Tribunale Civile di Forlì - Giudice del lavoro
Sentenza 28 gennaio 2005 n. 28
Giudice: Dott. Carlo Sorgi
Motivi della decisione
Con ricorso presentato alla sezione del Lavoro del Tribunale di Forlì Tizia
dichiarava di essere dipendente dell'Amministrazione scolastica dal 16/10/76
con qualifica di assistente amministrativa e di aver prestato servizio dal
1/9/2000 presso la Direzione Didattica del VI Circolo di Forlì. Riferiva la
ricorrente di essere stata sottoposta ad una serie di comportamenti ostili in
tale ultima sede di lavoro, analiticamente indicati nel ricorso, che le
avevano provocato una patologia depressiva causata, appunto, dalla
conflittualità nell'ambiente di lavoro e che aveva determinato un lungo
periodo di malattia e la dichiarazione di inidoneità al servizio. Si chiedeva
con il presente ricorso che venisse accertata l'illegittimità del
comportamento dell'Amministrazione nei suoi confronti con conseguente
risarcimento danni per danni alla professionalità ed alla salute della
ricorrente ed il diritto ad un pensionamento anticipato determinato dalle
ragioni lavorative esposte in ricorso.
Per la Direzione Didattica del VI Circolo si costituiva l'Avvocatura dello
Stato. Secondo la linea di difesa dell'Avvocatura nessun torto era stato
compiuto nei confronti della Tizia che era sempre stata trattata
dall'Amministrazione, prima come nel VI Circolo, alla pari degli altri
dipendenti. Si chiedeva, pertanto, il rigetto del ricorso.
Nel corso del giudizio si procedeva ad escutere i numerosi testi richiesti
dalle parti. Nel corso della fase istruttoria si dava corso anche ad una
consulenza medica per accertare l'eventuale presenza di patologie nella
ricorrente e, in caso affermativo, la riferibilità delle stesse all'attività
lavorativa.
Veniva presentato, nell'ultima fase del giudizio, un ricorso ex art. 700
c.p.c. contro provvedimento Centro Servizi Amministrativi di Forlì-Cesena nel
quale si invitava il dirigente scolastico della direzione didattica del VI
circolo a risolvere il rapporto al termine del periodo di comporto. Veniva
richiesta la revoca del provvedimento richiamato.
Nelle more tra il ricorso ex art. 700 c.p.c. e la discussione dello stesso
perveniva la comunicazione del dirigente scolastico in data 24/11/2004,
successivamente integrato da provvedimento 1/12/2004, che decretava la
conclusione del rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto,
questo durante un giudizio che - come confermato dalla consulenza medica in
corso - doveva verificare se la patologia derivasse da ragioni lavorative.
Questa circostanza rendeva, conseguentemente, non più utile il provvedimento
di urgenza richiesto proprio per inibire quanto compiuto dall'amministrazione
e, conseguentemente, il giudice rinviava anche per tale profilo alla
conclusione nel merito.
All'esito della discussione la causa appariva matura per la decisione.
Motivi della decisione
Ritiene questo giudice che il ricorso possa essere accolto nei molteplici
aspetti per i quali è stato presentato, con eccezione della domanda rivolta ad
ottenere il pensionamento anticipato poiché le condizioni fisiche della
ricorrente, per quanto gravi, non risultano stabilizzate.
L'ampia fase istruttoria ha consentito di ricostruire adeguatamente il "
burrascoso" periodo di permanenza presso il VI circolo della Tizia dal
settembre 2000.
Esaminando le questioni che si sono presentate e seguendo un criterio
esclusivamente cronologico il primo problema che la ricorrente ha avuto nel
nuovo posto di lavoro è stato quello di dover operare con un supporto
informatico obsoleto, un computer che non riusciva a far girare il programma
che le era stato installato (teste L.). Richiesto un nuovo computer lo stesso
non veniva concesso alla Tizia, che doveva accontentarsi di uno schermo per il
video, sul presupposto che non vi erano a disposizione altri macchinari più
validi. Però, in seguito, alla assistente I., collega della ricorrente nella
medesima scuola, veniva concesso in uso un computer più recente, prelevato dal
laboratorio.
Da quanto è dato comprendere sicuramente la situazione delle strutture
informatiche del VI circolo appare desolante, tanto da poter sostituire una
delle famose " I" richiamate dalla riforma scolastica, quella
dell'informatica, con la " A " di assenza, ma rimane la circostanza che alla
Tizia è stato negato quello che, successivamente, alla collega I. è stato
concesso. Dire che non sia un buon inizio nei rapporti con il nuovo istituto
scolastico è un eufemismo.
Il secondo episodio è quello relativo al protocollo e che trae origine da
uno scontro tra la direttrice dei servizi amministrativi Sempronia e la
ricorrente. La Sempronia si era rifiutata di concedere un prolungamento
dell'orario alla Tizia per ragioni di servizio in quanto illegale, poiché
superiore al limite delle ore quotidiane consentite, ed all'osservazione della
ricorrente che altre colleghe, compresa la Sempronia stessa, avevano superato
in altre circostanze tale limite era nata una animata discussione. All'esito
di tale dissidio poiché la questione riguardava anche l'inserimento nel
protocollo delle questioni relative alle ferie ed le malattie il servizio di
protocollo, prima tenuto dalla collega P. - con la quale la ricorrente aveva
avuto una discussione poi rientrata con le scuse della stessa - era passato
alla Tizia.
Il passaggio del protocollo, la cui gestione precedente poteva comportare
una certa elasticità per ferie e malattie, e le osservazioni sui rientri
avevano reso il clima difficile per la Tizia, la stessa se ne rese conto nella
missiva 27/3/2001 indirizzata alla direttrice didattica che le chiese
spiegazioni in merito al dissidio con la Sempronia, ed il dato viene
confermato in udienza dalla collega M., che ha parlato al giudice di clima
pesante nella segreteria.
Successivamente la Sempronia aveva subito delle pressioni dalle segretarie
Z., S. e P., per togliere il servizio di protocollo alla Tizia. Questa
circostanza, riferita personalmente alla stessa dalla Sempronia, era smentita
dalle colleghe della ricorrente, e presunte autrici delle pressioni, davanti
al giudice ma trovava conferme sia nelle dichiarazioni del teste Carloni,
insegnante, che ha riferito di aver saputo, in tempi non sospetti, tale
circostanza sempre dalla Sempronia e, inoltre, dalla direttrice didattica Caia,
che ha parlato di ipotetici errori che le colleghe lamentavano fatti dalla
Tizia. Conseguentemente anche questa circostanza appare, seppure controversa
nelle testimonianze, confermare una situazione problematica della ricorrente
rispetto alle altre addette alla segreteria che chiaramente formavano un
fronte unico e unito (la direttrice Ciao così descrive la situazione :" S. e
Z. erano un po' la memoria storica del VI circolo, loro sono maestre, la P. è
un po' più recente come acquisto ed è entrata subito in sintonia con S. e Z."
ritenendo evidentemente la Tizia la voce stonata).
Il terzo episodio è quello delle Funzioni Aggiuntive, un incentivo
economico riconosciuto a determinate condizioni. Per il 2001 era arrivata una
circolare che prevedeva un termine per la presentazione delle domande per
ottenere il beneficio e P., S. e Z. avevano presentato tempestivamente la
domanda. Solo la Tizia non aveva presentato la domanda tra i legittimati e
quando l'insegnante Di Carlo, quale rappresentante sindacale, chiese il motivo
la ricorrente le disse di non essere stata informata. La circostanza è
particolarmente grave perché era la Tizia che aveva il servizio circolari, che
conseguentemente in quel caso non deve aver seguito l'iter ordinario. Si
consideri, inoltre che è previsto che la circolare debba essere portata a
conoscenza di tutti gli interessati, ed anche tale circostanza non era
avvenuta. Non è credibile la versione offerta dalle colleghe Z., S. nella loro
testimonianza al giudice (testualmente la Z. :" non ho ricordi precisi al 100%
della presenza della Tizia quando la Sempronia mi fece firmare il modulo delle
FA, però per me lei c'era"; testualmente la S. :" era la Sempronia che ci
diceva di fare le domande per le FA ed io le ho sempre fatte. Sono sicuro che
è stato detto della domanda, comunque la Tizia deve aver protocollato la
circolare e poi le nostre domande di FA" e sul punto si osserva che le domande
non contenevano certamente i termini di presentazione per le stesse) della
conoscenza della circolare da parte della Tizia perché la stessa avrebbe avuto
solo interesse a presentare la domanda per le FA e pensare ad una preordinata
macchinazione già nella prima metà del 2001 per precostituirsi prove a favore
in un futuro giudizio non appare credibile.
In seguito il premio venne diviso in quattro invece che in tre, essendo
stata ricompresa anche la Tizia come del resto suo diritto, e la direttrice in
un colloquio con la ricorrente, alla presenza della Sempronia che ha
confermato la circostanza, fece molto pesare la disponibilità delle colleghe a
dividere anche con lei l'incentivo facendo passare come una graziosa
concessione quello che era, come detto, un diritto, ed infatti la Tizia fin da
quella sede faceva notare questo dato, con atteggiamento che sicuramente la
direttrice Caia non deve aver apprezzato particolarmente.
Per avere conferma di quest'ultima riflessione basti pensare che l'anno
successivo la stessa direttrice didattica, utilizzando parametri
particolarmente originali, quali "la sintonia all'interno di una prassi
consolidata", e la " accertata compatibilità (verifica incompatibilità)", e
sostituendoli a quelli contrattuali che prevedevano l'anzianità di servizio
concedeva le FA alla S. ed alla Z. escludendo la ricorrente che aveva una
maggiore anzianità. I verbali relativi alla riunione del 27/11/2001 si trovano
nel documento in data 11/1/2002 riassuntivo della situazione come
realizzatasi. Concludendo su questo aspetto si osserva che le Funzioni
Aggiuntive non apparivano compatibili con la Tizia, almeno del VI circolo.
Dopo la riunione nella quale venivano modificati i parametri di riferimento
per concedere le FA la Tizia già turbata, avendo appreso che le colleghe
volevano toglierle il compito del protocollo, ebbe problemi di salute.
Veniamo ad un altro aspetto evidenziato nel ricorso. La ricorrente chiese
alla direttrice Caia di potersi recare a visita fiscale ambulatoriale per
poter seguire un ragazzo con dei problemi del quale si interessava per ragioni
umanitarie, anche come valvola di conforto per le amarezze subite sul lavoro,
ma tale concessione venne rifiutata sul presupposto che non era mai stata
concessa a nessuno. Sia documentalmente che testimonialmente (testi Ma., Da.,
Za.) è stato provato che, al contrario, le visite fiscali ambulatoriali erano
ammesse anche su richiesta orale e tale prassi era stata smentita, in
sostanza, solo per la Tizia, a quello che consta.
Al rientro da un periodo di malattia la ricorrente aveva trovato la memoria
a protocollo in data 3/1/2002 a firma della direttrice Caia dove si parla di
esplosione della malattia e di volontà di poter uscire a proprio piacimento,
indicando anche la tipologia della patologia in spregio ad elementari principi
di riservatezza. Anche questa condotta presenta tutti gli estremi della
discriminazione nei confronti della Tizia.
La Tizia lamentava anche un subito demansionamento conseguente al clima
sfavorevole che si era creato e la giustificazione fornita per l'esclusione da
alcune mansioni (quali il programma ministeriale SISSI per la gestione delle
biblioteche e le schede di valutazione) ha fatto riferimento alle assenze per
malattia della Tizia (vedi teste P.).
In conclusione dell'esame dei numerosi episodi che sono stati accertati in
fase istruttoria emerge una sensazione diffusa di ostilità nei confronti della
Tizia da parte di tutto l'ambiente. Molto significativa al riguardo la
testimonianza della Sempronia, direttrice amministrativa, :" Io rilevai
atteggiamenti discriminatori da parte delle colleghe Z. e S. , meno di P.. Non
conosco i motivi, presumo che l'arrivo della Tizia possa avere in qualche modo
rotto un equilibrio". Ma l'ostilità non appare riferibile esclusivamente alle
colleghe se è vero che, almeno per il cambio di computer, le FA e per le
visite fiscali domiciliari l'atteggiamento della direttrice scolastica Caia
non è stato privo di rilievi e sulle modalità di approccio con la ricorrente
si rinvia alla lettura delle sue missive 23/3/2001 e 3/1/2002, scritture che
definire algide appare riduttivo.
Relativamente alla posizione Sempronia, che è quella che riferisce alla
Tizia dell'ostilità delle colleghe (sempre dalla sua testimonianza :" in
effetti io dissi alla Tizia in un momento di esasperazione per il clima
generale che Z., S. e P. volevano che le togliessi il protocollo. Capivo che
questa informazione poteva generare conflitti ma mi venne fuori lo stesso") e
che invia una missiva alla direttrice didattica dopo il dissidio con la Tizia
sul superamento del limite orario chiedendo una provvedimento disciplinare nei
confronti della sottoposta che si era limitata a chiedere un trattamento pari
alle altre (questa circostanza emerge dalla memoria di costituzione
dell'amministrazione perché la ricorrente non ne era a conoscenza in quanto
nella sua missiva 23/3/2001 la Direttrice Caia non ne parla) definire il suo
rapporto positivo con la Tizia appare quantomeno arduo.
Per completare il quadro informativo occorre considerare che la Tizia aveva
avuto in precedenza un analogo episodio di stress ambientale in ambito
lavorativo (lo descrive nella sua relazione il consulente nominato dal giudice
) e questo elemento la rendeva particolarmente vulnerabile a situazioni
analoghe. Questo non vuol dire assolutamente che la serie di discriminazioni e
di attacchi personali subiti presso il VI circolo siano stati "bagatellari " o
di scarso momento ma che la reazione agli attacchi da parte della ricorrente è
stata particolarmente intensa a causa della maggiore sensibilità sviluppata
per avere già in precedenza subito problematiche analoghe nell'ambiente di
lavoro.
Una volta ricomposto il quadro dei fatti ricostruiti nella fase istruttoria
si deve passare a verificare se dagli stessi emergano elementi riconducibili
alle impostazioni del ricorso.
In questo senso un richiamo alla normativa vigente può essere di estrema
utilità, se considerato con riferimento ad un recente intervento del
legislatore per adeguare la normativa nazionale alle direttive in sede
europea.
Il D.Lgs.216/2003, attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, fornisce
all'art. 2, comma 3, la prima definizione normativa di comportamento molesto
in ambito lavorativo :" sono altresì considerate come discriminazioni, ai
sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati,
posti in essere per uno dei motivi di cui all'art. 1 , aventi lo scopo o
l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima
intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo".
Nel nostro caso non ci troviamo- o comunque non se fa alcun riferimento in
sede processuale - in una situazione di discriminazione determinata da
religione, convinzioni personali, handicap, età o orientamento sessuale (la
casistica del richiamato art. 1) ma quello che preme è il riferimento alla
condotta molesta per la definizione che, per la prima volta, viene offerta dal
legislatore: un comportamento indesiderato (sicuramente la Tizia non voleva
subire tutto quanto descritto in precedenza) avente lo scopo o l'effetto
(almeno quest'ultimo elemento si rinviene nel nostro caso) di violare la
dignità di una persona e di creare un clima di intimidazione, ostilità (tanto
avvertita dalla ricorrente), degrado, umiliazione e offesa per la vittima,
tutti stati d'animo che la Tizia deve aver vissuto nel periodo di attività
presso il VI circolo.
Molto importante il testo normativo richiamato anche perché all'art. 4,
comma 4, detta una regola di valutazione della prova originale data la
peculiarità della materia :" il ricorrente, al fine di dimostrare la
sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre
in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatti, in
termini gravi precisi e concordanti che il giudice valuterà ai sensi dell'art.
2729, primo comma, c.c." . Da rilevare che nel caso in esame tutti i
comportamenti descritti con dovizia di particolari nella fase ricostruttiva
portano a ritenere sussistente un insieme di elementi gravi, precisi e
concordanti tali da assurgere efficacemente a quadro probatorio adeguato per
il giudizio. Contestualmente nessun elemento è stato offerto per una lettura
alternativa da parte dell'amministrazione convenuta che si è limitata nelle
proprie difese a negare rilevanza agli accadimenti descritti e provati.
Ultima considerazione con riferimento al D.Lgs. 216/2003 è quella che si
ricava dal comma 5 dell'art. 4 che recita :" con il provvedimento che accoglie
il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, il risarcimento del
danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento". Il
richiamo al risarcimento del danno non patrimoniale in un contesto di
discriminazione lavorativa appare quanto mai attuale alla luce del mutato
orientamento giurisprudenziale in tema di lettura dell'art. 2059 c.c. con
particolare riferimento al diritto del lavoro. Questo argomento sarà, per
altro, approfondito quando si affronterà il tema del risarcimento.
La parte ricorrente ha in un primo momento parlato di demansionamento
particolarmente affllittivo e causa di danni di varia natura. Solo all'esito
dell'istruttoria ha qualificato la fattispecie verificatasi come mobbing
introducendo un concetto che da alcuni anni è stato utilizzato, molto spesso
senza particolare cognizione di causa, nelle aule di giustizia nei processi di
lavoro.
Per definire il mobbing in mancanza di dati normativi, se si esclude il
precedente richiamo al tema delle molestie, possiamo riprendere la definizione
offerta dallo psicologo del lavoro che nel 1996 introdusse questo concetto nel
nostro paese: "Il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità
sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone
vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno
o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo
di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova
nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare
accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare
anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e
percentualizzazione" (H. Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing,
Milano, 2002, 39).
La giurisprudenza che si è formata sul tema del mobbing, con alcune rare
eccezioni, sostanzialmente ha accolto questa definizione evidenziando i dati
fondamentali di questa fattispecie complessa: l'ambiente lavorativo nel quale
deve svolgersi, la reiterazione di condotte indesiderate per la vittima in un
lasso di tempo di qualche rilevanza (almeno sei mesi secondo le indicazioni
della psicologia del lavoro), la volontà di procurare molestia, costante
progresso della situazione nella sua gravità per il mobbizzato.
Le condotte che costituiscono il dato materiale nel quale si realizza il
mobbing possono essere le più varie ma è fondamentale che siano plurime in
quanto un solo comportamento, ad esempio il più diffuso quale il
demansionamento, non provocherà mobbing anche perché tale figura complessa non
risulterà necessaria per essere utilizzata dal soggetto che ha subito dei
danni essendo sufficiente il riferimento al demansionamento, già adeguatamente
studiato dalla giurisprudenza del lavoro.
Alcuni giudici si sono chiesti se la figura del mobbing sia veramente
necessaria in un sistema come il nostro che già prevede adeguate tutele per i
soggetti vittima di molestie varie in ambiente lavorativo " Reputa, tuttavia,
il Tribunale che, al di là della questione delle "etichette" e in assenza di
una disciplina normativa che ricolleghi ad un fenomeno chiamato "mobbing"
certe, determinate, conseguenze giuridiche, non metta conto soffermarsi
ulteriormente sulla questione definitoria, né abbia importanza appurare quale
considerazione meriti il caso in esame nell'ambito della psicologia del
lavoro…Ciò che rileva, invece, è analizzare se le condotte vessatorie
lamentate in ricorso - che, anche per comodità lessicale, ben possiamo
definire mobbing - e i pregiudizi che si allega esserne derivati abbiano
fondamento e se possano condurre all'accoglimento della domanda di
risarcimento danni avanzata" (Trib. Pinerolo, 6/2/2003, edita).
Ferma restando la necessità di una definizione normativa, anche soltanto
per chiarire definitivamente la materia, ritiene questo giudice che il
concetto di mobbing non si esaurisca in una comodità lessicale ma contenga un
valore aggiunto perché consente di arrivare a qualificare come tale ed a
sanzionare anche quel complesso di situazioni che, valutate singolarmente,
potevano anche non contenere elementi di illiceità ma che, considerate
unitariamente ed in un contesto appunto "mobbizzante", assumono un particolare
valore molesto ed una finalità persecutoria che non sarebbe stato possibile
apprezzare senza il quadro d'insieme che il mobbing consente di valutare.
Vediamo il caso concreto per verificare questa impostazione. Tutte le
condotte delle quali è stata vittima la Tizia sono, se valutate singolarmente,
non tali da poter essere considerate degli illeciti e, inoltre , senza
possibilità di sanzione: se non ti ho dato un computer nuovo ma poi l'ho dato
ad una tua collega sicuramente avrò manifestato una preferenza ma questo non
determinerà una illiceità specifica anche perché di per sé questa preferenza,
non contestualizzata, appare non particolarmente significativa. Se non ti ho
consentito di effettuare la visita fiscale ambulatorialmente ma l'ho
consentito a tutti gli altri anche in questo caso il mio comportamento non
sarà stato corretto ma non ci sono sanzioni particolari perché, in mancanza di
una peculiare finalità come quella richiamata dal D.Lgs. 216/2003
(discriminazione per religione, convinzioni personali, handicap, età,
orientamento sessuale), neppure la nuova normativa in tema di discriminazioni
potrà costituire una tutela adeguata. Lo stesso discorso potrebbe farsi per le
Funzioni Aggiuntive considerate in precedenza. Ma anche il demansionamento
subito dalla ricorrente, sostanziato nell'esclusione dal compito della tenuta
del protocollo e del programma SISSI e delle schede di valutazione, può essere
letto, se preso autonomamente, come un far fronte ad una effettiva esigenza
dell'ufficio non costituendo, in tale modo, un illecito.
Ma se a tutto questo materiale diamo una lettura unitaria e valutiamo i
fatti contestualizzandoli nel loro evolversi e aumentare, anche come
conseguenze negative per la vittima di tutto questo, allora il concetto di
mobbing diventa indispensabile e senza non riusciremmo a trovare la parola per
dirlo, avendo il termine mobbing dimostrato di possedere una formidabile
capacità evocativa relativamente ad una esigenza diffusa di attenzione e di
riconoscimento di situazioni di disagio, malessere, sofferenza, variamente
creatasi all'interno degli ambienti di lavoro ( così, recentemente in un
suo scritto, R. dal Punta con una sensibile osservazione sull'argomento ).
Quindi riassumendo sul punto abbiamo un rapporto tra una dipendente da
una parte e superiori ( la direttrice didattica e la direttrice amministrativa
) e pari grado ( le colleghe Z., S. e P. ) nel quale la prima è soggetta a
tutte le condotte descritte in un arco di tempo di circa 16 mesi ( dal
settembre 2000 al dicembre 2001 quando la ricorrente entra in malattia e
sostanzialmente non ne esce più ) che aggravano la sua già negativa condizione
fisica e psicologica. Da sottolineare la circostanza che la Tizia subisce
tutti i trattamenti discriminatori in un ambiente di lavoro per lei nuovo sia
da parte di pari gradi ( c.d. mobbing orizzontale ) che di superiori ( c.d.
mobbing verticale o bossing ) con comportamenti assolutamente generalizzati
che amplificano i sentimenti di emarginazione provati dalla ricorrente e le
umiliazioni subite in mancanza non solo delle tutele ma anche di qualsiasi
reale atteggiamento solidaristico nei suoi confronti.
Della fattispecie astratta e complessa del mobbing la presente situazione
della Tizia contiene quali elementi caratteristici e peculiari la durata,
circa sedici mesi, la reiterazione delle condotte sempre diversificate e tese
a creare una situazione di disagio della Tizia nel proprio ambiente di lavoro
sempre più pesante fino all'insorgenza della patologia strettamente connessa
all'ostilità subita nell'ambiente lavorativo. Lo scopo che le autrici della
strategia mobbizzante si proponevano era quello di far sentire la Tizia un
corpo estraneo all'interno del VI circolo, dove in precedenza valevano criteri
comportamentali evidentemente più elastici rispetto quelli propugnati dalla
ricorrente, e tale finalità latamente politica appare in perfetta sintonia con
la dimensione del mobbing sotto il profilo del risvolto psicologico dello
stesso.
Le fasi dell'evoluzione della situazione di mobbing, descritte dalla
psicologia del lavoro per riconoscere il fenomeno, appaiono tutte presenti nel
caso in esame a conferma della riconducibilità dell'esperienza vissuta dalla
Tizia nell'ambito del fenomeno preso come riferimento.
Dopo la c.d. condizione zero, di conflitto fisiologico normale ed
accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si individua
la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale. La Tizia,
accolta con qualche riserva in un ambiente che ha già un proprio equilibrio
(teste Z. : " quando arrivò la Tizia …sapevo che la Sempronia era preoccupata
" ) viene individuata come elemento perturbatore di tale equilibrio. Gli
scontri descritti della ricorrente con la P. e con la Sempronia evidenziano
che la stessa non è disposta ad un inserimento indolore nel nuovo ambiente
che, evidentemente, richiede il rispetto di certe regole.
La seconda fase è il vero e proprio inizio del mobbing, nel quale la
vittima prova un senso di disagio e di fastidio. In questa condizione
l'atteggiamento della Sempronia ( che riferisce alla ricorrente la volontà
delle colleghe di escluderla dal protocollo e contemporaneamente chiede alla
direttrice didattica una sanzione nei suoi confronti per lo scontro avvenuto
per l'orario giornaliero ) costituisce elemento fondamentale. Il clima diventa
pesante ( teste M. ) e la Tizia appare sempre più un corpo estraneo.
La terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i
primi sintomi psico-somatici, i primi problemi per la sua salute. Nel novembre
2001 la Tizia si assenta e la teste Z. conferma che la ricorrente viveva il
disagio derivante dall'ostracismo dimostrato nei suoi confronti dalle colleghe
per toglierle la funzione di protocollo oltre alla questione delle funzioni
aggiuntive.
La quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori ed abusi
dell'amministrazione del personale e da questo punti di vista la riunione del
dicembre 2001 per la scelta dei criteri delle funzioni aggiuntive, descritta
in precedenza, costituisce un esempio chiaro ed indiscutibile.
La quinta fase del mobbing è quella dell'aggravamento delle condizioni di
salute psico-fisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in
una situazione di vera e propria prostrazione. La teste Sempronia dichiara :"
durante la riunione del dicembre 2001 per i criteri delle FA la Tizia si sentì
male tanto che dovette abbandonare la riunione ". Da allora sostanzialmente la
ricorrente per le condizioni di salute, certificate ed indiscutibili nella
loro gravità invalidante, non è più tornata al lavoro.
Resta la sesta fase, per altro indicata solo e fortunatamente eventuale,
nella quale la storia del mobbing ha un epilogo: nei caso più gravi nel
suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di
pensionamenti, o in licenziamenti. Nel caso della Tizia c'è stato il
licenziamento ma deve essere riferito al superamento del periodo di comporto
e, per quanto discutibile come scelta ( realizzata nelle more di un processo
che doveva accertare la possibile natura lavorativa della patologia con
conseguente esclusione del superamento del comporto ), sicuramente non
riconducibile ad un ottica di mobbing. Rimane la circostanza che all'esito di
questa vicenda le condizioni fisiche della ricorrente non consentono una
ripresa della sua attività lavorativa e non si è attualmente in grado di
stabilire la temporaneità o la definitività di tale condizione.
Sempre seguendo gli insegnamenti della psicologia del lavoro (che in
mancanza di parametri normativi costituisce il riferimento scientificamente
più valido) anche i sette parametri fondamentali per l'individuazione del
mobbing (ambiente lavorativo, frequenza, durata, tipi di azioni, dislivello
degli antagonisti, andamento per fasi successive, intento persecutorio)
appaiono sostanzialmente presenti nel caso in esame ad ulteriore conferma
dell'interpretazione dei fatti realizzata da questo giudice.
Riassumendo si può affermare che l'esperienza vissuta dalla Tizia nel VI
circolo di Forlì sia stata caratterizzata da un marcato atteggiamento
discriminatorio nei suoi confronti motivato dalla volontà sia delle colleghe
che delle superiori di estraniarla dal contesto per non essersi sintonizzata
con l'ambiente accettando gerarchie e comportamenti esistenti senza trovare in
chi doveva garantire la funzionalità organizzativa della struttura adeguato
supporto anzi, al contrario, lo stesso atteggiamento discriminatorio e
negativo tanto da renderle penosa la permanenza nel luogo di lavoro e
provocarne conseguenze rilevanti da un punto di vista patologico, oltre che
ovviamente umano e professionale.
Si tratta di una situazione di mobbing non caratterizzata da una conflittualità evidente e quasi "rumorosa", come normalmente siamo abituati ad immaginare queste situazioni, ma un esempio di conflittualità sottile, continuata e generalizzata non eclatante ma non per questo meno pesante da sopportare per la vittima della situazione con alcune posizioni tipiche, in particolare la Sempronia, esteriormente dalla parte della Tizia ma nella realtà dei fatti ancora più pesante delle altre nei suoi confronti perché non manifesta e, conseguentemente, ancora più difficile da affrontare.
Bisogna inoltre ricordare che la ricorrente è una vittima particolarmente
sensibile dati i precedenti specifici e la storia personale descritta dalla
consulente nella propria relazione. Bisogna considerare che tutte le persone
sono diverse ed hanno soglie di resistenza soggettive, così come innumerevoli
le possibilità di manifestazione del fenomeno in considerazione.
Il mobbing è anche questo, anzi questa è la forma più insidiosa e
pericolosa perché richiede una particolare attenzione e sensibilità per
riconoscerne le caratteristiche ed individuarne i confini. Il contesto
generale di "grida di al lupo", nel quale il concetto in esame risulta
inflazionato e troppo spesso abusato, certo non aiuta ma questo non deve fare
perdere all'interprete la capacità critica di individuare le caratteristiche
tipiche del fenomeno in esame.
Concludendo la fase ricostruttiva ritiene il giudice che nel caso di specie
si è realizzato un caso di mobbing così come definito dalla giurisprudenza del
lavoro.
Nessun dubbio sull'applicabilità della figura anche al settore
dell'impiego pubblico (vedi la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale
di Tempio Pausania 10/7/2003, edita) particolarmente dopo la
contrattualizzazione del rapporto di lavoro e la devoluzione conseguente al
giudice del lavoro delle relative controversie. Non si deve dimenticare che la
tutela costituzionale del lavoro è estesa dall'art. 35 Costituzione a tutte le
forme dello stesso, quindi anche alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni. Se l'aggancio con l'art. 41 della Costituzione,
normalmente utilizzato per il lavoro privato per una lettura
costituzionalmente orientata della problematica, viene a mancare, riferendosi
tale articolo solo all'iniziativa economica privata, sul punto può sopperire
l'art. 97 Costituzione e la regola generale del buon andamento e
dell'imparzialità dell'amministrazione, concetti in evidente contrasto con il
fenomeno del mobbing ed incompatibili con lo stesso.
Veniamo alle conseguenze di questa conclusione in termini risarcitori.
Sul tipo di responsabilità che deriva da situazioni come questa in esame
questo giudice ha già sostenuto in altre sentenze ( si richiama in particolare
la sentenza n. 1234 del 15/3/2001 ) la linea che ritiene possibile la
concorrenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
Qualsiasi azione ingiusta potenzialmente è in grado di generare una
responsabilità extracontrattuale, a condizione che ci sia dolo o colpa in chi
la commette, ed un conseguente danno. Non è assolutamente detto, però che
l'azione ingiusta non sia realizzata in un contesto contrattuale, cioè un
rapporto tra parti legate da vincolo contrattuale. L'inadempimento
contrattuale è la classica situazione che determina, infatti, sempre un
diritto al risarcimento del danno (art. 1453 c.c. temperato dall'art. 1218 c.c.).
Ecco, allora, che l'azione ingiusta realizzata da un contraente determinerà
anche una responsabilità contrattuale.
Nel primo caso la regola (art. 2043 c.c. e seguenti) non rispettata
potrà determinare potenziali danni sia patrimoniali che non patrimoniali, alla
luce del disposto dell'art. 2059 c.c. recentemente rivitalizzato dalle
sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale del 2003 sul
tema, nel secondo caso (art. 1218 c.c. alla luce dell'art. 1321 c.c. e
seguenti) esclusivamente danni patrimoniali.
Una azione potrà quindi generare responsabilità extracontrattuale se
ingiusta e realizzata con dolo o colpa e, anche contestualmente, una
responsabilità contrattuale se tra le parti vi era un vincolo contrattuale. I
due settori saranno solo in parte coincidenti perché tante saranno le condotte
ingiuste, dolose o colpose, realizzate senza che tra le parti vi sia un
vincolo contrattuale.
La prima e basilare regola del nostro ordinamento in tema di
responsabilità è quella dettata dall'art. 2043 c.c. e dal "neminem laedere"
che comporta una responsabilità ogni qual volta qualcuno procuri un danno
ingiusto ad un altro soggetto con dolo o colpa. In una società improntata al
principio solidaristico la necessità di riparare il torto arrecato
consapevolmente o almeno colpevolmente non può che essere un fondamento.
Nel quadro generale di regole nei rapporti tra tutti i cittadini in vista
del ricordato principio solidaristico si inserisce poi l'area della
responsabilità contrattuale. Secondo le regole del codice tra parti legate da
un contratto ci sarà anche la possibilità, in caso di inadempimento, di
utilizzare una ulteriore fonte di responsabilità cioè quella contrattuale, per
altro limitata ai soli profili patrimoniali in quanto il contratto regola
esclusivamente tali aspetti. Questa fonte di responsabilità sarà sempre
potenzialmente coesistente con la responsabilità ex art. 2043, immanente ad
ogni rapporto tra soggetti indipendentemente dall'esistenza di un contratto
tra le parti, e si distinguerà esclusivamente per alcuni aspetti
caratteristici (prevedibilità del danno, onere della prova, prescrizione) che
la renderanno preferibile sotto certi aspetti e non sotto altri.
Per altro la coesistenza tra il profilo di responsabilità extracontrattuale
e contrattuale costituirà un vantaggio per il danneggiato in quanto il mancato
rispetto della regola contrattuale (ad esempio l'art. 2087 c.c. per il lavoro)
potrà costituire il profilo di colpa richiesto per la realizzazione della
fattispecie ex art. 2043 c.c. e, conseguentemente, esonerare dalla ricerca
dell'elemento psicologico. Sarà, dunque, sempre utile rilevare, ove
sussistente, la presenza del doppio profilo di responsabilità. Nel caso in
esame utilizzeremo la responsabilità extracontrattuale anche perché vengono
richiesti esclusivamente danni non patrimoniali, ma il concorrente profilo di
responsabilità contrattuale, oltre che per la competenza funzionale del
giudice del lavoro, risulterà utile, come vedremo, in sede di ricerca degli
elementi fondamentali richiesti dall'art. 2043 c.c..
I danni che vengono richiesti favore della ricorrente risultano tutti
riconducibili alla categoria del danno non patrimoniale che, recentemente, con
la rilettura critica dell'art. 2059 c.c. da parte della Corte di Cassazione e
della Corte Costituzionale vive un momento di particolare approfondimento e
studio. Infatti tutti i danni richiesti dalla Tizia, quello biologico e quello
professionale, alla dignità personale ed all'immagine , sono danni senza un
contenuto patrimoniale diretto ed immediato e, di conseguenza, non opererà il
meccanismo risarcitoria, data l'impossibilità di restitutio ad integrum in
casi come quello in esame. Potrà invocarsi, al contrario, il profilo
indennitario della richiesta, posto che dal danno biologico e dal danno
professionale deriverà un potenziale diritto ad un indennizzo se il danno sarà
stato provocato dalla condotta illecita del soggetto nei cui confronti si
agisce. Nel caso in esame il risarcimento (meglio, come visto, l'indennizzo)
non è stato richiesto nei confronti dei soggetti fisici che hanno determinato
la condizione di mobbing subito dalla ricorrente ma nei confronti della
direzione didattica del VI circolo didattico che aveva, come datore di lavoro,
l'obbligo di controllare per impedire il verificarsi delle condotte subite
dalla Tizia. Ecco realizzati tutti gli elementi richiesti dalla normativa sul
danno extracontrattuale: un danno (biologico e professionale) ingiusto (cioè
senza il rispetto delle regole, in questo caso il mobbing con l'ingiustizia
insita in tale comportamento) con colpa della direzione didattica (consistita
nel non aver impedito la realizzazione dei comportamenti mobbizzanti nei
confronti di una propria dipendente da parte di altri dipendenti dello stesso
circolo). La natura del danno, come detto non patrimoniale, comporta
l'ulteriore passaggio alla valutazione ai sensi dell'art. 2059 c.c. se ci
troviamo di fronte ad una ipotesi risarcibile (meglio sarebbe indennizzabile)
poiché prevista dalla legge. Sia nel caso di danno alla salute (art. 32 Cost.)
che di danno alla professionalità del lavoratore (artt.2, 35, 41 Cost.) ci
troviamo di fronte a situazioni tutelate costituzionalmente e, di conseguenza,
la possibilità di applicare l'art. 2059 c.c. appare effettiva anche di fronte
alla lettura meno estensiva del danno non patrimoniale. Infatti anche gli
interpreti più riduttivi del nuovo corso dell'art. 2059 c.c. arrivano ad una
lettura costituzionalmente orientata dell'articolo : l'art. 2043 c.c., in
quanto norma atipica, tutela qualsiasi interesse giuridicamente rilevante da
qualunque fonte esso emani sempre che meriti protezione risarcitoria mentre
l'art. 2059 c.c., viceversa, tolti i casi in cui il legislatore riconosce
espressamente i danni non patrimoniali, consente di proteggere solo i diritti
inviolabili della persona.
L'aspetto della prova del danno e della sua liquidazione non appare di
particolare problematicità nel caso in esame relativamente alla voce del danno
biologico. Infatti la consulenza medica in atti, che questo giudice condivide
per serietà di impostazione e di argomentazione scientifica, ha accertato un
danno in termini di permanente nell'ordine del 5% come aggravamento specifico
derivante dalla situazione in esame. Non tragga in inganno la modestia della
percentuale rispetto alla situazione della Tizia e per la lettura delle
vicende subite in quanto la consulente del giudice ha chiarito che la Tizia si
era presentata al nuovo appuntamento lavorativo in una situazione di alta
vulnerabilità personale , avendo già sofferto poco tempo prima di un serio
episodio depressivo, e conseguentemente è bastato un aggravamento di modesta
rilevanza per sviluppare nuovamente una grave sintomatologia depressiva.
Applicando i parametri di valutazione del Tribunale di Milano, che questo
giudice condivide per ragionevolezza ed equità, si arriva ad una
quantificazione di € 4.506,86 considerando i 52 anni della ricorrente
all'epoca dei fatti. Per attualizzare la cifra questo giudice ritiene di
potere arrotondare la somma a € 4.600,00.
Maggiori problemi sorgono relativamente al danno alla professionalità sia
per il profilo della prova che per quello della liquidazione.
Questo giudice ritiene di aderire per quanto riguarda il profilo della
prova al recente orientamento della Corte di Cassazione: "i provvedimenti del
datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono
immancabilmente a ledere l'immagine professionale, la dignità personale e la
vita di relazione del lavoratore" (Corte di Cass., n.10157/2004, edita). Tale
linea, indipendentemente dalla qualificazione di danno-evento o
danno-conseguenza dei fatti in esame (distinzione sostanzialmente senza valore
pratico e più accademica che altro), porta a concludere che nelle situazioni
di lesione dei diritti fondamentali del lavoratore si viene immancabilmente a
provocare un danno allo stesso. Ci potrà essere un danno alla salute, come nel
caso concreto in esame, ed allora interverrà anche la categoria del danno
biologico; potrà esserci un danno patrimoniale, con il conseguente
risarcimento; nelle ipotesi riconducibili a reato potrà intervenire anche la
categoria del danno morale soggettivo ex art. 185 c.p.; tutte queste categorie
sono, per altro, soltanto eventuali ma sempre ed immancabilmente la lesione
dei diritti fondamentali del lavoratore produrranno un danno di altra
categoria che definire esistenziale appare assolutamente opportuno in
considerazione degli approfondimenti dottrinari e giurisprudenziali che tale
concetto ha avuto e che lo rendono riferibile a questa situazione. L'attuale
sistemazione del danno non patrimoniale alla luce delle recenti sentenze della
Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale tese a rivitalizzare l'art.
2059 c.c. non appare, infatti, ostativa al concetto di danno esistenziale
tanto più nel settore del diritto del lavoro nel quale una serie di diritti
fondamentali crea un substrato di riferimenti normativi sicuramente in grado
di reggere la lettura dell'art. 2059 c.c., quando richiede la determinazione
legislativa delle ipotesi riconducibili al danno non patrimoniale. Come bene è
stato osservato il diritto del lavoro ha una forte valenza esistenziale o, per
dirla in altri termini, costituisce uno dei riferimenti naturali per il danno
esistenziale.
Nel nostro caso l'ipotesi verificata di mobbing nei confronti della Tizia
unitamente al danno biologico già descritto ha provocato alla stessa un danno
esistenziale, consistente nelle ferite inferte alla sfera di autostima ed
eterostima in ambito lavorativo ed alla sua immagine professionale, che ne è
uscita ridimensionata senza sua colpa, a seguito di quanto subito nel VI
Circolo di Forlì.
Una volta assodata la presenza di un danno di natura esistenziale subito
dalla ricorrente a causa del mobbing si tratta di passare alla fase della
liquidazione.
Questa fase costituisce sicuramente uno dei momenti più problematici in
considerazione del fatto che, in mancanza di riferimenti concreti come nel
caso di danni patrimoniali, si dovrà fare ricorso ad altri parametri di
creazione giurisprudenziale.
Iniziamo col dire che trattandosi di danno non patrimoniale non siamo in
ambito risarcitoria ma in quello dell'indennizzo, trattandosi di lesioni di
beni non suscettibili di valutazione patrimoniale quali i beni materiali.
Questa prima considerazione deve portare ad escludere ogni profilo di
personalizzazione nella liquidazione del danno perché valori quali la dignità
lavorativa non possono dipendere da riferimenti personali ma, in un contesto
di valutazione indennitaria, riguardare solo situazioni astratte.
Conseguentemente questo giudice, ritenendo fondate le valutazioni
critiche espresse al riguardo da chi considera improprio personalizzare la
liquidazione di un danno non parimoniale, modificando il proprio precedente
orientamento ritiene di non poter utilizzare il parametro reddituali del
soggetto per la liquidazione del danno da mobbing.
Per altro la valutazione del caso concreto rimarrà elemento fondamentale
per la liquidazione in quanto, in considerazione della maggiore o minore
gravità del caso, al giudice sarà consentito argomentare il percorso logico
che porta alla valutazione dell'indennizzo.
La durata del periodo nel quale la Tizia ha subito il mobbing costituisce
il primo parametro che questo giudice intende considerare. Si tratta di sedici
mesi, dal settembre 2000 al dicembre 2001, e quindi complessivamente 480
giorni, calcolando la media di trenta giorni mensili. Utilizzando il parametro
dell'indennità temporanea totale giornaliera che ammonta a € 35 circa e
considerando che la situazione subita dalla ricorrente ha inciso sulla sua
vita non solo nella parte della giornata dedicata al lavoro, che costituisce
circa la metà della fase attiva del giorno, ma in tutta la sua vita ed in ogni
momento della giornata si stima equo calcolare un parametro doppio della ITT
giornaliera pari a € 70 che, moltiplicato per il numero dei giorni, porta ad
una liquidazione complessiva di questa voce di danno a € 33.600,00 che questo
giudice stima equa per il caso di specie.
Quindi tra danno biologico ( € 4.600 ) e danno esistenziale ( € 33.600,00 )
arriviamo ad una somma complessiva di € 38.200,00 che può essere considerata
adeguatamente attualizzata. Quindi a tale somma andranno aggiunti solo gli
interessi legali dalla data della sentenza a quella del saldo.
Niente deve osservare questo giudice in merito alla cessazione dal servizio
della ricorrente disposta dall'amministrazione in corso di causa anche perché
l'unica domanda della parte durante il procedimento si riferiva esclusivamente
all'atto presupposto. Pacificamente la patologia della Tizia, calcolata ai
fini del comporto, risulta di origine lavorativa, come si desume dalla lettura
della presente sentenza.
La soccombenza determina la condanna della Direzione Didattica del VI
circolo di Forlì al pagamento delle spese di consulenza relativamente al CTU e
al pagamento delle spese di giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Forlì
quale Giudice del Lavoro
accogliendo il ricorso dichiara che Tizia ha subito condotte
maltrattanti nel corso del suo lavoro presso la Direzione Didattica del VI
Circolo di Forlì e condanna la Direzione predetta, in persona del legale
rappresentante pro tempore, al risarcimento complessivo del danno, biologico
ed esistenziale, di €. 38.200,00=, oltre agli interessi legali dalla data
della sentenza al saldo definitivo.
Condanna la Direzione Didattica del VI Circolo di Forlì, in persona
del legale rappresentante pro tempore, al pagamento delle spese di giudizio a
favore della parte ricorrente che liquida in €. 4.500,00=, di cui €.2.000,00=
per competenze, €. 2.500,00= per onorari, oltre I.V.A., C.P.A., oltre 12,5%
spese generali.
FORLI', 28.1.2005
IL CANCELLIERE
Genziana Agostini
IL GIUDICE
Dott. Carlo Sorgi