L’OBBLIGO PER IL LAVORATORE DI RESTARE A CASA NELLE FASCE ORARIE PER IL CONTROLLO MEDICO NON SUSSISTE NEL CASO DI ASSENZA DOVUTA AD INFORTUNIO SUL LAVORO La legge si riferisce solo alle assenze per malattia e deve essere interpretata restrittivamente (Cassazione Sezione Lavoro n. 1247 del 30 gennaio 2002, Pres. Sciarelli, Rel. Amoroso).
Elisabetta P., dipendente della S.p.A. SATAP con mansioni di addetta all’esazione dei pedaggi autostradali, si è assentata nel giugno del 1996 per sottoporsi a cure in seguito ad infortunio sul lavoro. Su richiesta dell’azienda sono state disposte due visite mediche di controllo; in entrambi i casi il sanitario incaricato, presentatosi presso il domicilio della lavoratrice nelle prescritte fasce orarie, non l’ha trovata in casa. Per il mancato reperimento, l’azienda le ha inflitto per due volte la sanzione disciplinare della sospensione, la prima di tre giorni e la seconda di cinque giorni. La lavoratrice ha impugnato le sanzioni in sede giudiziaria chiedendone l’annullamento. Sia il Pretore di Asti che, in grado di appello, il locale Tribunale hanno ritenuto illegittimi e nulli i due provvedimenti disciplinari, affermando che l’obbligo per il lavoratore di restare a casa nelle fasce orarie previste per i controlli medici è stabilito dalla legge n. 638 del 1983 solo nel caso di assenze per malattia e non per quelle dovute ad infortunio.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1247 del 30 gennaio 2002, Pres. Sciarelli, Rel. Amoroso) ha rigettato il ricorso dell’azienda. Le norme relative alle fasce orarie di reperibilità che il lavoratore deve osservare ai fini dei controlli medici in caso di assenza (art. 5 della legge n. 638 del 1983) – ha affermato la Corte – devono interpretarsi restrittivamente, dal momento che incidono sul diritto garantito al lavoratore, quale cittadino, dall’art. 16 della Costituzione, alla libertà di movimento nel territorio dello Stato; pertanto esse riguardano solo gli accertamenti espressamente indicati dal legislatore, ossia quelli relativi a malattie ordinarie e non anche quelli sullo stato di inabilità conseguente ad infortunio sul lavoro. In materia – ha affermato la Corte – può ritenersi sussistente per il lavoratore soltanto un generico obbligo di correttezza e buona fede, che implica un atteggiamento collaborativo per rendere possibile il controllo; questo generico obbligo può anche essere meglio specificato dalla contrattazione collettiva; deve comunque escludersi l’applicabilità delle specifiche prescrizioni recate dalla legge n. 683 del 1983 in materia di reperibilità.
 
 
 
 
 
 
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L’UFFICIALE ESATTORIALE COLPITO DA  DEPRESSIONE E DIVENUTO INIDONEO ALLE MANSIONI ASSEGNATEGLI NON PUO’ ESSERE LICENZIATO PER SUPERAMENTO DEL COMPORTO DI MALATTIAL’inidoneità giustifica il licenziamento solo se l’azienda non ha possibilità di impiegarlo in altri compiti (Cassazione Sezione Lavoro n. 572 del 21 gennaio 2002, Pres. Sciarelli, Rel. Mileo).
Vincenzo F., dipendente della S.p.A. GET, azienda esattoriale, ha svolto per alcuni anni le mansioni di ufficiale addetto alla riscossione coattiva dei tributi, mediante accessi nelle abitazioni dei contribuenti e pignoramenti. Egli è stato colpito da sindrome depressiva acuta di tipo nevrotico. I medici specialisti che l’hanno avuto in cura hanno stabilito che la malattia dipendeva dal tipo di mansioni svolte, che comportavano per il lavoratore uno stress abnorme; di ciò essi hanno tratto riscontro dal fatto che i sintomi si attenuavano durante le assenze e si accentuavano alla ripresa dell’attività lavorativa. Il lavoratore ha chiesto di essere destinato ad altre mansioni, ma l’azienda ha risposto negativamente e, quando le assenze per malattia hanno superato il periodo di comporto previsto dal contratto collettivo, lo ha licenziato. Ne è seguita una causa davanti al Pretore di Cosenza che, dopo avere disposto una consulenza medica, ha annullato il licenziamento ordinando la reintegrazione del lavoratore e condannando l’azienda al risarcimento del danno. In grado di appello il Tribunale di Cosenza ha confermato la decisione del Pretore in quanto, pur avendo accertato il superamento del periodo di comporto per malattia, stabilito dal contratto collettivo in 180 giorni, ha ritenuto che nel caso in esame si fosse verificata una vera e propria inidoneità del lavoratore alle mansioni; pertanto l’azienda avrebbe dovuto verificare la possibilità di adibire il dipendente a mansioni diverse e compatibili con il suo stato di salute, e solo se questa possibilità fosse risultata inesistente, avrebbe potuto procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che il Tribunale aveva disapplicato l’art. 2110 del codice civile secondo cui il lavoratore può essere licenziato quando le sue assenze per malattia superino il limite stabilito dal contratto collettivo.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 572 del 21 gennaio 2002, Pres. Sciarelli, Rel. Mileo) ha rigettato il ricorso. Non è dubbio – ha affermato la Corte – che il licenziamento, formalmente originato dal superamento del periodo di comporto, in effetti vada ancorato all'anomalo comportamento aziendale, sotto il duplice profilo della violazione dell'art. 2087 cod. civ. e del mancato reperimento, nel quadro della organizzazione aziendale, di altro posto di lavoro più adatto alle accertate, precarie condizioni di salute del soggetto, incompatibili con le mansioni da lui espletate, per di più in condizioni di marcato ed irreversibile disadattamento ambientale. L’art. 2087 cod. civ. – ha osservato la Corte – impone all'imprenditore di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le cautele e gli accorgimenti che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza, la tecnica e le condizioni di salute dei dipendenti, si appalesino necessari e idonei a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale degli stessi, adoperandosi, nei limiti delle varie esigenze e del bilanciamento degli opposti interessi, a creare le situazioni più favorevoli per ottenere dai propri lavoratori il miglior rendimento secondo le proprie capacità in ragione di salute, di idoneità e di adattamento di ognuno alle esigenze lavorative proprie dello specifico settore della impresa.
La Corte ha ricordato inoltre la sua giurisprudenza secondo cui, in caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni, il licenziamento deve essere evitato ove sia possibile impiegarlo in altri compiti ed egli lo richieda; se intenda procedere al licenziamento l’azienda dovrà provare il giustificato motivo di licenziamento, dimostrando che, nell'ambito del personale in servizio e delle mansioni già assegnate, un conveniente impiego dell'infermo non è possibile o, comunque, compatibile con il buon andamento dell'impresa; il lavoratore avrà, a sua volta, l’onere di contrastare tale prova, indicando a sua volta specificamente le mansioni esercitabili e non nocive per la sua salute, nonché dimostrando la sua idoneità alle stesse.
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L’azienda risponde dell’infortunio subito dal lavoratore per la una inesperienza – Specie se si tratta di un giovane - Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza: ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al dipendente, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del lavoratore, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore.
Il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro a norma dell'art. 2087 cod. civ., rilevante anche in relazione alle condotte volontarie e di segno contrario del dipendente cui non sia opposto un adeguato controllo, è particolarmente intenso nei confronti del lavoratore di giovane età e professionalmente inesperto che sia addetto ad una lavorazione di particolare pericolosità.
E' ben vero che il datore di lavoro è esonerato da responsabilità quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità e esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute (Cass. 9805/1998 cit.), ma anche questi caratteri vanno valutati in rapporto all'esperienza lavorativa del dipendente medesimo (Cass. 13690/2000) (Cassazione Sezione Lavoro n. 326 del 12 gennaio 2002, Pres. Spanò, Rel. De Matteis).