causa non ricollegabile direttamente
alle conseguenze del sinistro, in luogo della valutazione c.d.
probabilistica deve trovare applicazione quella che tiene conto del
danno concretamente prodottosi e richiesto dagli eredi iure
successionis: ciò, in quanto proprio il decesso, avvenuto prima
della liquidazione, consente di rapportare all’effettiva durata
della vita l’incidenza negativa determinata sulla stessa
dall’illecito subito.
A supporto di tale impostazione, i giudici di legittimità
ragionano anche a contrario: assumere, infatti, che il risarcimento
del danno biologico, cui consegua la morte prima della decisione
definitiva, debba esser riconosciuto integralmente, significherebbe
far venire meno uno degli elementi costitutivi del danno
risarcibile, ovvero la durata del danno medesimo: questa, infatti,
risulterebbe del tutto ipotetica, potendosi invece, nel caso di
specie, rapportarsi ad un dato assolutamente certo.
Del resto, come riconosciuto dalla stessa sentenza in commento,
escludere il carattere necessario del fattore tempo nel risarcimento
del danno equivarrebbe ad ammettere che esso sia dovuto per intero
già per il solo fatto del verificarsi del sinistro, quindi anche
nell’ipotesi più che frequente di morte istantanea o
pseudoistantanea del danneggiato: com’è noto, però, la
giurisprudenza di legittimità ormai pacificamente [9]
riconosce il diritto il diritto al risarcimento solo qualora tra il
momento del sinistro e la successiva morte del soggetto leso sia
trascorso un “apprezzabile lasso di tempo”, con conseguente
liquidazione in relazione al periodo di tempo in cui la menomazione
psicofisica è perdurata.
Per tali ragioni, la Corte, con apprezzabile chiarezza,
sottolinea che le stesse categorie del danno biologico temporaneo e
di quello permanente entrerebbero in crisi, una volta che non si
attribuisse la giusta importanza al fattore tempo nella liquidazione
di tale tipo di danno.
La ricostruzione appena illustrata viene giustamente estesa anche
al danno morale subiettivo, che risulta all’evidenza maggiore se si
protrae per tutto il resto della vita media rispetto all’ipotesi in
cui le sofferenze ed il turbamento d’animo vengano meno qualche mese
od anno dopo, per morte del danneggiato prima del termine della vita
media, secondo le probabili speranze di vita.
Anche in tal caso, dovrà essere il giudice di merito a tener
conto che nel periodo immediatamente successivo al fatto illecito il
patema d’animo è più intenso, ma la valutazione dovrà comunque
valorizzare il principio per cui il danno morale non può spiegare
mai effetti istantanei, che sorgano e si esauriscono in un solo
momento: infatti, anche tale danno, che rientra a pieno titolo nella
categorie di quelli non patrimoniali, presuppone la necessaria
verifica della presenza di tutti gli elementi in cui si articola
l’illecito extracontrattuale e, dato che il risarcimento attiene
alle conseguenze dannose, la durata di queste ultime gioca un ruolo
determinante nella liquidazione.
[Precedenti]
La giurisprudenza di legittimità appare pacifica nell’affermare i
principi dedotti in sentenza, sia in ordine ai pregiudizi di
carattere patrimoniale, sia con riguardo al danno biologico ed, in
generale, alla categoria dei danni non patrimoniali: in tal senso,
si vedano Cass. 16 giugno 2003, n. 9620; Cass. 4 aprile 2003, n.
5332; Cass. 24 febbraio 2003, n. 2775; Cass. 11 luglio 2000, n.
9182; Cass. 7 aprile 1998, n. 3561.
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