Direttiva quadro sulla sicurezza sul lavoro: il parere della Commissione
 
E' del 5 febbraio scorso la comunicazione della Commissione europea al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale, e al Comitato delle Regioni nella quale vengono analizzate a distanza di quindici anni fa il punto sulle disposizioni delle direttive che si occupano di sicurezza sul lavoro: la 89/391 (direttiva quadro), la 89/654 (luoghi di lavoro), la 89/655 (attrezzature da lavoro), la 89/656 (dispositivi di protezione individuale), la 90/269 (manutenzione manuale dei carichi), 90/270 (attrezzature schermanti per la protezione degli occhi).
"La legislazione sulla salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro all'interno dell'Uniuone Europea - inizia il documento - si basa principalmente sul principio della prevenzione". La legislazione oggi in vigore ha infatti l'obiettivo di evitare gli infortuni e le malattie professionali e si applica in tutto il territorio della Ue. I commenti della Commissione riguardano in particolare la modalità in cui la legislazione in materia di sicurezza (che deriva dalla direttiva quadro e dalle altre direttive citate) è stata applicata nei vari stati membri.

La direttiva quadro del 1989 definisce i principi che regolano l'applicazione delle disposizioni che promuovono il miglioramento della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro e fissa regole generali sugli ambienti di lavoro. Regole che costituiscono l'oggetto di ulteriori direttive. Obiettivo comune di queste norme è l'instaurazione di una cultura della sicurezza che da un lato consentirebbe l'uguaglianza di tutte le aziende che lavorano nel mercato europeo e dall'altro garantirebbe un alto livello di sicurezza per il lavoratori europei (al fine di evitare dolore e sofferenza delle persone e minimizzare, per le aziende, le perdite economiche che derivano da infortuni sul lavoro).
La legislazione europea ha fino a oggi sortito effetti positivi sulle singole legislazioni nazionali in materia di salute e sicurezza sul lavoro: le misure prese in questo campo hanno infatti largamente contribuito a migliorare le condizioni di lavoro, la produttività, la competitività e il lavoro stesso.

I dati statistici e i rapporti nazionali sui progressi realizzati indicano in effetti un notevole miglioramento della protezione dei lavoratori e evidenziano come l'applicazione della normativa europea abbia avuto un ruolo cruciale nella diminuzione degli incidenti e delle malattie. Le cifre sono infatti convincenti ed evidenziano reali progressi strutturali. Stime preliminari realizzate sulla base dei dati forniti da Eurostat per l'anno 2000 mostrano che, per 100mila lavoratori, il numero di incidenti che hanno causato un assenza dal lavoro superiore a tre giorni sono diminuiti da 4.539 casi del 1994 ai 4.016 del 2000. L'abbassamento di questo indicatore indica dunque un netto miglioramento, soprattutto se si tiene conto dell'evoluzione e della struttura dell'economia e della tipologia degli impieghi e soprattutto se si considerano i nuovi rischi professionali.

I settori e gli impieghi ad alto rischio corrispondono a quelli in cui minore è l'applicazione della legislazione comunitaria (piccole e medie imprese) e questo conferma che una maggiore applicazione della normativa aiuterebbe a migliorare la situazione. L'alto livello di sicurezza che viene richiesto dalla direttiva quadro 83/391 e delle sue 5 direttive collegate potrà comunque essere veramente efficace solo se tutti gli interessati si impegneranno a rispettarne le disposizioni. La comunicazione della Commissione che si intitola "Adattarsi ai cambiamenti del lavoro e della società" contiene indicazioni chiare proprio su questa necessità.

L'analisi contenuta nel documento della Commissione analizza l'applicazione della direttiva quadro 89/391 e delle sue 5 principali direttive collegate:
le prescrizioni minime di sicurezza sui luoghi di lavoro (89/654)
l'utilizzo delle attrezzature da lavoro 89/655)
i dispositivi di protezione individuale (89/656)
la movimentazione manuale dei carichi (90/269)
attrezzature schermanti per la protezione degli occhi (90/270)
Il rapporto inizia misurando la portata degli effetti giuridici della direttiva quadro all'interno delle varie legislazioni nazionali prima di spostare l'analisi sulla reale applicazione delle disposizioni comunitarie evidenziando eventuali ritardi di trasposizione.

Gli effetti giuridici negli stati membri:
Prima dell'adozione della direttiva quadro (e delle 5 direttive collegate), la sicurezza sui luoghi di lavoro era diversa da Stato a Stato: con l'entrata in vigore della legislazione comunitaria invece è stato introdotto un approccio di tipo preventivo e integrato che ha imposto miglioramenti continui alle condizioni di lavoro. Questo ha comportato una maggiore responsabilità del lavoratore in quanto a prevenzione, formazione e informazione, partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali in tema di sicurezza. Il risultato sono state prescrizioni minime di sicurezza garantite in tutti gli Stati membri.

L'applicazione della legislazione:
L'articolo 4 della direttiva quadro impone agli Stati membri di adottare tutte le misure necessarie ad assicurare ai lavoratori la copertura giuridica necessaria all'applicazione della direttiva oltre ad assicurare sorveglianza e controlli adeguati. A oggi su tutto il territorio dell'Unione circa 12mila ispettori realizzano circa 1milione e mezzo di controlli ogni anno: controlli che non si limitano a verificare l'effettiva applicazione delle norme ma che verificano anche altri aspetti della legislazione quali per esempio la sicurezza sociale.

Analisi di due casi specifici:
PMI: oggi nel 90% delle imprese lavorano meno di 20 persone e questo significa che la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese è organizzata in modo informale. Per ridurre il numero di incidenti in queste realtà è quindi fondamentale comunicare tutte le informazioni necessarie a quello che molto spesso è l'unico dirigente. L'analisi ha messo in evidenza gravi lacune nell'applicazione della normativa sulla sicurezza nelle PMI in particolare vengono sottovalutate l'analisi dei rischi e la formazione dei lavoratori. E la cosa grave è che più spesso le carenze sono state rilevate nei settori a più alto rischio: costruzioni e agricoltura.
Settore pubblico: L'inserimento del settore pubblico all'interno della legislazione in materia di sicurezza sul lavoro è una novità per la maggior parte degli Stati membri. Eppure anche in questo settore esistono problematiche tra cui l'ergonomia, le condizioni di lavoro, la movimentazione dei carichi, gli aspetti organizzativi e i rischi psicosociali.

Conclusioni:
Malgrado i progressi fatti è urgente che gli Stati membri rafforzino ancora di più il loro impegno per l'applicazione della Direttiva in modo che le norme di sicurezza si applichino anche agli altri settori dell'economia.

La direttiva 89/391/CEE del 12 giugno 1989 è stata recepita in Italia dalle seguenti norme:
- D.Lgs. 626 del 19/09/1994, attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro (Supplemento ordinario n. 141 alla GURI - Serie generale - del 12/11/1994 n. 265).
- D.Lgs. 242 del 19/03/1996, modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, recante attuazione di direttive comunitarie riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro (Supplemento ordinario n .75 alla GURI - Serie generale - del 06/05/1996 n. 104 pag. 3).
- D.Lgs. 195 del 23/6/2003 -Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 19/9/1994, n. 626, per l’individuazione delle capacità e dei requisiti professionali richiesti agli addetti ed ai responsabili dei servizi di prevenzione e protezione dei lavoratori, a norma dell’articolo 21 della legge 1/3/2002, n. 39.(GURI Serie generale n° 174 del 29/7/2003).

La direttiva 89/654/CEE del Consiglio del 30 novembre 1989 è stata recepita in Italia dalle seguenti norme:
- D.Lgs 626 del 19/09/1994.
- D.Lgs 242 del 19/03/1996.

La direttiva 89/655/CEE del Consiglio del 30 novembre 1989 è stata recepita in Italia dalle seguenti norme:
- D.Lgs 626 del 19/09/1994.
- D.Lgs 242 del 19/03/1996.

La direttiva 89/656/CEE del Consiglio del 30 novembre 1989 è stata recepita in Italia dalle seguenti norme:
- D.Lgs 626 del 19/09/1994.
- D.Lgs 242 del 19/03/1996.

La direttiva 90/269/CEE del Consiglio del 29 maggio 1990, è stata recepita in Italia dalle seguenti norme:
- D.Lgs 626 del 19/09/1994.
- D.Lgs 242 del 19/03/1996.

La direttiva 90/270/CEE del Consiglio del 29 maggio 1990, è stata recepita in Italia dalle seguenti norme:
- D.Lgs 626 del 19/09/1994.
- D.Lgs 242 del 19/03/1996.
- Legge 3 febbraio 2003, n.14 - Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunita europee. Legge comunitaria 2002 (GURI - Serie generale n° 31 del 07/02/2003).

Per approfondimenti e dettagli è possibile consultare il documento originale disponibile in formato pdf nella sezione "download".

Fonte: Ue
16/02/04
 

Pronto soccorso aziendale (2/2)
Approfondimento a cura di Rolando Dubini, avvocato in Milano.


[La prima parte dell'articolo è stata pubblicata nel numero di ieri di PuntoSicuro].

3. REQUISITI E FORMAZIONE DEGLI ADDETTI AL PRONTO SOCCORSO
Gli addetti al pronto soccorso, la cui designazione è obbligatoria ai sensi dell'articolo 4 comma 1 lett. c), 5 comma 1 lett. a), 12, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, devono essere formati con istruzione teorico e pratica per l'attuazione delle misure di primo intervento interno e per l'attivazione degli interventi di pronto soccorso (articolo 3 decreto in corso di emanazione).
La formazione dei lavoratori designati "è svolta da personale medico" che "nella parte pratica della formazione il medico può avvalersi della collaborazione di personale infermieristico professionale o di altro personale specializzato" (art. 3 decreto interministeriale n. 388/2003).
Per le aziende o unità produttive di gruppo A i contenuti e i tempi minimi del corso di formazione riportati nell'allegato 3 del decreto (che forma parte integrante dello stesso) e devono prevedere anche la trattazione dei rischi specifici dell'attività svolta.
Per le aziende o unità produttive di gruppo B e di gruppo C i contenuti e i tempi minimi del corso di formazione sono riportati nell'allegato 4 sottoriportato.
Il comma 5 dell’articolo 3 del D.M. in corso di emanazione contiene una clausola di salvaguardia ai sensi della quale "sono validi i corsi di formazione per gli addetti al pronto soccorso ultimati entro la data di entrata in vigore del presente decreto", ovvero entro il 3 agosto 2003, tuttavia "la formazione dei lavoratori designati andrà ripetuta con cadenza triennale almeno per quanto attiene alla capacità di intervento pratico".
Per quanto riguarda i lavoratori incaricati del Pronto soccorso e dell'Assistenza medica di emergenza, e il loro ruolo professionale, secondo le Linee Guida Regionali "queste figure dovranno svolgere un ruolo di "attesa attiva" delle strutture esterne preposte ai Pronto soccorso, limitandosi ad evitare l'aggravarsi di danni già eventualmente instaurati ed evitando atteggiamenti eccessivamente "interventistici"" [Linee Guida Regionali, Documento n. 3 - Linee guida su titolo I -La formazione dei soggetti della prevenzione secondo il D. Lgs 626/94 - criteri e orientamenti (a cura del Coordinamento Tecnico Per La Prevenzione Degli Assessorati Alla Sanità Delle Regioni E Province Autonome Di Trento E Bolzano, versione definitiva approvata il 16/07/1996)]. In ogni caso "andranno opportunamente valutati aspetti di tipo personale e caratteriale" di tali soggetti, tra i quali un discreto livello di cultura generale una personale propensione verso l'argomento.

Formazione dei soccorritori
La formazione dei soccorritori deve essere calibrata alle dimensioni dell'azienda e alla particolare natura dei rischi ivi presenti, tenendo conto dell'andamento del fenomeno infortunistico (sede, natura e gravità delle lesioni) e del ruolo svolto dal medico competente (Art. 17 c. 1 lettera m D. Lgs. n. 626/94).
Secondo le Linee guida regionali (Documento 3) ad un livello di base si potrà prevedere l'insegnamento di nozioni elementari del primo soccorso in relazione a:
- danni oculari;
- ferite;
- emorragie;
- ustioni gravi;
- arresto cardio-respiratorio;
- perdita di conoscenza.
Nelle situazioni aziendali più complesse od ove sia presente un rischio maggiore oppure logisticamente disagevoli potrà rendersi necessaria una formazione più specialistica nell'ambito della quale vengano impartite nozioni finalizzate al primo trattamento di: danni oculari, ustioni e causticazioni, ferite, amputazioni, distorsioni, lesioni muscolo-tendinee, lussazioni, fratture, traumi cranici, politraumatismi gravi, folgorazione, intossicazione acuta da inquinanti aerodispersi, avvelenamenti, punture di insetto, morso di vipera, patologia acuta da calore e da basse temperature, epistassi, perdita di coscienza, arresto cardio-respiratorio. Si noti che ai sensi dell'art. 3 e dell'allegato 3 per le aziende di classe A è obbligatoria anche la trattazione dei rischi specifici connessi all'attività aziendale.
In ogni caso la formazione dovrà comprendere l'acquisizione delle seguenti capacità:
- saper descrivere alle unità di soccorso esterno lo stato del soggetto da soccorrere e le caratteristiche topografiche del luogo da raggiungere;
- sapere proteggere la propria persona dai rischi derivanti dall'opera di pronto soccorso.
Le Linee Guida Regionali (Documento 3) ritengono che "la formazione dovrà essere pratica ed essenziale, in grado di dare luogo, al bisogno, a comportamenti precisi ed efficaci e potrà essere direttamente curata dal medico competente" [e segnalano, per la loro efficacia operativa e facilità di apprendimento, i programmi incentrati sulle tecniche BLS (basic life support)].
Quando si procede all'istituzione di un servizio di pronto soccorso interno occorre tener presente quanto segue:
a) il numero dei soccorritori presenti nell'unità produttiva non può essere rigidamente stabilito, ma dovrà comunque essere rapportato al numero di lavoratori contemporaneamente presenti in azienda (ad esempio 1 soccorritore ogni 30 persone in un azienda che non sia a rischio per incidente rilevante) ed alla tipologia di rischio infortunistico presente nello stabilimento produttivo;
b) in ogni caso dovrà essere previsto un sostituto, con pari competenze, per ognuno dei soccorritori individuati, per rimpiazzare l'eventuale assenza;
c) il sostituto dovrà poter rilevare il collega senza incorrere in situazioni fisicamente gravose (ad esempio dopo aver terminato il turno di notte);
d) il numero dei soccorritori contemporaneamente presenti in azienda sarà almeno pari a due, per "coprire" l'eventualità in cui l'infortunato sia uno dei soccorritori stessi.

Il programma per la formazione degli addetti al pronto soccorso è individuato nel decreto ministeriale n. 388/2003, che è obbligatorio.

Allegato 3 D.. 388/2003 - Obiettivi didattici e contenuti minimi della formazione dei lavoratori designati al pronto soccorso per le aziende di gruppo A
[Si veda allegato nella Banca dati di PuntoSicuro].

Allegato 4 D.M. 388/2003 - Obiettivi didattici e contenuti minimi della formazione dei lavoratori designati al pronto soccorso per le aziende di gruppo B e C
[Si veda allegato nella Banca dati di PuntoSicuro].

4. RAPPORTI CON LE STRUTTURE PUBBLICHE DI PRONTO SOCCORSO E AZIONI DEI SOCCORRITORI
L’art. 15 comma 1 D. Lgs. n. 626/94 prevede che il datore di lavoro deve stabilire “i necessari rapporti con i servizi esterni, anche per il trasporto dei lavoratori infortunati”.
L'emergenza sanitaria è affrontabile grazie alla disponibilità di una unità di soccorso che risponda in ogni momento del giorno e della notte alla chiamata telefonica: ciò grazie al numero 118, che fa capo alle strutture ospedaliere della provincia: pertanto è necessario che la persona che chiama i soccorsi sia in grado di fornire rapidamente ai soccorritori precisi riferimenti per permettere all'unità di soccorso di raggiungere il luogo dell'infortunio.
Per una migliore continuità della struttura aziendale di pronto soccorso è opportuno che il lavoratore incaricato di tenere i rapporti con le strutture di soccorso esterne non sia lo stesso che soccorre l'infortunato.
Le Linee Guida Regionali (documento 4) consigliano "che uno dei soccorritori si rechi sempre all'ospedale insieme all'infortunato, al fine di fornire informazioni sulla dinamica dell'infortunio o sull'agente nocivo responsabile della lesione o dell'intossicazione (eventualmente producendo, se disponibile, anche la scheda di sicurezza della/e sostanza/e)".
Non viene ritenuto indispensabile che le aziende dispongano di un automezzo proprio per il trasporto degli infortuni, ma piuttosto, se l'azienda o il posto di lavoro sono ubicati in zona geografica particolare, di un veicolo che consenta di trasportare i soccorritori dal luogo di arrivo dei mezzi di soccorso (ad esempio elicottero, ambulanze) al luogo dell'evento; in caso di estrema necessità tale veicolo potrà anche servire per trasportare l'infortunato. É ovvio che il mezzo di cui l'azienda eventualmente si dota, sia idoneo alle caratteristiche geografiche del luogo (es. veicoli a trazione integrale per luoghi di montagna).
Il Decreto n. 388/2003 dedica particolare attenzione a questi aspetti ai già citati e illustrati articolo 2 e allegato 3.

Articolo a cura di Rolando Dubini, avvocato in Milano.

 
Cefalea, turni e videoterminali
Uno studio ha preso in esame possibili correlazioni tra cefalee e attività lavorative.

Nell’ultimo numero del 2003 del “Giornale italiano di medicina del lavoro ed ergonomia” è stato pubblicato un interessante studio che ha preso in esame i rapporti tra cefalea ed ambiente lavorativo, realizzato da ricercatori dell'Università di Pavia e dell'Università “La Sapienza” di Roma.

“La cefalea, essendo uno dei più comuni sintomi riscontrabili nella pratica medica, costituisce un peso rilevante sia per la società che per l’individuo che ne è affetto. Essa rappresenta comune causa di assenza dal lavoro e di ridotta resa produttiva, pertanto è evidente che indagarne la possibile correlazione con le condizioni lavorative rappresenta un motivo di crescente interesse per la ricerca scientifica.”
Inoltre studiare la prevalenza e la tipologia delle cefalee in determinati gruppi lavorativi è importante in quanto la cefalea è spesso il sintomo fondamentale e di esordio di molte sindromi da intossicazione cronica. I fattori tossici lavorativi in grado di provocare cefalea sono: piombo, monossido di carbonio, nitrocomposti, derivati aromatici degli idrocarburi, esaclorociclopentadiene, diluenti e solventi, rumori, attrezzi vibranti.

Tuttavia vi sono difficoltà metodologiche nel realizzare uno studio epidemiologico sul rapporto cefalee-ambienti di lavoro.
Lo studio presentato ha preso in esame un gruppo di dipendenti ospedalieri sottoposti a visita periodica di controllo, giudicando l’ambiente ospedaliero condizione di per sé predisponente all’insorgenza della cefalea per la forte influenza che esercita lo stress in tale ambito lavorativo.

Dalla ricerca è emerso che “le condizioni lavorative specifiche quali turnazione ed utilizzo di VDT possano giocare un ruolo non marginale nell’insorgenza della cefalea, anche se è possibile che molteplici fattori rischio professionale (chimico, fisico, biologico, ecc.) in genere aspecifici, possano concorrere alla sua insorgenza.”
I ricercatori hanno sottolineato la necessità di uno studio coordinato, focalizzato sull’ambiente di lavoro, per stabilire quale ruolo effettivo abbia l’ambito lavorativo sull’insorgenza della cefalea e quali conseguenze essa apporti all’efficienza lavorativa.
Tale studio dovrebbe riguardare ogni aspetto, incluse le ore di lavoro perse, l’influenza dei fattori ambientali sui pazienti affetti da cefalea ed i problemi di ansia e di stress legati al lavoro.
“Le ricerche effettuate fino a questo punto non hanno evidenziato un fattore di rischio specifico, che esponga una determinata categoria di lavoratori ad un rischio maggiore di sviluppare cefalea.”

 

Il mobbing colpisce anche nel settore pubblico

 

I risultati preliminari di una ricerca dell’Area Organizzazione & Personale

Il mobbing è percepito come un fenomeno figlio della competitività estrema del settore privato e, invece, è ampiamente diffuso anche nel settore pubblico. Si presenta in contesti diversi con caratteristiche diverse, ma può colpire chiunque, indipendentemente da età, sesso e posizione gerarchica. Se le caratteristiche personali sono ininfluenti, le vere cause e, perciò, le soluzioni, sono da ricercare all’interno delle organizzazioni aziendali.
Mentre l’uscita del film Mi piace lavorare. Mobbing di Francesca Comencini con Nicoletta Braschi fa discutere del tema, vengono resi noti i risultati preliminari di un’ampia ricerca in corso sul tema. Paola Caiozzo dell’Area Organizzazione & Personale della SDA Bocconi sta analizzando i casi di chi, dal 1996 a oggi, si è rivolto alla Clinica del Lavoro di Milano e, dopo un percorso diagnostico di tre giorni, si è dimostrato affetto da disturbo dell’adattamento (DDA) o disturbo post-traumatico da stress (DPTS), patologie per le quali la condizione di lavoro è considerata la causa più importante. Su circa 3.000 persone che si sono rivolte, negli anni, alla Clinica del Lavoro, un terzo rientra effettivamente nella categoria dei mobbizzati. L’analisi ha riguardato, finora, 102 casi, con una significatività statistica del 90% e si concluderà ai 300 casi, con una significatività del 99%.
La distribuzione del mobbing per età risulta piuttosto omogenea, con la sola, significativa eccezione dei giovani tra i 21 e i 30 anni, che costituiscono un misero 5,9% dei mobbizzati. È l’età in cui, di fronte alle pressioni dell’ambiente lavorativo, è più facile attuare strategie di exit.
Uomini e donne, in Italia, sono colpiti dal mobbing in percentuale quasi equivalente, a differenza di quanto accade nel resto d’Europa, dove le donne sono colpite più degli uomini. Il dato riflette, però, la minore partecipazione femminile al mercato del lavoro italiano.
I titoli di studio più bassi sembrano mettere al riparo dal mobbing: solo l’1% delle vittime possiede la licenza elementare e i titoli di studio superiori sono sovrarappresentati rispetto alla composizione del mercato del lavoro italiano.
Una specificità del tutto italiana è la massiccia diffusione del mobbing nel settore pubblico. Infine, il mobbing risulta essere fenomeno da grande impresa piuttosto che da piccola.
La ricerca evidenzia, infine, una sindrome tipica per il mobbing nel settore pubblico, caratterizzato da azioni volte a ridicolizzare, umiliare, offendere; creare delle intromissioni nella vita privata; effettuare un controllo eccessivo delle comunicazioni personali; affiancare un collaboratore senza preavviso; rifiutare o fare molte difficoltà per permessi, ferie, trasferimenti.

 

In Italia prevale il mobbing strategico

 

Praticato dai capi, risponde a un disegno di esclusione

Il mobbing è un fenomeno psicologico e sofisticato, secondo i risultati preliminari della ricerca di Paola Caiozzo, dell’Area Organizzazione & Personale della SDA Bocconi: nella sua attuazione non si registra quasi mai l’uso di violenza fisica o molestia sessuale (i fenomeni sono chiaramente distinti). Gli attacchi ai quali è sottoposto il mobbizzato sono di tre tipi: attacchi alla persona, attacchi alla situazione lavorativa e azioni punitive. Tra gli attacchi alla persona sono diffusissimi (l’85% dei mobbizzati dichiara di averli subiti spesso o qualche volta) i comportamenti volti a istigare contro la vittima l’ambiente circostante e le provocazioni volte a fargli perdere il controllo, ma altrettanto tipici sono l’isolamento fisico, la creazione del silenzio intorno al soggetto, l’esclusione dalle attività ricreative e sociali, il rifiuto di collaborazione da parte dei colleghi.
Gli attacchi alla situazione lavorativa si esplicitano in attacchi a livello delle capacità e dell’immagine professionale (critiche continue, mancata considerazione delle proposte, basse valutazioni, attribuzione di colpe) e in attacchi penalizzanti in eccesso (assegnazione di carichi di lavoro e scadenze impossibili) o in difetto (demansionamento, mancata assegnazione di lavoro). Gli attacchi penalizzanti in difetto sono più diffusi di quelli in eccesso. L’attacco punitivo più diffuso è il rifiuto di permessi, ferie, trasferimenti.
Un’altra tipicità italiana è il fatto che gli aggressori siano riconosciuti, nella stragrande maggioranza dei casi, nei superiori (53,5%), mentre i colleghi partecipano pochissimo alle azioni di mobbing (7,1%). Il resto del campione indica come aggressori diverse combinazioni di superiori, colleghi e subalterni. Il mobbing, in alcuni casi, raggiunge una tale intensità emotiva che la vittima perde la lucidità e finisce per sentirsi accerchiata. Nonostante il questionario non comprendesse la voce «tutti» nell’indicazione dei mobber, più del 10% dei rispondenti ha raggiunto un tale grado di esasperazione da aggiungerla a penna.
A seconda dell’intensità della funzione di rinforzo dell’organizzazione, il mobbing può essere strategico, ovvero rispondente a un preciso disegno di esclusione di un lavoratore, o relazionale, ovvero derivante da un’alterazione delle relazioni interpersonali, sia gerarchiche sia coi colleghi. Nel mobbing strategico i mobber sono i manager e la ricerca conferma che le azioni più utilizzate sono quelle che incidono sulla sfera professionale: azioni che mirano a ridicolizzare, umiliare, offendere o provocare la vittima, critiche continue; sovraccarico di lavoro o demansionamento; negazione del diritto alla formazione e rifiuti ad ottenere permessi e ferie; eccessivo ricorso alle visite fiscali. Il mobbing relazionale tra colleghi si caratterizza, invece, per le critiche continue; il rifiuto di comunicazioni dirette; le azioni che mirano a ridicolizzare, umiliare, offendere; i comportamenti volti a istigare l’ambiente contro il mobbizzato.
 

Il mobbing nella realtà italiana
Una ricerca dell’Università Bocconi ne ha colto le peculiarità. Le tipologie di "attacchi" contro i mobbizzati.

Il tema del mobbing è tornato alla ribalta delle cronache nei giorni scorsi, dopo la presentazione al Festival del Cinema di Berlino del film italiano “Mi piace lavorare.(mobbing)”.
Sull’onda di questo interesse l’Area Organizzazione & Personale della SDA-Bocconi ha deciso di rendere noti i risultati preliminari di una ricerca sul fenomeno del mobbing nelle realtà lavorative italiane.
Nella sua indagine Paola Caiozzo sta prendendo in esame di casi, a partire dal 1996, dei pazienti della Clinica del Lavoro di Milano affetti da disturbo dell’adattamento (DDA) o disturbo post-traumatico da stress (DPTS), patologie per le quali la condizione di lavoro è considerata la causa più importante.
Su circa 3.000 persone che si sono rivolte alla Clinica del Lavoro, circa 1.000 rientrano effettivamente nella categoria dei mobbizzati. I risultati presentai si riferiscono ai 102 casi ad oggi analizzati; l’analisi si concluderà ai 300 casi.

Il mobbing in Italia “si presenta in contesti diversi con caratteristiche diverse, ma può colpire chiunque, indipendentemente da età, sesso e posizione gerarchica. Se le caratteristiche personali sono ininfluenti, le vere cause e, perciò, le soluzioni, sono da ricercare all’interno delle organizzazioni aziendali. [..] Una specificità del tutto italiana è la massiccia diffusione del mobbing nel settore pubblico.”

Ecco le caratteristiche dei mobbizzati “all’italiana”.
Età: la distribuzione del mobbing è piuttosto omogenea, con la sola, significativa eccezione dei giovani tra i 21 e i 30 anni, che costituiscono un misero 5,9% dei mobbizzati.
"È l’età - rivela la ricercatrice - in cui, di fronte alle pressioni dell’ambiente lavorativo, è più facile attuare strategie di exit."
Sesso: a differenza dell’Europa, dove le più colpite dal mobbing sono le donne, in Italia la percentuale è leggerente più alta per gli uomini.
Titolo di studio: i lavoratori con titoli di studio più bassi sono meno colpiti dal mobbing: solo l’1% delle vittime possiede la licenza elementare e i titoli di studio superiori sono sovrarappresentati rispetto alla composizione del mercato del lavoro italiano.
Gli attacchi contro i mobbizzati: generalmente gli attacchi ai quali è sottoposto il mobbizzato sono di tre tipi: attacchi alla persona, attacchi alla situazione lavorativa e azioni punitive.
Tra gli attacchi alla persona sono diffusissimi (l’85% dei mobbizzati dichiara di averli subiti spesso o qualche volta) i comportamenti volti a istigare contro la vittima l’ambiente circostante e le provocazioni volte a fargli perdere il controllo, ma altrettanto tipici sono l’isolamento fisico, la creazione del silenzio intorno al soggetto, l’esclusione dalle attività ricreative e sociali, il rifiuto di collaborazione da parte dei colleghi.
Gli attacchi alla situazione lavorativa si esplicitano in attacchi a livello delle capacità e dell’immagine professionale (critiche continue, mancata considerazione delle proposte, basse valutazioni, attribuzione di colpe) e in attacchi penalizzanti in eccesso (assegnazione di carichi di lavoro e scadenze impossibili) o in difetto (demansionamento, mancata assegnazione di lavoro). Gli attacchi penalizzanti in difetto sono più diffusi di quelli in eccesso.
L’attacco punitivo più diffuso è il rifiuto di permessi, ferie, trasferimenti.
Gli aggressori (mobber): un’altra tipicità italiana è il fatto che gli aggressori siano riconosciuti, nella stragrande maggioranza dei casi, nei superiori (53,5%), mentre i colleghi partecipano pochissimo alle azioni di mobbing (7,1%). Il resto del campione indica come aggressori diverse combinazioni di superiori, colleghi e subalterni. Più del 10% degli intervistati ha indicato, aggiungendola nel questionario, la voce “tutti”.
Mobbing strategico: A seconda dell’intensità della funzione di rinforzo dell’organizzazione, il mobbing può essere strategico, ovvero rispondente a un preciso disegno di esclusione di un lavoratore, o relazionale, ovvero derivante da un’alterazione delle relazioni interpersonali, sia gerarchiche sia coi colleghi. Nel mobbing strategico i mobber sono i manager e la ricerca conferma che le azioni più utilizzate sono quelle che incidono sulla sfera professionale: azioni che mirano a ridicolizzare, umiliare, offendere o provocare la vittima, critiche continue; sovraccarico di lavoro o demansionamento; negazione del diritto alla formazione e rifiuti ad ottenere permessi e ferie; eccessivo ricorso alle visite fiscali. Il mobbing relazionale tra colleghi si caratterizza, invece, per le critiche continue; il rifiuto di comunicazioni dirette; le azioni che mirano a ridicolizzare, umiliare, offendere; i comportamenti volti a istigare l’ambiente contro il mobbizzato.

 

"Lettera di diffida" per le aziende che espongono i lavoratori al fumo passivo
Particolarmente a rischio dipendenti di pub, ristoranti e discoteche. L’entrata in vigore della legge Sirchia comporterà un effettivo miglioramento degli ambienti di lavoro?

Sono stati recentemente presentati dall’Istituto dei Tumori di Milano (INT) (Ambulatorio per i danni da fumo) i risultati di rilevazioni delle concentrazioni di inquinanti, in particolare delle polveri sottili PM10, presso pub, discoteche e ristoranti nella zona di Milano.
La concentrazione di PM10 rilevata è di circa 600-700 microgrammi al metro cubo, ma in un pub ha toccato il picco di 1400 microgrammi. Un valore elevatissimo se si pensa che la soglia massima per l’ambiente esterno è di 50 microgrammi.

Quella sui pub e ristoranti è solo una delle rilevazioni a tappeto effettuate in questi anni dall’Istituto dei Tumori. Indagini che hanno riguardato tutti i luoghi aperti al pubblico, ospedali, treni, locali di vario genere. Già nel 2002, con uno studio pubblicato su “Epidemiologia e Prevenzione”, i ricercatori dell’INT hanno evidenziato che il PM10 da fumo passivo di tabacco in locali chiusi può eccedere di decine di volte le concentrazioni consentite per legge nell’ambiente outdoor (50 mg) anche in ambiente ventilato.
Ancor più grave la situazione se si considerano le polveri fini e ultrafini (PM2,5, e PM1) generate dal fumo di sigaretta.

Un aspetto rilevante riguarda l’esposizione di baristi, dipendenti e proprietari dei locali al fumo passivo, che è definito dall’OMS come agente cancerogeno del Gruppo I, così come l’amianto.
La legge infatti tutela i lavoratori dal fumo passivo ma, secondo il dott. Boffi dell’Istituto dei Tumori, dovrebbero essere prese misure speciali, trattandosi di un agente cancerogeno.
“Il 30% delle persone che si sono rivolte all’ Ambulatorio per i danni da fumo – ha dichiarato il dott. Boffi – aveva problemi di fumo passivo”.
“Per aiutare i fumatori passivi nell'ambiente di lavoro è a disposizione un Consulente Legale, con l'eventuale compilazione di personalizzate "lettere di diffida". Tali lettere sono di tre tipi, citando ognuna studi scientifici e sentenze giuridiche diverse a seconda della categoria di fumatore passivo a cui il soggetto appartiene: i dipendenti di Aziende private, quelli in Enti pubblici e infine le donne in gravidanza, particolarmente a rischio se esposte al fumo passivo per loro stesse e per il loro futuro bambino.[…]”
Riferendoci ai dati del maggio 2003, ai fumatori passivi sono state consegnate 53 lettere di diffida, di cui 16 per Enti pubblici e 37 per Aziende private (di cui 1 a una donna in gravidanza): 33 lavoratori hanno a loro volta consegnato la lettera, e in 20 luoghi di lavoro sono stati presi provvedimenti per vietare il fumo.

Con l’entrata in vigore nel gennaio 2005 della Legge Sirchia contro il fumo (Legge 16 gennaio 2003, n. 3), sarà consentito fumare nei locali pubblici solo in specifiche aree, con determinate caratteristiche riguardanti anche la ventilazione dei locali (requisiti tecnici definiti dal Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri 23 dicembre 2003). [A tale proposito si veda PuntoSicuro del 8.1.4].
Ma attrezzando l’area fumatori a norma di legge vi è un effettivo abbattimento delle polveri sottili e di altri inquinanti quali benzene, monossido di carbonio ecc?
A tale proposito il dott. Boffi ha annunciato la prossima pubblicazione di importanti risultati di esperimenti effettuati in un ambiente nel quale è stato riprodotto quanto previsto dalla legge Sirchia per le aree fumatori.
Valutare l’effettiva efficacia dei sistemi utilizzati è assai importante anche per la tutela di coloro che lavorano nei locali, infatti gli avventori scelgono deliberatamente di accedere all’area fumatori del ristorante a differenza dai dipendenti del locale, che per svolgere il loro lavoro devono recarsi in quelle zone del locale.
Il Decreto 388/2003 dal punto di vista di un medico del 118 (1/2)
A cura del dott. Mauro Batisti. “Decreto 15 luglio 2003, n. 388 sul Pronto Soccorso Aziendale: un'occasione in parte mancata”. (Presentate anche interessanti considerazioni riguardanti il contenuto della cassetta di pronto soccorso).

Nella Gazzetta Ufficiale n° 27 (Serie Generale) del 3 Febbraio 2004, con qualche anno di ritardo, è stato finalmente pubblicato il Decreto 15 luglio 2003, n. 388, decreto attuativo del D.Lgs 626/94 relativamente all’organizzazione del pronto soccorso in azienda.
Il testo del Decreto 388/2003 contiene, come del resto in tutta la nostra legislazione, luci ed ombre.
Fra gli aspetti positivi dobbiamo apprezzare il riferimento e l’integrazione con il DPR 27/3/1992 che ridefinisce ed uniforma il sistema di emergenza sanitaria ospedaliero e territoriale coordinato dalle centrali operative 118.
Non si può infatti parlare di Primo Soccorso senza l’attivazione del 118, azione che spetta al singolo cittadino, nel nostro caso al cittadino – lavoratore, e rappresenta il “primo anello ” della catena della sopravvivenza. Nella organizzazione pratica all’interno delle singole aziende questo aspetto dell’allarme deve essere prioritario.
A questo scopo il Decreto 388/2003 obbliga alla dotazione di un sistema di comunicazione finalizzato alla chiamata di allarme, che consiste ordinariamente nei normali apparecchi per la telefonia fissa o mobile. Questo obbligo che poteva apparire scontato in realtà non era e non è sempre garantito automaticamente in alcuni luoghi di lavoro. Quante volte è capitato che una chiamata di emergenza sia stata ritardata per la indisponibilità di un telefono nei pressi del luogo dell’evento!
Un altro aspetto positivo, che comunque poteva essere meglio definito soprattutto in relazione all’ubicazione territoriale delle aziende o dei singoli luoghi di lavoro, è quello che riguarda la classificazione delle Aziende in tre gruppi. Il rischio è infatti connesso anche con il tempo di intervento del servizio di Emergenza sanitaria.
Anche se è vero che nelle linee guida del sistema 118 dovrebbe essere garantito l’arrivo di un mezzo di soccorso sanitario avanzato in otto minuti in area urbana ed in venti minuti in area rurale ma in alcune circostanze ed in alcune aree disagiate questi tempi possono essere di gran lunga superati. A questo proposito è auspicabile che nelle aziende o nei luoghi di lavoro ubicati in punti remoti o disagiati del territorio si provveda alla redazione di procedure specifiche per l’intervento dell’Elisoccorso, con l’identificazione di un area idonea all’atterraggio, la mappatura geografica, la mappatura di ostacoli aerei ecc.
In questo modo si darebbe piena attuazione al comma 1 dell’art 1 ed al comma 4 dell’art 2 del nostro 388. Quando si parla di “raccordo ” (art.2 comma 4) fra il sistema di emergenza interno e quello di Emergenza Sanitaria Territoriale, che di fatto consiste nell’adozione da parte dell’azienda di procedure di allarme, di primo soccorso, di predisposizione all’arrivo dei soccorsi conformi e coerenti con quelle adottate dal sistema 118, sarebbe auspicabile che questo non riguardasse solo le aziende del gruppo “A” ma anche le B e le C che possono comunque aver bisogno di interventi di soccorso.
Nel comma 5 dell’art 2 possiamo identificare un altro aspetto positivo del decreto e cioè la tutela di lavoratori che operano in luoghi isolati con l’obbligo della dotazione di un sistema di comunicazione e di un pacchetto di medicazione.
Alcune considerazioni vanno fatte sull’art 3 che riguarda la formazione degli addetti al Pronto Soccorso . Possiamo concordare con tutti i commi ed anche sulla durata e sui contenuti del programma di formazione. Riteniamo altresì importante e corretta l’identificazione dei docenti nelle figure del medico, degli specialisti dei servizi di emergenza e degli infermieri professionali, visto che in passato si narrano esperienze di “formatori” provenienti dagli ambienti più disparati.
In questa occasione andavano meglio definiti il criteri di nomina degli addetti, il numero in rapporto all’estensione dell’azienda, delle unità produttive, delle lavorazioni in turni. Nelle linee guida di applicazione della 626 si parlava infatti di “almeno due addetti presenti” ma questo non è stato ridefinito.
Un altro aspetto che a mio avviso andava meglio definito è quello che riguarda la “sanatoria” di corsi fatti precedentemente al 3 agosto 2004 ( e quindi molti che ancora possono essere fatti) senza un minimo di garanzia. Comunque anche per questi corsi vale l’aggiornamento entro tre anni per cui potranno pian piano essere riaggiornati.
Per quanto riguarda il monte ore delle due tipologie di corso ed il programma indicato, quanto previsto dal decreto è pienamente condivisibile, tuttavia sarebbe stato opportuno un riferimento alle Linee Guida attualmente riconosciute sulla formazione (BLS, PHTLS ecc) e soprattutto l’inserimento di un tetto al rapporto docente/allievi. Senza tale riferimento si rischia di assistere a formazioni meramente speculative con grupponi di decine di partecipanti senza garanzia di qualità di apprendimento.
Fin qui , di fatto, il giudizio complessivo del decreto 388 è tutto sommato positivo.
Riguardo invece al “ famoso ” contenuto minimo della Cassetta di Pronto Soccorso e del Pacchetto di Medicazione, che per lunghi anni è stato la dannazione di molte aziende e di molti lavoratori, ritengo che non siano strati fatti grossi passi avanti e ci troviamo di fronte nuovamente un elenco che suscita non pochi dubbi.

Riguardo ai contenuti minimi ritengo debbano essere fatte alcune considerazioni.

Guanti sterili 5 paia
In tutti gli interventi di soccorso territoriali dall’ambulanza all’elicottero i guanti sterili vengono utilizzati in pochissimi casi essendo sufficienti guanti monouso anche non sterili. Il mio consiglio è quello di integrare alcune paia di guanti monouso non sterili, preferibilmente in nitrile e non in lattice. ( Il nitrile garantisce migliore protezione, nel caso si debba aver contatto con aree della pelle contaminate da oli o sostanze ed inoltre il nitrile è meno allergizzante )


Flacone di soluzione cutanea di iodopovidone al 10% di iodio da 1 litro (1)
Ritengo questa scelta corretta per il tipo di disinfettante indicato, che attualmente è quello più utilizzato nel sistema dell’emergenza, ma francamente appare paradossale la confezione da un litro . Immaginate la maneggevolezza di una cosa del genere per medicare una piccola ferita, oltre al fatto che una volta aperto ogni prodotto tende a denaturarsi ed a perdere quelle caratteristiche di sterilità. In condizioni di utilizzo corrente, quale può essere quello di una comune azienda, un litro di questo prodotto dovrebbe essere sufficiente per alcuni anni. Confidiamo in una svista del Ministero e nella clemenza necessaria a consentirci di usare lo stesso prodotto ma in contenitori più piccoli, massimo da 250 ml in modo da avere sempre disinfettante più fresco in una forma maneggevole.
Fra i disinfettanti è scomparsa l’acqua ossigenata che in alcune ferite rappresenta ancora una sicurezza contro germi anaerobi , ed è scomparso anche il clorossidante che rappresentava un ottimo prodotto per decontaminare ambienti sporchi di sangue. Si auspica che questi due prodotti restino nelle aziende magari indicati fra le integrazioni obbligatorie di competenza del Medico del Lavoro.

Flaconi di soluzione fisiologica ( sodio cloruro – 0,9 %) da 500 ml (3 flaconi)
La soluzione fisiologica è indicata nel lavaggio di alcune ferite ma nella fase di primo soccorso può essere sufficiente l’acqua potabile . Anche per il primo soccorso all’ustionato occorre raffreddare con acqua per almeno 15 minuti e stesso discorso vale per la decontaminazione da sostanze . Inoltre i flaconi di soluzione fisiologica per essere utilizzati ai fini di lavaggio vanno stappati completamente e le confezioni attualmente in commercio, essendo concepite come infusioni, non rendono assolutamente agevole tale manovra(sigilli in alluminio che vanno tagliati, ghiere in alluminio o plastica di non agevole rimozione ecc ) . A mio parere, quindi inserendo 3 flaconi di soluzioni fisiologica nella dotazione minima della cassetta di Pronto Soccorso, il legislatore ha imposto l’obbligo di inserire un elemento utile, ma in realtà non indispensabile. Consideriamo inoltre che fra il disinfettante e la fisiologica il peso della cassetta è già gravato di circa 3 kg.

Compresse di garza sterile 10 x 10 in buste singole (10 compresse)
Ci sembra un quantitativo ragionevole se intendiamo come compressa la busta di garza 10x10 composta da 100 strati di garze.

Compresse di garza sterile 18x40 in buste singole ( 2 buste o scatole?)
Se con “2” intendiamo due buste di 18 x 40 questo mi sembra chiaramente insufficiente , se invece intendiamo due statole standard da 12 il quantitativo mi pare adeguato.

Teli sterili monouso ( 2 teli )
Apprezziamo questo inserimento, che spesso è indispensabile, ma sarebbe stata importante una indicazione sulle misure minime che riteniamo non possano scendere al di sotto del 50x60 preferibilmente il 100x100. Vista la tendenza “minimale” di molti produttori non ci stupiremmo di trovare “teli sterili” di 15 x 15!

Pinzette da medicazione sterili monouso (2)
Riguardo al fatto che siano richieste pinzette “sterili”, una sola considerazione: difficilmente in azienda, nella fase di primo soccorso , può essere mantenuto un campo sterile e tutto sommato raramente la sterilità rappresenta una priorità assoluta in questa fase.

Confezione di rete elastica di misura media (1)
Confezione di cotone idrofilo (1)
Confezioni di cerotti di varie misure pronti all’uso (2)
Nulla da considerare.


Rotoli di cerotto alto cm 2,5 (2)
Il cerotto a rotolo nelle operazioni di soccorso è estremamente importante e concordiamo pienamente con la misura idonea di 2 cm e mezzo e con il fatto che ce ne siano almeno due rotoli

Un paio di forbici
Avremo preferito l’aggiunta “ taglia abiti “ poiché in molte cassette troviamo forbicine “ finte ” che non servono assolutamente a nulla.

Lacci emostatici ( 3 )
Anche in questo caso avremmo preferito l’aggiunta “arterioso “ , l’unico laccio che possiamo definire emostatico nella fase di primo soccorso . Se si continuano a posizionare nelle cassette al posto del laccio emostatico arterioso i lacci di lattice da prelievo immaginiamoci il successo in caso di sanguinamento potenzialmente mortale da un arteria femorale!

Ghiaccio pronto uso ( due confezioni )
Una delle indicazioni più importanti all’utilizzo del ghiaccio è indubbiamente la protezione di una parte amputata ed in questo caso due buste sono francamente insufficienti

Sacchetti per i rifiuti (2)
Inserimento apprezzabile per contenere le contaminazioni da sangue

Termometro
A tale proposito si deve sottolineare la necessità di insegnare l’interpretazione del dato.

Apparecchio per la misurazione della pressione arteriosa
Su questo inserimento occorre fare qualche considerazione di ordine pratico. La prima è che nell’allegato non viene specificato se occorre un modello manuale o un modello elettronico automatico. Per l’utilizzo corretto dell’apparecchio manuale è necessario un buon addestramento e soprattutto un utilizzo frequente altrimenti la percezione dei toni non è agevole. L’apparecchio elettronico è di più facile utilizzo anche se l’affidabilità cambia in base ai modelli. Ma a prescindere da queste note tecniche sono altre le considerazioni più importanti. In primo luogo nelle procedure di primo soccorso e di rianimazione di base che possono essere di pertinenza del soccorritore cosiddetto “laico”, cioè non appartenente alle professioni sanitarie, la misurazione della pressione arteriosa non è mai prevista né ritenuta un dato indispensabile. Infatti nè le procedure BLS (Basic Life Support ) nè le procedure PHTLS ( Pre Hospital Trauma Life Support ) prevedono la misurazione della pressione. In altre condizioni che possiamo raccoglere nel gruppo dei cosiddetti “malori” la misurazione della pressione arteriosa può rappresentare solo uno dei tanti criteri di inquadramento clinico e rappresenta pertanto un parametro di “ diagnosi ” che non può essere affidato ad un soccorritore occasionale. Ammettiamo che un addetto al pronto soccorso misuri la pressione ad un collega che “ si sente male “ e trovi un valore di 110/65. Le domande che si pongono sono tante : il valore è attendibile? Il valore è normale per quella persona ? il valore come si associa agli altri sintomi che la persona manifesta? ed alla fine, che decisione prendiamo sul destino di questa persona, si accompagna a casa, si porta all’ospedale ecc? Come si vede i problemi non sono di poco conto ed anche quando che si decide di chiamare il 118 la comunicazione del dato della pressione , non potendo essere ritenuto dall’operatore di centrale attendibile non aggiunge nulla alla valutazione. Sintesi del commento : strumento di fatto inutile se non propriamente dannoso sia per la persona assistita che per il soccorritore occasionale che rischia di essere gravato di responsabilità non proprie.

[Continua]
[La seconda parte dell'articolo sarà pubblicata sul numero di lunedì 16 febbraio 2004].

Articolo a cura del dott. Mauro Batisti, Presidente Nazionale del COMET (Coordinamento Medici Emergenza Territoriale). Il dott. Batisti lavora presso "118 FIRENZE
Il Decreto 388/2003 dal punto di vista di un medico del 118 (2/2)
A cura del dott. Mauro Batisti. “Decreto 15 luglio 2003, n. 388 sul Pronto Soccorso Aziendale: un'occasione in parte mancata”. (Interessanti considerazioni riguardo il contenuto della cassetta di pronto soccorso).

[La prima parte dell’articolo è pubblicata sul numero di PuntoSicuro del 13.02.2004].

Le assenze eccellenti

Ritengo che il contenuto “minimo” della cassetto di Pronto Soccorso sia stato reso veramente minimo! E’ vero che il Decreto 388/2003 in più occasioni affida al datore di lavoro, al Medico competente ed ai servizi di Emergenza la possibilità di integrare con attrezzature e presidi le dotazioni di primo soccorso ma , vista l’esperienza, gli adeguamenti se non espressi in maniera un po’ forzata vanno sempre nella direzione del rispetto del “minimo del minimo del minimo"; questa non è certo una buona garanzia per il lavoratore infortunato.

Cosa avremmo allora preferito in aggiunta agli elenchi dei due allegati, come presenze indispensabili ?
Innanzitutto almeno una o due coperte Isotermiche metalliche, considerato il pericolo dell’ipotermia che il traumatizzato o anche la persona colta da malore possono correre in inverno o con temperature ambientali basse.
Segnalo inoltre la mancanza di una o due Bende Elastiche utili in tante occasioni (ferite estese, morso di vipera, sanguinamenti venosi della gamba ecc).
Inaccettabile a mio parere l’assenza di una Maschera per la Ventilazione Artificiale o meglio un sistema Pallone – Maschera raccordabile in alcune esposizioni ad una Bombola di Ossigeno anche monouso.
Altro presidio indispensabile è il cuneo di gomma per proteggere la lingua nella crisi epilettica o in manifestazioni simili.
Opportuno sarebbe stato inoltre inserire presidi per la protezione degli occhi come dei semplici tamponi per il bendaggio oculare. La mancanza di questi presidi contrasta infatti anche con gli argomenti della formazione degli allegati 3 e 4 che sono invece ben articolati e completi.

Auspichiamo pertanto che i Medici del lavoro con l’ irrinunciabile collaborazione e consulenza dei Medici dell’ Emergenza Sanitaria facciano acquisire alle singole Aziende i presidi indispensabili a garantire corrette operazioni di soccorso.

Il Decreto 388/2003 indurrà sicuramente tutti i soggetti interessati a confrontarsi in dibattiti, incontri e momenti di discussione, l’augurio finale è che questo importante decreto, anche se incompleto, venga applicato in tutte le aziende con intelligenza, buon senso e forte senso pratico nell’interesse del lavoratore in pericolo, ricordando comunque che la prevenzione è la migliore forma di soccorso.

Articolo a cura del dott. Mauro Batisti, Presidente Nazionale del COMET (Coordinamento Medici Emergenza Territoriale). Il dott. Batisti lavora presso "118 FIRENZE SOCCORSO".