Tutela videoterminalisti, "626" norma speciale

Inderogabile il regime delle pause di lavoro stabilito dal Dlgs 626/1994 per gli addetti ai videoterminali.  A sottolinearlo è il Ministero del Lavoro  nella circolare sulla nuova organizzazione dell'orario di lavoro ex Decreto Legislativo  66/2003.

Nel documento (03 marzo 2005 n. 8 ) il Dicastero precisa che la normativa dettata in materia dal Dlgs 19 settembre 1994, n. 626 assorbe quella sancita dal Dlgs 8 aprile 2003, n. 66 quando le pause comportano una interruzione dell'attività lavorativa e non consista in un cambiamento dell'attività.

Le principali circolari emanate sino ad oggi

(I provvedimenti sono elencati in ordine cronologico)

 

Atto Contenuto Pubblicazione
Circolare ministero del lavoro 7 agosto 1995, n. 102 Dlgs 626/1994. Prime direttive per l'applicazione
 
Gazzetta ufficiale 21 agosto 1995 n. 194
Circolare ministero dell'Interno 29 agosto 1995, n. P1564/4146 Dlgs 626/1994. Adempimenti di prevenzione e protezione antincendi. Chiarimenti Gazzetta ufficiale 6 ottobre 1995 n. 234
Circolare Presidente del Consiglio dei Ministri 13 giugno 1996, n. 10/96 Dlgs 626/1994, concernente attuazione di direttive comunitarie riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro.
 

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Circolare ministero del Lavoro 27 giugno 1996, n. 89 Dlgs 242/1996 contenente modifiche ed integrazioni al Dlgs 626/1994. Direttive per l'applicazione.
 
Gazzetta ufficiale 5 luglio 1996 n. 156
Circolare ministero del Lavoro 19 novembre 1996, n. 154 Ulteriori indicazioni in ordine all'applicazione del Dlgs 626/1994
 
Gazzetta ufficiale 4 dicembre 1996 n. 284
Circolare ministero degli Interni 17 dicembre 1996, n. 3/96 Individuazione del datore di lavoro ai sensi dell'articolo 30 del Dlgs 242/1996, recante modifiche ed integrazioni al Dlgs 626/94, relativo al miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro.
 
Gazzetta ufficiale 27 gennaio 1997 n. 21
Circolare ministero del lavoro 20 dicembre 1996, n. 172 Ulteriori indicazioni in ordine all'applicazione del Dlgs 626/1994 come modificato dal Dlgs 242/1996
 
Gazzetta ufficiale 8 gennaio 1997 n. 5
Circolare ministero del lavoro 5 marzo 1997, n. 28 Dlgs 626/1994 e successive modifiche. Direttive applicative
 
Gazzetta ufficiale 25 marzo 1997 n. 70
Lettera circolare 12 marzo 1997, prot. n. 770/6104 Direttive sui corsi di formazione e modalità personale di accertamento dell'idoneità tecnica del personale incaricato di svolgere, nei luoghi di lavoro, mansioni di addetto alla prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze, ai sensi dell'articolo 12 del Dlgs 626/94 in base al disposto articolo 3 del decreto legge 512 del 1 ottobre 1996, convertito in legge 28 novembre 1996, n. 609.

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Circolare ministero del lavoro 18 marzo 1997, n. 41 Dlgs 494/1996 , prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili: prime direttive per l'applicazione Gazzetta ufficiale 1° aprile 1997 n. 75
Circolare ministero del lavoro 30 maggio 1997, n. 73 Ulteriori chiarimenti interpretativi del Dlgs 494/1996 e del Dlgs 626/1994
 
Gazzetta ufficiale 30 maggio 1997 n. 147
Circolare 4 marzo 1998, n. 28/98 Sentenza Corte Costituzionale 373/1997. Giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2, 5, comma 2 e 8 del Dlgs 645/1996
 
Gazzetta ufficiale 19 marzo 1998 n. 65
Circolare 5 marzo 1998, n. 30 Ulteriori chiarimenti interpretativi del decreto legislativo 494/96 e del decreto legislativo 626/1994
 
Gazzetta ufficiale 9 aprile 1998 n. 83
Circolare 5 maggio 1998, n. 9 Dpr 37/1998. Prevenzione incendi. Chiarimenti applicativi
 
Gazzetta ufficiale 26 ottobre 1998 n. 250
Circolare 8 luglio 1998, n. 16 MI.SA. Decreto interministeriale 10 marzo 1998 - (emanato in attuazione del disposto dell'articolo 13 del decreto legislativo n. 626 del 1994) Chiarimenti.
 
Gazzetta ufficiale 26 ottobre 1998 n. 250
Lettera Circolare prot. n. P1434/4101 sott. 72/E del 19 ottobre 1998 Articolo 4 del Dpr 37/1998 - Rinnovo del certificato prevenzione incendi - Chiarimenti

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Circolare 5 gennaio 2000, n. 1 Lavoro minorile - Decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 345 - Prime direttive applicative.

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Circolare 19 aprile 2000, n. 122

 

 

Decreto legislativo 626/94 e successive modifiche ed integrazioni - Sicurezza nelle scuole

 

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Circolare 22 maggio 2000 n. 7594 Direttiva 89/689/CEE - commercializzazione DPI
 
Gazzetta ufficiale 29 giugno 2000 n. 150
Circolare 16 giugno 2000, n. 40 Dlgs 626/1994. Rappresentante per la sicurezza. Accesso alla documentazione.
 

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Circolare MinLavoro 10 luglio 2000, n. 44 Dlgs n. 359/99 - Verifiche e controlli sulle attrezzature di lavoro - Modalità di conservazione delle relative documentazioni - Quesito
 

 

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Circolare 17 luglio 2000, n. 9 Settimana europea 2000 per la sicurezza e la tutela della salute sul lavoro
 
Gazzetta ufficiale 25 luglio 2000 n. 172
Circolare MinLavoro 3 ottobre 2000, n. 68 Accesso del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza al documento di valutazione dei rischi. Chiarimenti interpretativi  
Circolare 8 gennaio 2001, n.2 Articolo 9, comma 1, del Dlgs n. 494/1996 come modificato dal Dlgs n. 528/1999 - Redazione del piano operativo - Obblighi responsabilità e sanzioni - Quesito
 

 


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Circolare 8 gennaio 2001, n. 3 Articolo 2, comma 4, del Dlgs n. 359/1999 - Chiarimenti sul regime delle verifiche periodiche di talune attrezzature di lavoro
 

 

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Circolare 8 gennaio 2001, n. 4 Dlgs n. 493/96 - Segni grafici per segnalare l'ubicazione degli idranti a muro

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Circolare MinLavoro 8 gennaio 2001, n. 5 Decreto legislativo 26/5/2000 n. 241: attuazione della direttiva 96/29/EURATOM in materia di protezione sanitaria dei lavoratori e della popolazione contro i rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti.  
Circolare 12 gennaio 2001, n. 9 Riflessi sul sistema dei collaudi e delle verifiche di talune attrezzature di lavoro derivanti dalle disposizioni del Dpr 24 luglio 1996, n. 459 e dell'articolo 46 della legge 24 aprile 1998, n. 128.

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Circolare 17 gennaio 2001, n. 11 Visite sanitarie di minori e apprendisti (legge 25/55, Dpr 1668/56, Dlgs 626/94, Dlgs 345/99)

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Circolare 25 gennaio 2001, n. 16 Modifiche al decreto legislativo 19 settembre 1994, n.626, Titolo VI, "uso delle attrezzature munite di videoterminali". Chiarimenti operativi in ordine alla definizione di "lavoratore esposto" e "sorveglianza sanitaria".

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Circolare MinLavoro 20 aprile 2001, n. 5 Dlgs 626/1994 - uso delle attrezzature munite di videoterminali Gazzetta ufficiale 30 aprile 2001 n. 99
Circolare 29 maggio 2001, n. 58 Sportello sicurezza sul lavoro - Attività da affiancare allo sportello unico per le imprese.  
Circolare MinIndustria 8 giugno 2001, n. 7808 Carrelli elevatori - riduzione del rischio del rovesciamento accidentale Gazzetta ufficiale 26 giugno 2001 n. 146
Circolare MinLavoro 16 luglio 2001, n. 70 Codice di comportamento ad uso degli ispettori del lavoro

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Circolare MinTrasporti 17 settembre 2001, n. 1899/C3/2001 Consulenti trasporti per merci pericolose - proroga certificati provvisori

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Circolare MinInterno 1° marzo 2002, n. 4 Linee guida per la valutazione della sicurezza antincendio nei luoghi di lavoro ove siano presenti persone disabili Gazzetta ufficiale 6 giugno 2002 n. 131
Circolare Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dipartimento della Funzione pubblica) 10 settembre 2002, n. 4 Settimana europea per la sicurezza e salute sul lavoro anno 2002  Gazzetta ufficiale 21 settembre 2002 n. 222
Circolare MinWelfare 3 dicembre 2003, n. 39 Dlgs 195/2003 - Nuove regole del servizio di prevenzione e protezione dai rischi  
Circolare Inail 17 dicembre 2003, n. 71 Oggetto: Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche

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Circolare MinLavoro 8 gennaio 2004, n. 1 Disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative nella modalità cd. a progetto. Decreto legislativo n. 276/2003 Gazzetta ufficiale 14 gennaio 2004 n. 10
Circolare MinLavoro 30 marzo 2004, n. 36 Piattaforme sviluppabili su carro, munite di portelli di accesso sollevabili verso l'alto, non conformi ai requisiti di sicurezza - Necessità di adeguamenti costruttivi Gazzetta ufficiale 15 novembre 2004 n. 268
Circolare 15 aprile 2004, n. 25 Malattie del rachide da sovraccarico biomeccanico. Modalità di trattazione delle pratiche.  
Circolare MinSalute
3 giugno 2004
Quesiti sull'applicazione del Decreto 15 luglio 2003, n. 388  
Circolare MinLavoro 22 febbraio 2005, n. 7 Oggetto: Circolare in materia di somministrazione di lavoro  
Circolare MinLavoro 3 marzo 2005, n. 8 Oggetto: Disciplina di alcuni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro
(Dlgs n. 66/2003; Dlgs n. 213/2004)
 

 

Ministero del Lavoro
e delle Politiche Sociali
DIREZIONE GENERALE PER L'ATTIVITA' ISPETTIVA
DIREZIONE GENERALE DELLA
TUTELA DELLE CONDIZIONI DI LAVORO


CIRCOLARE N. 8
 
 
Roma, 3 marzo  2005

 

 
 
 
 
 
 
 
 
Prot. n. 210
 
 
 
 
Oggetto: Disciplina di alcuni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro (D.Lgs. n. 66/2003; D.Lgs. n. 213/2004).
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
e, p.c.:
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alle Direzioni Regionali del Lavoro
LORO SEDI
 
Alle Direzioni Provinciali del Lavoro
LORO SEDI
 
Al Comando Carabinieri Ispettorato Lavoro
 
All'INPS
Direzione Centrale Vigilanza
 
All'INAIL
Direzione Centrale Ispettorato

Al Gabinetto dell'On.le Ministro
 
Al Segretariato Generale
 
Alla Direzione Generale degli ammortizzatori sociali e incentivi all'occupazione
 
Alla Direzione Generale della comunicazione
 
Alla Direzione Generale per la famiglia, i diritti sociali e la responsabilità sociale delle imprese
 
Alla Direzione Generale per la gestione del fondo nazionale per le politiche sociali e monitoraggio della spesa sociale
 
Alla Direzione Generale dell'immigrazione
 
Alla Direzione Generale del mercato del lavoro
 
Alla Direzione Generale per le politiche, per l'orientamento e la formazione
 
Alla Direzione Generale per le politiche previdenziali
 
Alla Direzione Generale per l'innovazione tecnologica
 
Alla Direzione Generale delle risorse umane e affari generali
 
All Direzione Generale per il volontariato, l'associazionismo e le formazioni sociali
 
Alla Provincia Autonoma di Trento
 
Alla Provincia Autonoma di Bolzano
 
Alla Regione Siciliana
Assessorato Lavoro e Previdenza sociale
Ispettorato Regionale del Lavoro
 
 
1. Premessa
Con il decreto legislativo n. 66 dell'8 aprile 2003, integrato e modificato dal decreto legislativo n. 213 del 19 luglio 2004, è stata data piena attuazione anche nel nostro ordinamento alla direttiva comunitaria n. 93/104/CE e successive modifiche.
E' da sottolineare, in via preliminare, che la direttiva 93/104/CE aveva già trovato parziale attuazione nell'art. 13 della legge n. 196 del 1997 (che aveva, tra l'altro, fissato l'orario normale di lavoro in 40
ore settimanali) e nell'accordo interconfederale Confindustria - CGIL - CISL e UIL del 12 novembre 1997.
In seguito, la legge n. 409 del 1998, aveva disciplinato l'esecuzione del lavoro straordinario nelle imprese industriali, mentre con il decreto legislativo n. 532 del 1999, relativo alla disciplina del lavoro notturno, era stata data attuazione, non solo alla direttiva 93/104, ma anche alla delega conferita al Governo dall'art. 17, comma 2, della legge n. 25 del 1999.
Pertanto, l'adempimento agli obblighi derivanti dalla appartenenza alla Unione Europea ha fornito l'occasione per dare un assetto organico e definitivo all'intera materia dell'orario di lavoro. Il decreto in esame unifica infatti la disciplina del tempo di lavoro e quella dei riposi, attuando in larga parte i contenuti del menzionato Accordo interconfederale del 1997 e garantendo un ampio spazio di intervento all'autonomia collettiva per ciò che riguarda la modulazione dei tempi di lavoro (orario normale multiperiodale, gestione degli straordinari, limiti di orario massimo, ecc.) in rapporto alle esigenze produttive e organizzative.
Per le parti riguardanti anche il personale dipendente dalle pubbliche Amministrazioni, la circolare è stata redatta d'intesa con il Dipartimento della Funzione Pubblica.

2. Finalità e definizioni

Il decreto detta una disciplina di carattere generale che definisce l'apparato terminologico di cui lo stesso decreto fa uso. Le diverse definizioni verranno illustrate nel prosieguo della circolare. Peraltro, per alcune di esse si ritiene già in questa sede utile effettuare delle precisazioni.
In proposito occorre evidenziare una novità sostanziale rispetto alla precedente disciplina dell'orario di lavoro in ordine ai rinvii operati alla contrattazione collettiva. Infatti, alle varie definizioni viene aggiunta quella di "contratti collettivi di lavoro" che, conformemente alla prassi legislativa attualmente in vigore, sono individuati in quelli stipulati da organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative. Non è specificato alcun livello di contrattazione collettiva di riferimento. Salve diverse specifiche disposizioni (art. 17, comma 1°), dunque, il rinvio alla contrattazione collettiva deve intendersi come rinvio a tutti i possibili livelli di contrattazione collettiva: nazionale, territoriale, aziendale.


 

 
 
Orario di lavoro
La nozione di orario di lavoro è stata sinora ancorata al concetto di lavoro "effettivo", già definito dall'art. 3 R.D.L. 692/23 come quel lavoro "che richieda un'applicazione assidua e continuativa".
Il decreto legislativo n. 66/2003, nel riprendere la definizione dettata dalla direttiva europea, stabilisce (art. 2, punto a)), invece, che per orario di lavoro si intende "qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni".
Tale formulazione ha una portata certamente più ampia, così come ha chiarito la stessa  Corte di giustizia europea che ha ritenuto compresi nell'orario di lavoro i periodi in cui i lavoratori "sono obbligati ad essere fisicamente presenti sul luogo indicato dal datore di lavoro e a tenervisi a disposizione di quest'ultimo per poter fornire immediatamente la loro opera in caso di necessità" (sentenza del 9 settembre 2003).
D'altro canto ciò è confermato dalla circostanza che, nella nuova disciplina, non è stata più riproposta l'esclusione dalla nozione di orario di lavoro e dalla disciplina sulla durata massima della prestazione di lavoro di "quelle occupazioni che richiedano per loro natura o nella specialità del caso, un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia" (art. 3 R.D.L. n. 692/1923); nella nuova disposizione, invece, tali lavorazioni vengono esplicitamente escluse solo dall'ambito di applicazione della disciplina della durata settimanale (art. 16 DLgs n. 66/2003).
 

3. Campo di applicazione

La disciplina dell'orario di lavoro di cui al decreto legislativo n. 66 del 2003 si applica a tutti i settori di attività, pubblici e privati, in relazione a rapporti di lavoro subordinato. Si applica anche agli apprendisti che abbiano raggiunto la maggiore età che, pertanto, possono svolgere lavoro straordinario e notturno (già possibile, per quanto attiene al lavoro notturno, nelle aziende artigianali di panificazione e di pasticceria e di quelle del comparto turistico e dei pubblici esercizi).
Per gli apprendisti minorenni si applica la disciplina speciale di cui alla legge n. 977 del 1967 e successive modificazioni.
La disciplina non si applica qualora "altri strumenti comunitari contengano prescrizioni più specifiche in materia di organizzazione dell'orario di lavoro per determinate occupazioni o attività professionali". In particolare, non si applica al lavoro della gente di mare di cui alla direttiva 1999/63/CE del 21 giugno 1999, che attua l'accordo sull'organizzazione dell'orario di lavoro della gente di mare concluso dall'Associazione armatori della Comunità europea (ECSA) e dalla Federazione dei sindacati dei trasportatori dell'Unione europea (FST). In forza di questo atto, espressamente richiamato dal decreto n. 66 del 2003, per "gente di mare" si intende ogni persona occupata o impegnata a qualunque titolo a bordo di una nave marittima di proprietà pubblica o privata, registrata nel territorio di uno Stato membro.
Il decreto non si applica neppure ai lavoratori mobili, per quanto attiene ai profili di cui alla direttiva n. 2002/15/CE dell'11 marzo 2002, concernente l'organizzazione dell'orario di lavoro delle persone che effettuano operazioni mobili di autotrasporto. Per "lavoratori mobili" si intendono quelli impiegati quali membri del personale viaggiante o di volo presso una impresa che effettua servizi di trasporto passeggeri o merci su strada, per via aerea o per via navigabile, o a impianto fisso non ferroviario.
In ragione della peculiare organizzazione del lavoro e della concorrente competenza regionale in materia di istruzione, il decreto legislativo n. 66 del 2003 non si applica al personale della scuola di cui al Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione, né al personale delle Forze armate e di polizia, nonché gli addetti al servizio di polizia municipale e provinciale, in relazione alle attività operative specificamente istituzionali.
Infine, il decreto in oggetto non si applica nei confronti dei servizi di protezione civile, ivi compresi quelli del corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché nell'ambito delle strutture giudiziarie, penitenziarie e di quelle destinate per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica, delle biblioteche, dei musei e delle aree archeologiche dello Stato. Nei confronti di queste attività le norme del decreto non trovano applicazione in presenza di particolari esigenze inerenti al servizio espletato o di protezione civile, nonché degli altri servizi espletati dal corpo nazionale dei vigili del fuoco, così come individuate con decreto del ministro competente, di concerto con i ministri del lavoro e delle politiche sociali, della salute, dell'economia e delle finanze e per la funzione pubblica. Nelle more dell'emanazione dei decreti ministeriali indicati si deve ritenere che continuino a trovare applicazione le attuali discipline, anche contrattuali, previgenti, ove compatibili.

4. Orario normale settimanale

Il decreto legislativo n. 66 del 2003 riprende i contenuti dell'art. 13, della legge n. 196 del 1997 e fissa in 40 ore settimanali l'orario normale di lavoro, assegnando alla contrattazione collettiva la facoltà sia di stabilire un orario inferiore che di riferire l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno in modo tale che, nonostante la flessibilizzazione, nel dato arco temporale non venga superata la media riferita, ovviamente, all'orario normale.
Tale orario di lavoro, purché venga rispettata la media nei termini suddetti, è orario normale di lavoro e l'eventuale superamento settimanale delle 48 ore, senza che concorrano ore di lavoro straordinario, non dovrà essere oggetto di comunicazione, stante la chiara lettera della legge (purché ovviamente nel periodo di riferimento sia effettuato il relativo recupero).
Si ricorda, a questo proposito, che in caso di organizzazione multiperiodale dell'orario di lavoro, costituisce straordinario ogni ora di lavoro effettuata oltre l'orario programmato settimanale. Pertanto qualora ad esempio in una settimana sia svolto un orario programmato di 50 ore la cinquantunesima ora di lavoro sarà imputata a lavoro straordinario e quindi costituirà motivo sufficiente per la comunicazione.
Si evidenzia, inoltre, che anche nel caso di orario multiperiodale, pur non venendo in essere l'obbligo di comunicazione (in quanto non siano state effettuate ore di lavoro straordinario che abbiano concorso al superamento delle 48 ore di lavoro settimanali) resta fermo il limite massimo delle 48 ore medie nel periodo di riferimento.
E' da sottolineare come nella nuova formulazione si fa riferimento ai "contratti collettivi" e non ai contratti "collettivi nazionali" di cui al citato art. 13. Di conseguenza anche i contratti territoriali e aziendali, oltre quelli nazionali, possono stabilire – purché stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (art. 1, comma 2, lett. m) – una durata minore ovvero prevedere orari multiperiodali.
Ovviamente, in questo quadro di flessibilizzazione, i contratti collettivi dovranno, comunque, rispettare il limite massimo settimanale dell'orario, come determinato dall'art. 4.
Per quanto concerne il settore del pubblico impiego, si ritiene che la contrattazione collettiva decentrata non possa introdurre discipline difformi dalla contrattazione collettiva nazionale.
L'orario normale di lavoro è di 40 ore nell'arco della settimana, da intendersi non necessariamente come settimana di calendario, salva la facoltà della contrattazione collettiva, di qualsiasi livello, di introdurre il c.d. regime degli orari multiperiodali, cioè la possibilità di eseguire orari settimanali superiori e inferiori all'orario normale a condizione che la media corrisponda alle 40 ore settimanali o alla durata minore stabilita dalla contrattazione collettiva, riferibile ad un periodo non superiore all'anno.
Il riferimento all'anno non deve intendersi come anno civile (1° gennaio - 31 dicembre) ma come un periodo mobile compreso tra un giorno qualsiasi dell'anno ed il corrispondente giorno dell'anno successivo, tenendo conto delle disposizioni della contrattazione collettiva.
Nel computo dell'orario normale di lavoro, stante la definizione di orario di lavoro, non rientrano i periodi in cui il lavoratore non è a disposizione del datore, nel senso precisato nel paragrafo 2, ovvero nell'esercizio della sua attività e delle sue funzioni. Quindi le ore non lavorate potranno essere recuperate in regime di orario normale di lavoro.
Laddove, pertanto, uno di questi eventi venga a coincidere con giornate in cui, a seguito della programmazione multiperiodale, sia stato previsto un orario superiore o inferiore a quello normale, le parti del rapporto sono tenute a concordare lo spostamento in altra data di un eguale incremento o riduzione della prestazione.
Le eventuali ore di incremento prestate e non recuperate assumono la natura di lavoro straordinario e devono essere compensate secondo le modalità previste dai contratti.
I contratti collettivi possono stabilire che la durata dell'orario normale sia ridotta rispetto al limite legale delle 40 ore. Questa facoltà ha ad oggetto una riduzione d'orario valida ai soli fini contrattuali.
La possibilità di modulare l'orario di lavoro su base settimanale, mensile o annuale è stata attuata dal decreto legislativo n. 66 del 2003 anche attraverso l'eliminazione del limite giornaliero di durata della prestazione lavorativa. Nel nostro ordinamento non vige più, pertanto, un limite positivo alla durata giornaliera del lavoro ma, semmai, un limite che può ricavarsi, a contrario, dal combinato disposto dagli articoli 7 e 8 del decreto nella misura di 13 ore giornaliere, ferme restando le pause. Tale individuazione risulta conforme al dettato costituzionale che impone alla legge di definire la durata massima della giornata lavorativa.
La limitazione positiva della durata della prestazione lavorativa giornaliera, benché non sia disposta per legge, potrebbe essere disposta dalla autonomia privata, ma ai soli fini contrattuali, imponendo un limite anche alla modulazione, pertanto alla flessibilità, dell'organizzazione del lavoro nella sue caratteristiche temporali.

Deroghe alla durata settimanale dell'orario

L'art. 16 del decreto, che recepisce le corrispondenti disposizioni dell'Accordo interconfederale del 1997, ampliandole con le fattispecie di cui alle lettere "m" ed "n", riporta l'elencazione delle ipotesi per le quali non si applica la disposizione sulla durata settimanale di 40 ore di lavoro. Per queste attività, quindi, non esiste un orario settimanale normale stabilito per legge.
Si tratta di una serie di attività e di prestazioni suscettibili di aggiornamento e armonizzazione con i principi della nuova normativa mediante decreto del Ministero del lavoro, da adottare sentite le OO.SS. datoriali e dei lavoratori maggiormente rappresentative.
Pertanto, tutte le attività che rientrano tra le ipotesi dell'articolo in questione continuano a mantenere la loro specificità, salvo i necessari adeguamenti al principio della durata media settimanale di 48 ore che dovranno essere adottati con i decreti di armonizzazione previsti dal secondo comma dell'art. 16.
 
 
5. Violazioni in materia di orario normale di lavoro
L'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 66/2003 prevede che "l'orario normale di lavoro é fissato in 40 ore settimanali". Ai soli fini contrattuali, i contratti collettivi di lavoro possono prevedere una minore durata.
A tal proposito va chiarito che le 40 ore settimanali di lavoro sono calcolate non necessariamente sulla base della settimana lavorativa ma per ogni periodo di sette giorni.
La violazione della previsione è punita in via amministrativa con la sanzione da € 25,00 a € 154,00 inoltre, se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori ovvero si è verificata nel corso dell'anno solare per più di cinquanta giornate lavorative, la sanzione amministrativa va da € 154,00 a € 1.032,00 e non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta.
Per tale violazione non trova applicazione l'istituto della diffida di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 124/2004.

6. Durata massima dell'orario di lavoro

Il decreto, al fine di tutelare la salute e sicurezza dei lavoratori, di consentire una più attuale distribuzione dei tempi di vita e di lavoro e di garantire eque condizioni di concorrenza tra le imprese, nel mercato comunitario, prevede un sistema di limiti alla durata della prestazione lavorativa organizzati in modo flessibile.
La durata massima settimanale dell'orario di lavoro, comprensiva sia del lavoro ordinario sia di quello straordinario, è stabilita dai contratti collettivi e riguarda, in generale, sia il settore pubblico sia il settore privato.
L'orario settimanale, sia in presenza sia in assenza di contrattazione applicabile, non può superare le 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario, per ogni periodo di sette giorni calcolate, come media, su un periodo di riferimento non superiore a 4 mesi.
A tale limite deve attenersi l'autonomia individuale.
Il limite delle 48 ore medie, nel periodo di riferimento, deve essere rispettato sia nel caso in cui il datore stabilisca un orario rigido e uniforme sia nel caso in cui l'orario di lavoro venga disciplinato in senso multiperiodale mediante il rispetto del limite come media, per ogni periodo di sette giorni, in un determinato periodo. Quindi il decreto non vieta prestazioni che superino, nell'arco di sette giorni, le 48 ore in quanto il periodo di riferimento sia un periodo più ampio della settimana e non superiore a quattro mesi, salvi i più ampi periodi che può fissare la contrattazione collettiva. Nella settimana lavorativa si potrà superare il limite delle 48 ore settimanali purché vi siano settimane lavorative di meno di 48 ore in modo da effettuare una compensazione e non superare il limite delle 48 ore medie nel periodo di riferimento.
L'attività potrà essere concentrata in alcuni periodi e ridotta in altri in modo da realizzare una efficiente gestione dei fattori produttivi. Ad esempio, in un periodo di 4 mesi dal 1 gennaio al 30 aprile, l'orario settimanale di lavoro del mese di gennaio potrebbe essere di 60 ore, di 40 ore il mese di febbraio e di 35 ore il mese di marzo e di 48 ore il mese di aprile.
Nel caso in cui la contrattazione collettiva non provveda a disciplinare l'orario di lavoro multiperiodale, l'autonomia individuale potrà intervenire esclusivamente con riferimento all'orario di lavoro straordinario.
La contrattazione collettiva, oltre che determinare la durata massima settimanale dell'orario di lavoro, ha facoltà di elevare il periodo di riferimento, in relazione agli specifici interessi del settore cui i datori di lavoro ed i lavoratori appartengono, da 4 fino a 6 mesi e, in caso di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all'organizzazione del lavoro, fino a 12 mesi.
La durata massima dell'orario di lavoro, pari a 48 ore medie nel periodo di riferimento, si applica anche nei confronti degli apprendisti maggiorenni. I lavoratori adolescenti, anche non apprendisti, rimangono assoggettati alla disciplina della l. n. 977 del 1967 che, all'articolo 18, pone un limite orario settimanale di 40 ore ed uno giornaliero di 8 ore. Di tale limitazione, anche giornaliera, deve tenersi conto anche nell'ipotesi di distribuzione dell'orario di lavoro su base multiperiodale. Per i bambini, liberi da obblighi scolastici, la stessa disposizione legislativa prevede al primo comma che l'attività lavorativa non può essere prestata per più di 7 ore giornaliere e 35 settimanali.
 
7. Violazione in materia di durata massima dell'orario di lavoro
 
L'articolo 4, comma 2, del decreto legislativo n. 66/2003 stabilisce che "la durata media dell'orario di lavoro non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette giorni, le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro straordinario". In base ai successivi commi 3 e 4, la durata media dell'orario di lavoro deve essere calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi e i contratti collettivi di lavoro possono in ogni caso elevare tale limite fino a sei mesi ovvero fino a dodici mesi a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all'organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti collettivi.
La violazione di tale previsione è punita con la sanzione amministrativa da € 130,00 a € 780,00 per ogni lavoratore e per ciascun periodo di riferimento cui si riferisca la violazione.
Per quanto attiene alle modalità di computo delle 48 ore settimanali va tenuto presente che, ai sensi dell'art. 6, comma 1, del decreto legislativo n. 66 del 2003 "i periodi di ferie e i periodi di assenza per malattia non sono presi in considerazione ai fini del computo della media".
Sebbene la previsione normativa faccia esclusivo riferimento solo alle ferie e alla malattia, in considerazione della ratio della disposizione, sembra possibile equiparare a tali assenze quelle dovute ad infortunio e gravidanza, che comunque si ricollegano allo stato di salute del lavoratore. Tutti i restanti periodi di assenza con diritto alla conservazione del posto restano pertanto ricompresi nell'arco temporale di riferimento, sia pur con indicazione delle ore pari a zero.
In riferimento invece all'arco temporale di quattro, sei o dodici mesi sul quale va calcolata la media delle ore di lavoro effettuate, si precisa che lo stesso è da considerarsi scorrevole limitatamente ai periodi di ferie e malattia e periodi equiparabili alla malattia a differenza di quanto avviene negli altri periodi di sospensione (ad es. sciopero).
In altre parole, l'arco temporale di riferimento può superare il quadrimestre (ovvero il semestre o l'anno) in quanto nella sua determinazione non vanno computate le assenze dovute a ferie e malattia o periodi equiparabili alla malattia; ad esempio, nel considerare il quadrimestre gennaio/aprile, tale periodo, in considerazione delle assenze dovute a malattia, potrebbe scorrere nel mese di maggio.
Quanto alla procedura estintiva della violazione mediante diffida, trattandosi di condotta commissiva e non risultando comunque recuperabile l'interesse sostanziale protetto dalla norma, si ritiene che la stessa non possa trovare applicazione.
 
8. Violazione dell'obbligo di comunicazione del superamento delle 48 ore settimanali
 
L'art. 4, comma 5, del decreto legislativo n. 66 del 2003, come modificato dall'art. 1, comma 1 lett. c) del decreto legislativo n. 213 del 2004 stabilisce che "in caso di superamento delle 48 ore di lavoro settimanale, attraverso prestazioni di lavoro straordinario, per le unità produttive che occupano più di dieci dipendenti il datore di lavoro é tenuto a informare, entro trenta giorni dalla scadenza del periodo di riferimento… la Direzione provinciale del lavoro - Settore ispezione del lavoro competente per territorio".
La violazione della disposizione, in relazione a ciascun quadrimestre o al diverso periodo stabilito dalla contrattazione collettiva, è punita con la sanzione amministrativa da € 103,00 a € 200,00 euro.
Si sottolinea che detto obbligo, seppur formulato in modo analogo a quanto già previsto dall'art. 5 bis, comma 1, del R.D.L. n. 692/1923, come sostituito dall'art. 1, comma 1, della legge n. 409 del 1998, ha un maggior campo di applicazione, considerato che non è più limitato alle sole aziende industriali bensì a ciascun datore di lavoro, ma solo per la singola unità produttiva in cui egli occupi  più di 10 dipendenti.
Ai fini della configurazione della fattispecie è necessario che il superamento delle 48 ore settimanali ricomprenda prestazioni di lavoro straordinario, giacché se il superamento avviene sulla base di un orario di lavoro multiperiodale l'adempimento non è dovuto.
A differenza di quanto avviene per il calcolo del superamento delle 48 medie, l'arco temporale di riferimento (quattro, sei o dodici mesi) ha natura fissa, così come già chiarito da questo Ministero con la precedente circolare n. 27 del 30 luglio 2003 e con la successiva nota n. 5/27373/70 dell'11 settembre 2003.
Circa invece il superamento delle 48 ore di lavoro settimanale, la relativa comunicazione deve riguardare il numero delle settimane in cui detto limite risulta superato per ogni periodo di 7 giorni.
Si precisa, inoltre, che per effetto delle disposizioni di cui all'art. 16 del decreto legislativo n. 66 del 2003, con riferimento al personale nei confronti del quale non si applica il limite dell'orario normale di lavoro pari a 40 ore settimanali, non opera la sanzione in esame, giacché tale personale è escluso dall'obbligo di comunicazione.
La condotta in esame è di natura omissiva e l'interesse protetto dalla disposizione appare sicuramente recuperabile, anche in ragione della non incidenza diretta sulla tutela psico-fisica del lavoratore; risulta pertanto possibile l'applicazione della procedura estintiva della diffida.

9. Lavoro straordinario

Il "lavoro straordinario", a norma dell'articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 66 del 2003, è quello prestato oltre l'orario normale così come definito dall'articolo 3 del decreto.
Il ricorso al lavoro straordinario "deve essere contenuto".
Non è più prevista una durata massima giornaliera delle prestazioni straordinarie (così come la prevedeva, per i datori di lavoro che non fossero imprenditori industriali, l'art. 5 r. d. l.  n. 692 del 1923), bensì una durata massima settimanale che, cumulata con le ore di lavoro normale, non può superare il livello medio di 48 ore. Infatti, ai sensi dell'articolo 4, comma 2, la durata medio/massima dell'orario di lavoro per ogni periodo di sette giorni, non può superare le 48 ore medie, comprensive del lavoro straordinario, nel periodo di riferimento.
Il ricorso al lavoro straordinario è legittimo in presenza di un accordo collettivo applicato ovvero applicabile, che preveda una disciplina del lavoro straordinario ovvero, in mancanza di esso, in presenza di un previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore. In questo ultimo caso il ricorso al lavoro straordinario non può superare le 250 ore annue, oltre alle casistiche previste al comma 4 dell'art. 5 del decreto.
Perché possa essere superato il suddetto limite è necessario, quindi, che esista un contratto collettivo applicato ovvero applicabile, inoltre è necessario che il contratto collettivo disciplini il ricorso al lavoro straordinario.
In aggiunta ai limiti fissati dal contratto collettivo o dalla legge (250 ore annuali) il ricorso al lavoro straordinario è consentito, salvo diversa disciplina collettiva, in relazione all'ipotesi in cui non sia possibile fronteggiare i casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive attraverso l'assunzione di altri lavoratori; nei casi di forza maggiore; nei casi in cui la mancata esecuzione di prestazioni di lavoro straordinario possa dare luogo a un pericolo grave e immediato ovvero a un danno alle persone o alla produzione.
Inoltre è consentito in caso di eventi particolari, come mostre, fiere e manifestazioni collegate alla attività produttiva, nonché allestimento di prototipi, modelli o simili, predisposti per le stesse, preventivamente comunicati agli uffici competenti ai sensi dell'art. 19 della legge n. 241 del 1990, come sostituito dall'art. 2, comma 10, della legge n. 537 del 1993.
In quest'ultimo caso gli eventi indicati devono essere comunicati in tempo utile alle rappresentanze sindacali aziendali.
Anche in questi casi, a fronte della richiesta del datore, il lavoratore è tenuto alla prestazione del lavoro straordinario, salvo sussistano ragioni che consentano al lavoratore di rifiutarne l'esecuzione.
Il lavoro straordinario deve essere computato separatamente dal computo del lavoro normale e deve essere retribuito con una maggiorazione, rispetto al lavoro normale, il cui ammontare è stabilito dalla contrattazione collettiva. Quest'ultima può disporre che, in aggiunta o in alternativa alla maggiorazione retributiva, i lavoratori possano usufruire di riposi compensativi. In questo caso le prestazioni straordinarie eseguite non sono computabili ai fini della durata media dell'orario di lavoro prevista, nella misura massima complessiva delle 48 ore settimanali, dall'articolo 4, comma 2.
In caso di superamento delle 48 ore di lavoro settimanale, questa volta da intendersi come valore assoluto, attraverso prestazioni di lavoro straordinario, entro trenta giorni dalla scadenza del periodo di riferimento di 4 mesi o di quello superiore previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro che occupa più di dieci dipendenti nell'unità produttiva interessata è tenuto a informare la direzione provinciale del lavoro - Settore ispezione del lavoro competente per territorio. Qualora il superamento del limite delle 48 ore non avvenga attraverso prestazioni di lavoro straordinario non è dovuta la comunicazione ex art. 4, comma 5.
L'obbligo di comunicazione può essere adempiuto secondo le modalità previste dai contratti collettivi, in questo caso il mancato rispetto delle disposizioni contrattuali non costituisce violazione dell'obbligo di comunicazione purché sia comunque raggiunto lo scopo comunicativo.
Ai fini del calcolo dei dipendenti non devono essere computati i lavoratori con contratto di somministrazione, mentre i lavoratori a tempo parziale devono essere computati in proporzione all'orario svolto tranne che nel settore del pubblico impiego.
 
10. Violazioni in materia di lavoro straordinario
Ai sensi dell'art. 5, comma 3, del decreto legislativo n. 66 del 2003 il datore di lavoro non può fare eseguire ai propri dipendenti lavoro straordinario oltre le 250 ore annue ovvero oltre i diversi limiti temporali stabiliti dalla contrattazione collettiva. Oltre tali limiti e salva diversa ipotesi prevista dai contratti collettivi, è ammesso lo svolgimento di lavoro straordinario al verificarsi di tali condizioni:
- nei casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive con impossibilità di fronteggiarle mediante assunzione di altri lavoratori;
- nei casi di forza maggiore o di pericolo grave e immediato o ancora di danno alle persone o alla produzione;
- in occasione di altri eventi particolari (mostre, fiere, manifestazioni etc.).
La disposizione, quindi, fissa sia limiti quantitativi che tipologici alla prestazione di lavoro straordinario, che non riguardano, evidentemente, il personale di cui all'art. 16 del decreto legislativo n. 66 del 2003, per il quale non trova applicazione la disciplina dell'orario normale di lavoro.
In riferimento ai limiti quantitativi, appare sanzionabile il datore di lavoro che faccia superare il limite del lavoro straordinario contrattualmente fissato, solo se lo stesso sia superiore al limite legale delle 250 ore annuali, ferme restando le deroghe individuate dalla legge per eventi eccezionali, particolari o forza maggiore.
Se il limite previsto dalla contrattazione collettiva è inferiore alle 250 ore, solo al superamento di detta soglia, ma fatte salve le ipotesi derogatorie di cui al comma 4 dell'art. 5 (casi eccezionali, forza maggiore, eventi particolari ecc.), si configura la violazione della previsione normativa.
Nelle ipotesi in cui la contrattazione collettiva individui limiti tipologici (ossia individui i casi o le ipotesi in cui è possibile chiedere prestazioni di lavoro straordinario) ovvero in cui il limite posto dalla contrattazione collettiva sia superiore alle 250 ore, tale previsione opera quale scriminante rispetto alla violazione del limite di legge e pertanto solo al superamento di essa il datore di lavoro è assoggettato alla sanzione, salva sempre l'operatività delle ipotesi derogatorie (casi eccezionali, forza maggiore, eventi particolari ecc.).
Risulta inoltre sanzionabile il datore di lavoro che ricorre al lavoro straordinario, oltre il limite delle 250 ore o maggior limite previsto dalla contrattazione collettiva, al di fuori delle ipotesi derogatorie (casi eccezionali, forza maggiore, eventi particolari ecc.), la cui applicabilità può peraltro essere esclusa, in tutto o in parte, dalla contrattazione collettiva.
Il superamento dei predetti limiti quantitativi e tipologici è soggetto alla sanzione amministrativa da € 25,00 a € 154,00; inoltre, se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori ovvero si è verificata nel corso dell'anno solare per più di cinquanta giornate lavorative, la sanzione amministrativa va da € 154,00 a € 1.032,00 e non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta.
Per tale violazione non trova applicazione l'istituto della diffida di cui all'art. 13 del decreto legislativo n. 124 del 2004.
 
Computo e retribuzione del lavoro straordinario
L'art. 5, comma 5, del decreto legislativo n. 66 del 2003 stabilisce, senza sostanziali novità rispetto alla precedente disciplina di cui all'art. 5 del R.D.L. n. 692/1923, che "il lavoro straordinario deve essere computato a parte e compensato con le maggiorazioni retributive previste dai contratti collettivi di lavoro. I contratti collettivi possono in ogni caso consentire che, in alternativa o in aggiunta alle maggiorazioni retributive, i lavoratori usufruiscano di riposi compensativi".
La violazione della disposizione è punita con la sanzione amministrativa da € 25,00 a € 154,00; inoltre, se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori ovvero si è verificata nel corso dell'anno solare per più di cinquanta giornate lavorative, la sanzione amministrativa va da € 154,00 a € 1.032,00 e non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta.
Si sottolinea al riguardo che rispetto al passato, ove era fissata nella misura del 10 per cento la maggiorazione minima della retribuzione straordinaria, la violazione si configura necessariamente con la mancata corresponsione della maggiorazione retributiva stabilita dalla contrattazione collettiva ovvero con il mancato riconoscimento del riposo compensativo previsto dal contratto collettivo.
 Per quanto concerne la definizione dell'illecito mediante diffida a regolarizzare, non sembrano sussistere ostacoli all'utilizzo della stessa, considerata sia la natura omissiva delle fattispecie contemplate, sia la possibilità di recuperare agevolmente l'interesse protetto.
 
11. Criteri di computo
L'art. 6, comma 1, del decreto legislativo n. 66 del 2003 prevede che i periodi di ferie e di assenze per malattia non devono essere considerati ai fini del computo della media di cui all'art. 4. Il riferimento alla malattia, coma già accennato, si ritiene debba intendersi equivalente a quello di "stato invalidante" e comprendere quindi anche le assenze comunque legate alla salute del lavoratore (infortunio, gravidanza ecc.). L'interpretazione più corretta sembra consistere nel considerare neutre tali assenze rispetto al calcolo della media, con il conseguente slittamento del periodo di riferimento sul quale calcolare la media.
Lo "slittamento" del periodo di riferimento è, ovviamente, riferito al solo calcolo della media delle ore settimanali lavorate (non superiore alle 48) ma non rileva ai fini della scadenza dei termini per la comunicazione di cui al comma 5 dell'art. 4 (superamento tramite straordinario) che indipendentemente dalle assenze resterà cristallizzato nei termini di legge od in quelli fissati dalla contrattazione collettiva.
Il comma 2 dello stesso articolo prevede che non vengano computate, ai fini del calcolo della media in questione, le ore di lavoro straordinario per le quali il lavoratore abbia beneficiato del riposo compensativo. In questo caso sembra doversi ritenere che tale meccanismo di calcolo possa essere adottato solo qualora sia il lavoro straordinario sia il relativo riposo compensativo siano effettuati in un medesimo periodo di riferimento, dovendosi, al contrario provvedere a computare le ore di straordinario effettuate qualora il riposo compensativo sia effettuato in un successivo periodo di riferimento.
Diversamente, stante la lettera dell'art. 6 che fa riferimento ai criteri di computo ai fini del solo calcolo della media, il lavoro straordinario effettuato nella settimana, qualora il relativo riposo compensativo non sia goduto nella stessa, sarà computato ai fini della comunicazione, di cui al comma 5 dell'art. 4, relativa al superamento delle 48 ore nella singola settimana a causa della prestazione di lavoro straordinario.
Il criterio di calcolo basato sulla media individua il limite entro il quale deve considerarsi rispettato il principio della tutela della salute e della sicurezza del lavoro, indipendentemente dalla durata effettiva del rapporto di lavoro.
Va inoltre chiarito che, nel caso di rapporti a tempo determinato di durata inferiore al periodo di riferimento (4, 6 o 12 mesi), per il calcolo dell'orario medio di lavoro è necessario considerare l'effettiva durata del contratto di lavoro a termine. Invece nei rapporti di lavoro risolti inaspettatamente prima della scadenza del periodo di riferimento, il periodo da prendere in considerazione quale base di calcolo della media è pari a 4 mesi (ovvero 6 o 12 mesi qualora previsto dalla contrattazione collettiva).

12. Riposo giornaliero

Il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutive ogni 24 ore, calcolate dall'ora di inizio della prestazione lavorativa. Rimane ferma la durata del normale orario settimanale fissato in 40 ore o nel minor valore individuato dalla contrattazione.
Il periodo di riposo di undici ore è un periodo minimo, salvi i casi di deroghe previste, quindi l'eventuale accordo che diminuisca tale periodo è nullo e sostituito di diritto dalla disposizione normativa.
Le parti possono accordarsi per un periodo di riposo maggiore di quello stabilito dall'art. 7 del decreto legislativo n. 66 del 2003, in questo caso il lavoratore ha facoltà di rinunciare al periodo di riposo compreso tra la misura convenzionale e quella minima prevista.
 
Il lavoratore ha diritto al periodo di riposo giornaliero anche qualora sia titolare di più rapporti di lavoro.
 
Peraltro, poiché non esiste alcun divieto di essere titolari di più rapporti di lavoro non incompatibili, il lavoratore ha l'onere di comunicare ai datori di lavoro l'ammontare delle ore in cui può prestare la propria attività nel rispetto dei limiti indicati e fornire ogni altra informazione utile in tal senso.
 
Il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo salvo che per le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata, ossia per quelle attività che, per loro natura, sono svolte in tal modo come, in particolare, l'attività del personale addetto alle pulizie. Per queste ultime attività, sarà la contrattazione collettiva a disciplinare le più opportune modalità di fruizione del riposo giornaliero.
Nel periodo di riposo non si computano i riposi intermedi, nonché le pause di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l'inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesto  alcun tipo di  prestazione lavorativa in quanto non si tratta di un periodo di riposo continuativo.
Questi periodi non rientrano nell'orario di lavoro né nel periodo di riposo.
Il terzo comma dell'articolo 8 del decreto legislativo n. 66 del 2003 recita testualmente che "Salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi, rimangono non retribuiti o computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata i periodi di cui all'art. 5, regio decreto 10 settembre 1923, n. 1955, e successivi atti applicativi, e dell'art. 4 del regio decreto 10 settembre 1923, n. 1956, e successive integrazioni". Questi periodi,  pertanto, non rientrano nell'orario di lavoro.
Il richiamo operato all'art. 5 del R.D.  10/9/23,  n. 1955,   ha la sola finalità di individuare i periodi suddetti.  Deve, pertanto, ritenersi abrogato il disposto di cui al secondo comma del citato articolo 5 il quale prevedeva che "i riposi normali,  perché possano essere detratti dal computo del lavoro effettivo, debbono essere prestabiliti ad ore fisse ed indicati nell'orario di cui all'art. 12".
Da ciò deriva che, alla luce della vigente disciplina,  la pausa intermedia di 10 minuti possa essere anche mobile. Allo stesso modo deve pure considerarsi decaduto l'obbligo della esposizione dell'orario "in modo facilmente visibile  ed in luogo accessibile a tutti i dipendenti" così come l'obbligo di comunicarlo all'Ispettorato del Lavoro previsto dall'art. 12 del citato regio decreto.
 
Deroghe in materia di riposo giornaliero
L'art. 7, nella parte che determina la misura e la consecutività del riposo giornaliero, può essere derogato ai sensi dell'art. 17. La deroga può essere disposta da  contratti collettivi o accordi conclusi a livello nazionale tra le organizzazioni sindacali nazionali comparativamente più rappresentative e le associazioni nazionali dei datori di lavoro firmatarie di contratti collettivi nazionali di lavoro o, conformemente alle regole fissate nelle medesime intese, mediante contratti collettivi o accordi conclusi al secondo livello di contrattazione. Per poter derogare alla disposizione in materia di riposo le parti devono accordare ai prestatori di lavoro periodi equivalenti di riposo compensativo. Se, in casi eccezionali ed oggettivi, non possono essere previsti dei periodi di riposo compensativo ai lavoratori interessati, deve essere accordata loro una protezione appropriata.  In  presenza di una siffatta tutela  devono considerarsi ancora  in vigore le  previgenti disposizioni collettive  che regolamentano l'orario di lavoro non rispettando il limite di 11 ore di riposo consecutivo.
Nelle ipotesi di attività frazionate le deroghe alla disciplina in materia di riposi alle condizioni di cui all'art. 17, comma 4, possono avere ad oggetto la durata del riposo.

13. Pause

Il lavoratore ha diritto ad un intervallo di pausa dall'esecuzione della prestazione lavorativa quando la stessa ecceda le sei ore nell'ambito dell'orario di lavoro.
Le funzioni per le quali è previsto il diritto alla pausa sono individuate nell'esigenza di consentire il recupero delle energie, nell'eventuale consumazione del pasto e nell'attenuazione del lavoro ripetitivo e monotono.
La durata e le modalità della pausa sono stabilite dalla contrattazione collettiva.
In mancanza di contrattazione collettiva che preveda una pausa per una finalità qualsiasi, anche ulteriore rispetto a quelle previste dal decreto, il lavoratore ha diritto ad un intervallo non inferiore a 10 minuti.
Il periodo di pausa può essere fruito anche sul posto di lavoro, in quanto la finalità della pausa è quella di costituire un intervallo tra due momenti di esecuzione della prestazione, ma non può essere sostituito da compesazioni economiche. La eventuale "concentrazione" della pausa all'inizio o alla fine della giornata lavorativa, che determina in sostanza una sorta di riduzione dell'orario di lavoro, può essere ritenuta lecita come disciplina derogatoria, ex art. 17 comma 1 e per il legittimo esercizio della quale è necessario accordare ai lavoratori degli equivalenti periodi di riposo compensativo o, comunque, assicurare una appropriata protezione. Quindi si ritengono superate, dalle disposizioni di legge, quelle regole collettive o individuali che prevedono al posto della pausa la sola compensazione economica.
La determinazione del momento in cui godere della pausa è rimessa al datore di lavoro che la può individuare, tenuto conto delle esigenze tecniche dell'attività lavorativa, in qualsiasi momento della giornata lavorativa e non necessariamente successivamente al trascorrere delle 6 ore di lavoro. Quindi, nell'ipotesi in cui l'organizzazione del lavoro preveda la giornata c.d. spezzata, la pausa potrà coincidere con il momento di sospensione dell'attività lavorativa.
La pausa minima stabilita per legge e corrispondente a 10 minuti deve essere fruita consecutivamente affinché possa essere raggiunta la finalità per la quale è prevista. I periodi di pausa, stante la definizione di orario di lavoro, non vanno computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata.
I periodi di pausa non sono retribuiti, salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi. In particolare non sono retribuiti i riposi intermedi che siano presi sia all'interno che all'esterno dell'azienda; il tempo impiegato per recarsi al posto di lavoro ; le soste di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l'inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione.
 
Pausa per alcune particolari attività
I lavoratori che utilizzino un'attrezzatura  munita di videoterminali in modo sistematico o abituale, per venti ore settimanali, hanno diritto, qualora svolgano tale attività per almeno quattro ore consecutive, ad una pausa stabilita, nelle modalità, dalla contrattazione collettiva. Qualora nulla disponga la contrattazione collettiva, questi lavoratori hanno diritto a 15 minuti di pausa ogni 120 minuti di applicazione continuativa al videoterminale, senza possibilità di cumulo all'inizio ed al termine dell'orario di lavoro. Il tempo di pausa è considerato orario di lavoro.
Il periodo di pausa di cui all'articolo 8 è assorbito da quello appena indicato quando quest'ultimo comporti una interruzione dell'attività lavorativa e non consista in un cambiamento dell'attività.

14. Riposi settimanali

Il lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, ogni sette giorni, di regola coincidenti con la domenica. Il periodo di riposo settimanale deve essere cumulato con il riposo giornaliero, per un totale di 35 ore consecutive nelle ipotesi in cui il periodo di riposo sia individuato in 11 ore.
Il decreto pone una intricata disciplina in materia di eccezioni e deroghe ai principi indicati in materia di riposi settimanali.
In particolare prevede due categorie di eccezioni.
Da un lato prevede che le regole della periodicità, della coincidenza con la domenica, della durata e della consecutività possano essere derogate per alcune attività, quelle di cui alle lettera a), b), c) dell'art. 9, comma 2 del decreto legislativo n. 66 del 2003. Inoltre prevede che la contrattazione collettiva possa introdurre delle deroghe purché ai lavoratori siano concessi periodi equivalenti di riposo compensativo o, in caso di eccezionale impossibilità oggettiva, che sia predisposta una  protezione appropriata a favore degli stessi.
Dall'altro lato prevede che la regola della coincidenza del riposo domenicale possa essere derogato nelle ipotesi elencate - peraltro già contenute nell'art. 5 della legge n. 370 del 1934 - in cui il riposo settimanale di 24 ore consecutive può essere spostato in un giorno diverso dalla domenica e attuato mediante turni del personale.
Innanzitutto, per quanto riguarda la prima categoria di eccezioni, la disposizione che prevede che il periodo di riposo settimanale debba coincidere con la domenica può essere derogata in quanto la coincidenza è esclusivamente tendenziale. La disposizione che prevede la cadenza del riposo ogni sette giorni può essere derogata, in conformità agli orientamenti consolidati e prevalenti in giurisprudenza, in presenza, si ritiene, di una triplice condizione: che esistano degli interessi apprezzabili, che si rispetti, nel complesso, la cadenza di un giorno di riposo ogni sei di lavoro, che non si superino i limiti di ragionevolezza con particolare riguardo alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. La disposizione che prevede la durata del riposo può essere derogata nel limite delle 24 ore che costituiscono la soglia minima di tutela. Qualora esistano delle disposizioni che prevedono la durata del riposo al di sotto di tale soglia, le stesse dovranno prevedere un recupero compensativo. La disposizione che prevede la consecutività delle ore di riposo può anch'essa essere derogata nel rispetto del limite delle 24 ore. 
Il decreto fa salve le disposizioni speciali in materia di riposi settimanali e deroghe previste dalla disciplina dettata in materia di riposi domenicali e settimanali.
Le ulteriori  attività per le quali il decreto legislativo n. 66 del 2003 ammette la derogabilità della disciplina del riposo settimanale, che non siano già previste da disposizioni vigenti, saranno individuate con decreto del Ministero del Lavoro, adottato dopo aver sentito le organizzazioni sindacali nazionali di categoria comparativamente più rappresentative, nonché le organizzazioni nazionali dei datori di lavoro.
Pertanto, qualora un contratto collettivo finisca per identificare una nuova attività, diversa da quelle già previste, si dovrà attivare la procedura di cui all'art. 9.
 
15. Violazioni in materia di riposo giornaliero e settimanale
L'art. 7 del decreto legislativo n. 66 del 2003 stabilisce che "ferma restando la durata normale dell'orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore. Il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata".
La previsione stabilisce pertanto che il datore di lavoro non può richiedere al lavoratore lo svolgimento di una prestazione lavorativa, sia a titolo di orario normale di lavoro (anche multiperiodale), sia a titolo di lavoro straordinario, la cui durata determini il mancato rispetto del limite di 11 ore di riposo consecutivo nell'arco delle 24 ore.
La previsione introduce anche un ulteriore obbligo per il datore di lavoro, relativo alla consecutività del riposo, con la sola eccezione delle attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata (ad es. le attività di pulizie e quelle tipiche della ristorazione).
L'art. 9 del decreto legislativo n. 66 del 2003 stabilisce che "il lavoratore ha diritto ogni sette giorni a un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero…".
La violazione della disposizione è punita con la sanzione amministrativa da € 105,00 a € 630,00.
Si evidenzia, anzitutto, che deve ritenersi integrata la fattispecie sanzionatoria in tutte quelle ipotesi in cui, pur concedendo il riposo delle 24 ore consecutive, il datore di lavoro non consenta il cumulo con il riposo giornaliero, e cioè non aver concesso le 35 ore di riposo complessivo.
Va inoltre sottolineata la possibilità, da parte della contrattazione collettiva, di individuare delle deroghe all'obbligo di concessione del riposo settimanale (fermo restando l'obbligo, ove possibile, del riposo compensativo) che condizionano pertanto il campo di applicazione della fattispecie sanzionatoria. Sarà quindi necessario, prima di procedere a sanzionare il mancato rispetto della previsione normativa, verificare l'esistenza di eventuali deroghe introdotte dalla contrattazione collettiva, anche ove quest'ultima sia intervenuta prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 66 del 2003, ma abbia dettato disposizioni coerenti e compatibili con quanto previsto dal medesimo decreto..
Va infine rilevato che integra una ulteriore e diversa previsione sanzionatoria la coincidenza del riposo settimanale con la domenica giacché, pur concedendo il riposo settimanale, il datore di lavoro sarà soggetto a sanzione ove non ricorrano le ipotesi di cui all'art. 9, comma 2 o 3.
Sotto il profilo sanzionatorio, la violazione della mancata concessione del riposo giornaliero e/o settimanale è punita con la sanzione amministrativa da € 105,00 a € 630,00.
A tal proposito si rileva che la previsione normativa, pur non commisurata al numero delle giornate e dei lavoratori, trova applicazione con riferimento alla singola condotta datoriale che comunque si sostanzia nel non consentire i periodi di riposo a ciascun lavoratore coinvolto ed in relazione a ciascun periodo considerato (giorno o settimana). Ne consegue che, in tali ipotesi, vadano applicate tante sanzioni quanti sono i lavoratori interessati ed i riposi giornalieri o settimanali non fruiti, fermo restando quanto stabilito dall'art. 8, comma 1, L. n. 689 del 1981.
Va infine rilevato che, in tale fattispecie, non trova applicazione l'ipotesi di cui all'articolo 8, comma 2, della L. n. 689/1981, concernente la continuazione nell'ambito delle violazioni amministrative, in quanto tale previsione è riferita alle sole violazioni "in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria" e la disciplina sull'orario di lavoro non rientra in tale materia.
Per tale violazione non trova applicazione l'istituto della diffida di cui all'art. 13 del decreto legislativo n. 124 del 2004.
Da ultimo si ritiene opportuno richiamare l'attenzione sulla applicabilità delle sanzioni relative al rispetto degli obblighi in materia di riposo settimanale anche ai dirigenti e al personale direttivo, alla manodopera familiare, ai lavoratori del settore liturgico e ai lavoratori che operano a domicilio o in regime di telelavoro (ex art. 17, comma 5, decreto legislativo n. 66 del 2003).

16. Ferie annuali

La disciplina in materia di ferie è, innanzitutto, regolata dall'art. 36, comma 3, della Costituzione, che tutela il diritto del lavoratore ad un periodo di ferie annuali retribuite cui non può rinunciare.
L'art. 2109, comma 2, del Codice Civile dispone poi che la durata delle ferie è fissata dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi e secondo equità; che il momento di godimento delle ferie è stabilita dal datore di lavoro che deve tenere conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore; che il periodo feriale deve essere possibilmente continuativo; che il periodo feriale deve essere retribuito.
Oltre a quanto sopra indicato la Convenzione OIL n. 132 del 24 giugno 1970 (ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 157) prevede un periodo di ferie minimo di tre settimane di cui due da godere ininterrottamente. Inoltre, dispone  che la fruizione del periodo bisettimanale "dovrà essere accordata e usufruita entro il termine di un anno al massimo, e il resto del congedo annuale pagato entro il termine di diciotto mesi, al massimo, a partire dalla fine dell'anno che dà diritto al congedo". Inoltre, "ogni parte di congedo annuale che superi un minimo stabilito potrà, con il consenso della persona impiegata interessata, essere rinviata, per un periodo limitato, oltre i limiti indicati" in precedenza.
La Corte costituzionale, con sentenza 19 dicembre 1990, n. 543, ha, fra l'altro, affermato che il godimento infra-annuale dell'intero periodo di ferie deve essere contemperato con le esigenze di servizio che hanno carattere di eccezionalità o comunque con esigenze aziendali serie.
In questo quadro normativo si è inserito il decreto legislativo 66 del 2003 che ha disposto che "il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane".
Quindi, nel caso di fruizione di un periodo feriale consecutivo di quattro settimane, tale periodo equivale a 28 giorni di calendario.
Con il decreto legislativo n. 66 del 2003 è stata introdotto per la prima volta in Italia, in modo espresso, il divieto di monetizzare il periodo di ferie corrispondente alle quattro settimane previste dalla legge, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro nel corso dell'anno. Per quanto riguarda i contratti a tempo determinato, di durata inferiore all'anno, è quindi sempre ammissibile la monetizzazione delle ferie.
L'impossibilità di sostituire il godimento delle ferie con la corresponsione dell'indennità sostitutiva è operante per la quota di ferie maturata a partire dal giorno dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 66 del 2003, ossia dal 29 aprile 2003.
Nei casi di sospensione del rapporto di lavoro che rendano impossibile fruire delle ferie secondo il principio della infra-annualità, le stesse dovranno essere godute nel rispetto del principio dettato dall'art. 2109 cod civ, espressamente richiamato nell'art. 10 del decreto legislativo n. 66 del 2003, ossia "nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro".
Il legislatore delegato ha, ora, dettato una specifica disciplina sul punto, in forza della quale si possono distinguere 3 periodi di ferie.
Un primo periodo, di almeno due settimane, da fruirsi in modo ininterrotto nel corso dell'anno di maturazione, su richiesta del lavoratore. La richiesta del lavoratore dovrà essere inquadrata nel rispetto dei principi dell'art. 2109 del Codice Civile. Pertanto, anche in assenza di norme contrattuali, dovrà essere formulata tempestivamente, in modo che l'imprenditore possa operare il corretto contemperamento tra le esigenze dell'impresa e gli interessi del prestatore di lavoro.
La contrattazione collettiva e la specifica disciplina per le categorie  di cui all'articolo 2 comma 2 possono disporre diversamente. Allo scadere di tale termine, se il lavoratore non ha goduto del periodo feriale di due settimane, il datore sarà passibile di sanzione.
Il periodo cui si riferisce la violazione è quello di due settimane. sarà sufficiente che il lavoratore non abbia goduto anche solo di una parte di detto periodo perché il datore di lavoro sia considerato soggetto alla sanzione indicata, anche nelle ipotesi in cui il godimento di detto congedo annuale sia in corso di godimento in quanto il periodo deve essere fruito nel corso dell'anno di maturazione e non oltre il termine di esso.
Un secondo periodo, di due settimane, da fruirsi anche in modo frazionato ma entro 18 mesi dal termine dell'anno di maturazione, salvi i più ampi periodi di differimento stabiliti dalla contrattazione collettiva. Nell'ipotesi in cui la contrattazione stabilisca termini meno ampi per la fruizione di tale periodo (ad esempio nel settore del pubblico impiego ove il termine è di 6 mesi) il superamento di questi ultimi, quando sia comunque rispettoso del termine dei 18 mesi, determinerà una violazione esclusivamente contrattuale.
Un terzo periodo, superiore al minimo di 4 settimane stabilito dal decreto, potrà essere fruito anche in modo frazionato ma entro il termine stabilito dall'autonomia privata dal momento della maturazione. Questo ultimo periodo può essere monetizzato tenendo conto, per il settore del pubblico impiego, delle previsioni dettate al riguardo.
 
17. Violazioni in materia di concessione delle ferie
L'articolo 10 del decreto legislativo n. 66 dle 2003, come modificato dal decreto legislativo n. 213 del 2004, stabilisce che "fermo restando quanto previsto dall'articolo 2109 del Codice Civile, il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla specifica disciplina riferita alle categorie di cui all'articolo 2, comma 2, va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione".
La violazione di tale disposizione è punita con la sanzione amministrativa da € 130,00 a 780,00 per ogni lavoratore e per ciascun periodo cui si riferisca la violazione.
La disposizione introduce pertanto i seguenti precetti:
1) obbligo di concedere un periodo di ferie di due settimane nel corso dell'anno di maturazione;
2) obbligo di concedere due settimane consecutive di ferie, se richiesto dal lavoratore, nel corso dell'anno di maturazione; la richiesta del lavoratore dovrà intervenire nel rispetto dei principi dell'art. 2109 del Codice Civile pertanto, anche in assenza di norme contrattuali sul punto, dovrà essere formulata tempestivamente, in modo che l'imprenditore possa operare il corretto contemperamento tra le esigenze dell'impresa e gli interessi del prestatore di lavoro;
3) fruizione del restante periodo minimo di due settimane nei 18 mesi successivi all'anno di maturazione.
La normativa attribuisce il diritto al riconoscimento di un periodo di ferie di quattro settimane ma, indipendentemente dalla previsione, la contrattazione collettiva può ampliare tale periodo, ferma restando ovviamente la sanzionabilità esclusivamente per la violazione del minimo previsto dalla legge (quattro settimane).
Ugualmente la contrattazione collettiva può prevedere un termine massimo di fruizione del periodo di ferie minore da quello individuato dal Legislatore (18 mesi successivi all'anno di maturazione), ferma restando la punibilità della sola violazione di legge.
Va inoltre rilevato che, in considerazione della dizione che fa esplicito riferimento alle sole "restanti due settimane", gli ulteriori giorni di ferie spettanti eccedenti le quattro settimane – previsti dalla contrattazione collettiva o dal contratto individuale – possono essere fruiti anche successivamente ai 18 mesi dalla loro maturazione e possono essere oggetto di monetizzazione, salvo eventuali specifiche previsioni di legge o di contrattazione collettiva.
Va infine evidenziato, quanto alle modalità di fruizione delle ferie, che la previsione normativa stabilisce la possibilità di un intervento in deroga da parte della contrattazione collettiva. Da ciò deriva, la possibilità per le parti sociali di introdurre una disciplina modificativa che, sotto un profilo
sanzionatorio, dia luogo ad una serie di esimenti che determinano la non punibilità della condotta quando la stessa, pur derogando alle disposizioni di legge, sia conforme alla previsione contrattuale.
Nei casi di sospensione del rapporto di lavoro che rendano impossibile fruire delle ferie secondo il principio della infra-annualità, le stesse dovranno essere godute nel rispetto del principio dettato dall'art. 2109 del Codice Civile, espressamente richiamato nell'art. 10 del decreto legislativo n. 66 del 2003, ossia "nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro": dunque si dovrà evitare ogni applicazione "automatica" del principio della infra annualità laddove ciò risulti impossibile o troppo gravoso per l'organizzazione aziendale. Di conseguenza, anche sotto il profilo sanzionatorio, occorrerà valutare con attenzione ed equilibrio ogni singola situazione.
Anche per tali fattispecie si ribadisce l'operatività dell'apparato sanzionatorio nei confronti del personale di cui all'art. 17, comma 5, del decreto legislativo n. 66 del 2003.
Per tale violazione non trova applicazione l'istituto della diffida di cui all'art. 13 del decreto legislativo n. 124 del 2004.
 
Personale dipendente da aziende autoferrotranviarie. Regime sanzionatorio
Con riferimento al decreto legislativo n. 213 del 2004, correttivo delle disposizioni del decreto legislativo n. 66 del 2003, e, segnatamente, alla predisposizione di apposite sanzioni (v. art. 1, lett. f), relative, in particolare, alla violazione delle norme sulla durata del riposo giornaliero (art. 18 bis, comma 4, del D.lgs n. 66 del 2003), sul riposo settimanale (art. 18 bis, comma 4) e sulla durata del lavoro notturno (art. 18, comma 7), è necessario chiarire che, in virtù della speciale disciplina applicabile al settore autoferrotranviario, ove ricorrano le fattispecie predette, continuano a  trovare attuazione le sanzioni previste dall'art. 11 del R.D.L. 19 ottobre 1923, n. 2328 e dall'art. 14 della legge n. 138 del 1958 (disposizione quest'ultima applicabile al solo personale mobile dei servizi automobilistici di linea extraurbani), in virtù dell'espresso richiamo effettuato a tali provvedimenti di legge nell'art. 19, comma 3, dello stesso decreto legislativo. n. 66 del 2003.

18. Lavoro notturno

Gli articoli dall'11 al 15, in materia di lavoro notturno, riprendono in larga misura il contenuto del decreto legislativo n. 532 del 1999 con il quale era stata data attuazione alla delega conferita al Governo dall'art. 17, comma 2 della legge n. 25 del 1999, nonché alla direttiva 93/104.
La normativa di cui ai citati articoli non si allontana, sostanzialmente, da quella del 1999, ma viene riordinata e razionalizzata.
 
Definizione di lavoro e di lavoratore notturno
Il lavoro notturno è quello prestato in un periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l'intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino.
Quindi il lavoro notturno è quello svolto tra le 24 e le 7, ovvero tra le 23 e le 6, ovvero tra le 22 e le 5, indipendentemente dalla eventuale maggiorazione retributiva prevista dalla contrattazione collettiva.
Il lavoratore notturno è il lavoratore che svolge, durante il periodo notturno, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale; è, inoltre, lavoratore notturno anche colui che svolge durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro. Qualora la disciplina collettiva nulla stabilisca sul punto è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga, durante il periodo notturno almeno una parte del suo tempo di lavoro giornaliero, per un minimo di 80 giorni lavorativi all'anno.
Quest'ultimo criterio di definizione del lavoratore notturno non va a sovrapporsi con il primo in quanto prende in considerazione lo svolgimento di una prestazione lavorativa in parte esercitata durante il periodo notturno, a prescindere che l'attività in oggetto rientri nell'orario normale di lavoro. Quindi, deve considerarsi lavoratore notturno anche colui che non sia impiegato in modo normale durante il periodo notturno ma che, nell'arco di un anno, svolga almeno 80 giorni di lavoro notturno. Ad esempio se al lavoratore è richiesto lo svolgimento, per esigenze contingenti, di prestazioni durante il periodo notturno, tale prestatore è considerato lavoratore notturno ai fini della disciplina in oggetto se detto periodo, anche frazionato, abbia durata di almeno 80 giorni lavorativi nell'arco temporale di un anno solare.
Ove il limite degli 80 giorni venga superato in ragione del sopravvenire di eventi eccezionali e straordinari (gravi incidenti agli impianti o nell'esercizio di particolari servizi, calamità naturali), non potrà configurarsi la fattispecie in esame.
Il suddetto limite minimo è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale.
Il lavoratore, per poter svolgere prestazioni di lavoro notturno, deve esserne ritenuto idoneo mediante accertamento ad opera delle strutture sanitarie pubbliche competenti o per il tramite del medico competente.
I lavoratori notturni, la cui idoneità sia già stata verificata ai sensi della legge previgente, non devono essere sottoposti ad un nuovo accertamento.
Oltre a questa iniziale valutazione che deve precedere l'esecuzione di prestazioni di lavoro notturno, lo stato di salute dei lavvoratori notturni deve essere periodicamente verificato. La periodicità di tali controlli è individuata dal legislatore in almeno due anni. I controlli potranno essere più frequenti sia nel caso in cui il medico competente abbia prescritto una periodicità inferiore sia nel caso in cui siano mutati i rischi relativi alle lavorazioni cui il lavoratore è addetto.
Tali controlli devono essere effettuati dalle competenti strutture sanitarie pubbliche, o dal medico competente di cui all'articolo 17 del decreto legislativo n. 626 del 1994. In ogni caso tali controlli devono avvenire a cura e spese del datore di lavoro.
 
Limitazioni al lavoro notturno
L'esecuzione di prestazioni di lavoro notturno è obbligatoria per i lavoratori idonei fatto salvi i casi di divieto o di esclusione dall'obbligo di eseguire la prestazione.
È vietato adibire al lavoro dalle 24 alle 6 le donne in gestazione dall'accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino o, comunque, dal momento in cui il datore di lavoro ha avuto conoscenza della fattispecie generatrice del divieto.
Alcuni lavoratori hanno facoltà di non prestare lavoro notturno dandone comunicazione, in forma scritta, al datore di lavoro entro 24 ore precedenti al previsto inizio della prestazione. Il datore ha facoltà di accettare la comunicazione del rifiuto avvenuta in un termine inferiore rispetto a quello previsto.
L'individuazione dei requisiti dei lavoratori che determinano l'insorgere della facoltà sono stabiliti dai contratti collettivi. Il decreto prevede, inoltre, che abbiano facoltà di rifiutarsi di prestare lavoro notturno:
la lavoratrice subordinata, madre di un figlio di età inferiore di tre anni o, qualora la stessa non abbia esercitato la facoltà di rifiutare l'esecuzione di prestazioni di lavoro notturno, il lavoratore padre convivente che sia anch'esso lavoratore subordinato; l'unico genitore affidatario e convivente di un minore di età inferiore a 12 anni; coloro che abbiano a loro carico un soggetto disabile ai sensi della legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate .
 
Obblighi di comunicazione
Il datore di lavoro ha l'obbligo di comunicare per iscritto, annualmente, l'esecuzione di lavoro notturno continuativo oppure compreso in turni periodici regolari.
La comunicazione deve essere effettuata ai servizi ispettivi della DPL competente e alle organizzazioni sindacali titolari del diritto ad essere consultate al fine dell'introduzione del lavoro notturno.
Se il contratto collettivo applicato in azienda disciplina in modo specifico l'esecuzione di lavoro notturno continuativo oppure compreso in turni periodici regolari, non sorge l'obbligo di comunicazione.
 
Durata della prestazione
Ai sensi dell'articolo 13 del D.Lgs. n. 66/2003, per tutti i lavoratori notturni, l'orario non può superare le 8 ore, in media, nell'arco di 24 ore calcolate dal momento di inizio dell'esecuzione della prestazione lavorativa.
Tale limite costituisce, data la sua formulazione, un media fra ore lavorate e non lavorate pari ad 1/3 (8/24) che, in mancanza di una esplicita previsione normativa, può essere applicato su di un periodo di riferimento pari alla settimana lavorativa – salva l'individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo più ampio sul quale calcolare detto limite – considerato che il Legislatore ha in più occasioni adoperato l'arco settimanale quale parametro per la quantificazione della durata della prestazione (vedi ad esempio gli articoli 3 e 4 del D.Lgs. n. 66/2003 in materia di orario normale di lavoro e orario medio).
Per il settore della panificazione industriale la media su cui calcolare il limite di durata della prestazione lavorativa è riferito, comunque, alla settimana lavorativa e, pertanto, la norma si configura quale limite alla contrattazione collettiva di estendere ulteriormente il periodo di riferimento sul quale calcolare l'orario di lavoro.
Inoltre, conformemente alla direttiva 93/104/CE, per alcune lavorazioni che comportano rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali, il limite orario è di otto ore nel corso di ogni periodo di 24 ore. In questo caso il limite è fisso e non va considerato come media.
L'individuazione di tali lavorazioni è rimessa ad un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali – di concerto col Ministro per la funzione pubblica per quanto riguarda, in modo non esclusivo, i pubblici dipendenti – previa consultazione delle organizzazioni sindacali nazionali dei lavoratori e dei datori di lavoro.
Per le materie di esclusivo interesse dei pubblici dipendenti il decreto è adottato dal ministro della funzione pubblica di concerto col Ministro del lavoro e delle politiche sociali.
La durata massima della settimana lavorativa non potrà, quindi, superare le 48 ore comprensive delle ore di straordinario, tenendo presente che queste ultime non potranno essere superiori, in assenza di determinazioni collettive, di 250 ore annue.
Nel computo della media su cui calcolare il limite delle 8 ore non si deve tener conto del periodo di riposo minimo  settimanale quando questo ricade nel periodo di riferimento stabilito dai contratti collettivi.
 
Trasferimento al lavoro diurno
Qualora sopraggiungano condizioni di salute che comportino l'inidoneità alla prestazione di lavoro notturno il lavoratore può essere trasferito al lavoro diurno.
La sopraggiunta inidoneità deve essere accertata dalle competenti strutture sanitarie pubbliche o dal medico competente.
Il decreto dispone che il trasferimento al lavoro notturno è subordinato alla esistenza e alla disponibilità di un posto di lavoro la cui esecuzione sia relativa a mansioni equivalenti a quelle svolte. In mancanza di tali condizioni il datore di lavoro ha facoltà di risolvere il rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.
Alla contrattazione collettiva è attribuita la facoltà di definire le modalità di applicazione delle disposizioni illustrate in materia di trasferimento al lavoro diurno e di individuare le soluzioni per le ipotesi in cui manchino le condizioni per l'assegnazione al lavoro diurno del prestatore di lavoro notturno.
Quindi, mentre il decreto legislativo n. 532 del 1999 stabiliva che il trasferimento al lavoro diurno o ad altra mansione era automatico, con la nuova disciplina tale trasferimento è vincolato alla disponibilità in azienda, secondo le modalità stabilite dalla contrattazione collettiva che potrà ricercare anche soluzioni alternative in caso di inesistenza di altro posto di lavoro disponibile.
 
19. Violazioni in materia di lavoro notturno
 
Divieto di lavoro notturno per lavoratrici madri
L'art. 11, comma 2, del decreto legislativo n. 66 dle 2003 fa espresso divieto di adibire le donne al lavoro notturno, dalle 24 alle 6, dall'accertamento dello stato di gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino. La violazione di tale disposizione è punita con l'arresto da due a quattro mesi o con l'ammenda da € 516,00 a € 2582,00.
Al riguardo è possibile evidenziare che per la violazione della previsione normativa è necessaria la piena consapevolezza, da parte del datore di lavoro, dello status della lavoratrice che presuppone una comunicazione in tale senso da parte della stessa ovvero la conoscenza aliunde da parte del datore di lavoro della condizione soggettiva che fa scattare il divieto.
Quanto al procedimento di estinzione della violazione, è applicabile il procedimento prescrittivo di cui al D.Lgs. n. 758/1994, come modificato dall'art. 15 del decreto legislativo n. 124 del 2004 in quanto in riferimento alla condotta, sebbene ormai esaurita, può essere impartita la c.d. prescrizione ora per allora che consente l'estensione del beneficio anche nelle ipotesi di reintegrazione fittizia dell'ordine giuridico violato.


 

 
L'esenzione dal lavoro notturno per altre categorie di lavoratori
Lo stesso art. 11, comma 2, stabilisce che non sono obbligati a prestare lavoro notturno:
-      la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o, in alternativa, il lavoratore padre convivente con la stessa;
-         la lavoratrice o il lavoratore che sia l'unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni;
-         la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della legge n. 104 del 1992 e successive modificazioni.
In riferimento a tali categorie di lavoratori è applicata la medesima sanzione dell'arresto da due a quattro mesi o dell'ammenda da € 516,00 a € 2582,00, qualora siano "adibite al lavoro notturno nonostante il loro dissenso espresso in forma scritta e comunicato al datore di lavoro entro 24 ore anteriori al previsto inizio della prestazione".
Tale formulazione prevede un vero e proprio diritto potestativo in capo al lavoratore, il quale è titolare di un diritto di resistenza all'impiego durante la fascia di orario notturna.
Anche in tale ipotesi l'estinzione della violazione può avvenire attraverso l'emanazione di una prescrizione ora per allora ai sensi dell'art. 15 del decreto legislativo n. 124 del 2004.
 
Controlli preventivi e periodici sui lavoratori notturni
L'art. 14, comma 1, del decreto legislativo n. 66 del 2003, come modificato dall'art. 1, comma 1 lett. e), del decreto legislativo n. 213 del 2004, stabilisce che "la valutazione dello stato di salute dei lavoratori notturni deve avvenire a cura e a spese del datore di lavoro, o per il tramite delle competenti strutture sanitarie pubbliche di cui all'articolo 11 o per il tramite del medico competente di cui all'articolo 17 del decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive modificazioni, attraverso controlli preventivi e periodici, almeno ogni due anni, volti a verificare l'assenza di controindicazioni al lavoro notturno a cui sono adibiti i lavoratori stessi".
La violazione di tale obbligo è punita con la sanzione dell'arresto da tre a sei mesi o con l'ammenda da € 1.549,00 a € 4.131,00.
Tale previsione, sebbene punisca l'omesso controllo medico biennale, non pregiudica comunque la possibilità di assicurare una migliore sorveglianza sanitaria per i lavoratori notturni, rendendo comunque possibile da parte della contrattazione collettiva l'introduzione di disposizioni di miglior favore volte a ridurre l'intervallo temporale fra le visite periodiche ferma restando, chiaramente, la sanzionabilità del superamento del solo limite biennale posto dalla norma.
Per quanto attiene la struttura dell'illecito, la fattispecie presuppone una condotta omissiva di carattere permanente che perdura fino a quando il datore di lavoro non sottoponga i lavoratori agli accertamenti obbligatori, nonostante che il fatto costituente reato si sia perfezionato in tutti i suoi elementi alla scadenza del biennio. In tal caso trova piena applicazione la procedura estintiva del reato mediante prescrizione obbligatoria, volta evidentemente ad impartire un termine ragionevole entro il quale il datore di lavoro sia tenuto ad effettuare la sorveglianza sanitaria omessa.
Si segnala infine che le violazioni di natura penale relative al lavoro notturno delle lavoratrici madri e delle altre categorie di lavoratori di cui all'art. 11, nonché alla preventiva e periodica sorveglianza sanitaria, trovano applicazione anche nei confronti del personale individuato nell'art. 17, comma 5, del decreto legislativo n. 66 del 2003.
 
Superamento orario di lavoro notturno
L'art. 13 del decreto legislativo n. 66 del 2003 stabilisce che "l'orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le otto ore in media nelle ventiquattro ore, salva l'individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto limite".
La violazione di tale previsione comporta l'applicazione della sanzione amministrativa da € 51,00 a € 154,00, per ogni giorno e per ogni lavoratore adibito al lavoro notturno oltre i limiti previsti.
L'illecito amministrativo si realizza quando il lavoratore abbia lavorato per più di 8 ore in media nelle 24. In altre parole il lavoratore non può superare il rapporto medio di 1/3 fra le ore lavorate e le ore non lavorate nell'ambito di un arco temporale che, sebbene la norma non lo preveda espressamente, può essere individuato nella settimana lavorativa, ovvero in un più ampio periodo di riferimento stabilito dalla contrattazione collettiva.
Sotto il profilo della quantificazione della sanzione, applicata con riferimento ad "ogni giorno e per ogni lavoratore adibito al lavoro notturno oltre i limiti previsti", non sembra possibile, anche sulla base dell'orientamento giurisprudenziale prevalente, applicare in tali ipotesi l'articolo 8, comma 1, della legge n. 689 del 1981 che prevede l'istituto del concorso formale. In tal caso, infatti, si è in presenza di un c.d. precetto a struttura pluralistica per il quale il legislatore ha ritenuto opportuno  commisurare la sanzione al numero dei lavoratori ed alle giornate lavorative e l'eventuale applicazione della l'istituto del concorso formale vanificherebbe in sostanza la volontà del legislatore stesso.
Per tale violazione trova applicazione l'istituto della diffida di cui all'art. 13 del decreto legislativo n. 124 del 2004.
 
20. Deroghe alla disciplina in materia di riposo giornaliero, pause, lavoro notturno, durata massima settimanale.
 
La norma recepisce una serie di disposizioni contenute nella direttiva 93/104/CE come modificata dalla direttiva 2000/34/CE.
Si tratta di una serie di deroghe alle norme contenute nello stesso decreto legislativo in materia di riposo giornaliero (art. 7), pause (art. 8), modalità di organizzazione del lavoro notturno (art. 12), durata del lavoro notturno (art. 13).
La derogabilità è affidata alla previsione dei contratti collettivi nazionali (comma 1) ovvero, ove abilitata da questi ultimi, anche alla contrattazione collettiva di secondo livello.
In mancanza di contrattazione, ovvero qualora non risultasse possibile definire alcun accordo, è previsto che le deroghe possano essere adottate con decreto del Ministero del lavoro, su richiesta delle OO.SS. nazionali di categoria comparativamente più rappresentative, ivi compresa la eventuale previsione di un periodo di riferimento più ampio di un quadrimestre, ma contenuto nel periodo di sei mesi, ai fini del calcolo della media della durata massima dell'orario settimanale.
Sempre mediante decreto del Ministero del lavoro e alle condizioni di cui al comma 2 dell'articolo in esame, si può derogare alla disciplina del riposo giornaliero nelle ipotesi di cui alle lettere a) e b) del comma 3.
Infine, sempre nel rispetto dei principi generali di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, viene previsto (comma 5) che gli artt. 3 (orario normale di lavoro), 4 (durata massima dell'orario di lavoro), 5 (lavoro straordinario), 7 (riposo giornaliero), 8 (pause), 12 (modalità di organizzazione del lavoro notturno) e 13 (durata del lavoro notturno) non trovano applicazione nei confronti dei lavoratori  e delle prestazioni di cui alle lettere a), b), c) e d) del richiamato comma 5 che, essendo delle esemplificazioni, come lascia intendere l'espressione "in particolare", non sono ipotesi tassative.
Relativamente alla categoria di lavoratori di cui alla lettera a) del citato comma 5 (dirigente, personale direttivo aziendale o di altre persone aventi potere di decisione autonomo) non può sottacersi – come del resto già fatto presente con circolare n. 10 del 15/2/2000 – che nell'ampia formulazione della norma trovano ingresso nuove figure professionali che, sebbene prive di potere gerarchico, conservano, nel disimpegno delle loro attribuzioni, ampia possibilità di iniziativa, di discrezionalità e di determinazione autonoma sul proprio tempo di lavoro.
Più in generale, si ritiene, poi, che la deroga al limite delle 48 ore settimanali riguardi anche quelle attività le cui peculiarità non consentono di predeterminarne la durata.
Si tratta di attività nelle quali la professionalità dei lavoratori, dotati di competenze specialistiche, è condizione essenziale per il funzionamento del servizio, di modo che l'attività del personale impegnato, talora anche a ragione della continuità del servizio offerto, reso in alcuni casi anche all'esterno dell'azienda, si concreta in una serie di interventi che non consentono la pianificabilità, in termini di tempo, del lavoro necessario al funzionamento del servizio.
 
 
21. I lavoratori a bordo di navi da pesca marittima
La disciplina dell'orario di lavoro dei lavoratori imbarcati su navi da pesca marittima è contenuta nell'articolo 18 del decreto e differisce da quella dei lavoratori imbarcati su navi da trasporto.
La durata dell'orario di lavoro è di 48 ore settimanali medie calcolate su un periodo di riferimento di un anno. I contratti collettivi possono stabilire una durata diversa nei limiti stabiliti dal decreto. In particolare, la prestazione lavorativa non può essere eseguita per un periodo superiore a 14 ore nell'arco di 24 ore.
Il periodo di riposo non potrà essere inferiore a 10 ore nell'arco di 24 ore. Quindi, il lavoratore che inizia a lavorare alle 08.00 dovrà cessare la sua attività entro le 22.00 del giorno stesso e non potrà riprendere a lavorare prima delle 08.00 del giorno successivo.
A questi limiti si sommano quelli settimanali, in forza dei quali non possono essere superate 72 ore settimanali di lavoro e devono essere godute almeno 77 ore di riposo.
Le ore di riposo possono essere godute in modo anche non continuativo ma suddivise in due periodi, in questo caso uno dei due periodi di riposo non deve essere inferiore a sei ore e tra un periodo di riposo e l'altro non devono trascorrere più di 14 ore. Quindi, ad esempio, un lavoratore che inizia a svolgere la sua prestazione alle 08.00 potrebbe cominciare a fruire di un periodo di riposo alle 21.00 per 6 ore. Quindi riprendere a svolgere la restante ora di prestazione dalle 03.00 alle 4.00 e fruire del rimanente periodo di riposo di 4 ore fin alle 08.00.
A questi lavoratori non si applicano le disposizioni contenute nel decreto per la generalità dei lavoratori in materia di durata massima dell'orario di lavoro, di riposo giornaliero, di pause, di riposi settimanali e di lavoro notturno. La disciplina di questi aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro trova la propria fonte nell'autonomia privata.
 
22. L'orario di lavoro nella P.A.
Il decreto legislativo n. 66/2003 si applica a tutti i settori di attività, pubblici e privati salve le eccezioni espressamente previste.
Nello specifico alla disciplina della durata dell'orario normale di lavoro il decreto legislativo in questione non cambia nulla rispetto alla legislazione e alla prassi contrattuale vigente. L'art. 3, che disciplina la materia della durata normale dell'orario di lavoro, riprende infatti testualmente l'art. 13 della legge n. 196 del 1997, il quale, a sua volta, dava attuazione alla intesa del 1997 tra Confindustria e CGIL, CISL, UIL, in materia di orario di lavoro.
Stante il processo di privatizzazione del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni Pubbliche, nessun dubbio sussisteva in merito alla applicabilità dell'art. 13 della legge n. 196 del 1997 anche ai lavoratori del settore pubblico. Già oggi vige dunque nel settore pubblico il principio delle 40 ore settimanali come orario normale di lavoro, fermo restando che – secondo quanto previsto sia nella legge n. 196 del 1997 sia nel decreto legislativo n. 66 del 2003 –  "i contratti collettivi di lavoro possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore …". Questo è quanto avviene già oggi nel settore pubblico.
Inoltre, l'articolo 3, nella parte relativa alla disciplina dell'orario plurisettimanale, consente alla contrattazione collettiva di riferire l'orario normale di lavoro alla durata media delle prestazioni lavorative in riferimento plurisettimanale. Questa disciplina è già presente nella contrattazione collettiva del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione.
Quindi il decreto legislativo n. 66 del 2003 è destinato a non modificare in modo importante la disciplina in materia nella P.A. sul presupposto che non sono messe in discussione le clausole dei contratti collettivi compatibili con la disciplina comunitaria, quali sono appunto le clausole sulla durata della prestazione e sulla organizzazione dell'orario di lavoro in generale.
Merita peraltro puntualizzare che in materia di deroghe agli articoli 3, 4, 5, 7, 8, 12 e 13, di cui all'articolo 17, comma 5, tra i lavoratori cui si applicano le stesse rientrano, a titolo esemplificativo, gli uffici di diretta collaborazione dei Ministri e quelli di supporto agli organi di direzione politica degli enti locali, in considerazione della durata non predeterminata o predeterminabile della prestazione lavorativa di tale personale.
L'indicazione delle figure necessarie allo svolgimento di particolari compiti e delle esigenze di servizio per i quali sia necessario ricorrere alla deroga di cui sopra spetta all'amministrazione di competenza.
La deroga, comunque, è prevista al fine di consentire una organizzazione dell'orario di lavoro compatibile con le primarie esigenze di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Pertanto la facoltà di deroga potrà essere esercitata solo qualora non vi sia altro modo, quindi altra modalità organizzativa dell'orario di lavoro, per sopperire alle esigenze indicate. Anche qualora sia esercitata la facoltà di deroga, questa non potrà costituire un facile espediente per non modificare l'organizzazione degli orari ma un completamento di essa.
 
23. Sanzioni
In base al principio di irretroattività delle leggi che prevedono sanzioni amministrative di cui all'art. 1 della legge n. 689 del 1981, alle violazioni riferite al periodo antecedente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 213 del 2004, sarà applicata la sanzione prevista dalla precedente disciplina, anche se l'accertamento avvenga in data successiva e anche nel caso di emissione di ordinanza ingiunzione
A tal riguardo è peraltro possibile citare quanto dettato dalla sentenza della Suprema Corte n. 16699 del 26 novembre 2002, la quale stabilisce che "in materia di illeciti amministrativi, l'adozione del principio di legalità, di irretroattività e di divieto di applicazione dell'analogia, risultante dall'art. 1 della L. n. 689/1981, comporta l'assoggettamento della condotta considerata alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole"; inoltre la medesima pronuncia chiarisce che la nuova disciplina non opera "limitatamente ai rapporti non esauriti, per essere ancora in corso i relativi procedimenti, né in relazione alle violazioni commesse precedentemente, ma per le quali l'ordinanza ingiunzione è stata emessa dopo l'entrata in vigore della legge, atteso che l'ordinanza ingiunzione non è esercizio di un potere e provvedimento amministrativo costitutivo, ma atto puramente esecutivo, preordinato soltanto alla riscossione di un credito già sorto per effetto della violazione commessa".
Per quanto riguarda le sanzioni di carattere penale si applicano i principi in materia.
Il decreto legislativo n. 213 del 2004 ha confermato la natura amministrativa o penale che già apparteneva alle sanzioni precedentemente in vigore, tenendo conto del principio contenuto nell'ultimo periodo dell'articolo 2, comma 1 lett. c), della legge delega n. 39 del 1° marzo 2002, n. 39, il quale afferma che "in ogni caso saranno previste sanzioni identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi".
 
24. Abrogazioni
Le disposizioni di legge e di regolamento in materia di orario di lavoro sono abrogate salve quelle espressamente richiamate dal decreto legislativo n. 66 del 2003. In particolare è da ritenersi abrogato  l'art. 12 del Rd 10 settembre 1923, n. 1955, relativo all'obbligo di esporre in luogo accessibile a tutti i lavoratori, l'orario di lavoro, e l Decreto ministeriale 3 agosto 1999, pubblicato sulla G.U. del 10 agosto 1999, n. 186, perché emanato in attuazione dell'art. 1, comma 2 bis, della legge n. 409 del 1998, oramai abrogata.
 
 
 
 
Roberto MARONI
 


 

 

 


 

Salubrità e sicurezza nella pubblica amministrazione tra salute e benessere organizzativo

 

INDICE

Il D.lgs. 19 - settembre - 1994, n. 626 s.m.: quale bene giuridico tutela?
La circolare 7 - agosto - 1995, n. 102 e le prime applicazioni.
La sicurezza e la pubblica amministrazione.
Gli obblighi generali e i soggetti della sicurezza nella pubblica amministrazione.
I lavoratori e i loro obblighi.
Norme particolari.

 

 

 

 

 

Il D.lgs. 19 - settembre - 1994, n. 626 s.m.: quale bene giuridico tutela?

Prima di iniziare ad analizzare la normativa della sicurezza sui luoghi di lavoro in riferimento alla pubblica amministrazione è necessario affrontare il problema di quale bene giuridico essa tuteli. La normativa ha subito una lunga evoluzione, estendendo la propria sfera di tutela dalla sicurezza sui luoghi di lavoro all'igiene e al benessere psico-fisico del lavoratore. Né si può concludere che sicurezza, igiene o benessere del lavoratore siano beni distinti nell'ambito della normativa, oggetto del presente saggio, nemmeno alla luce di quella parte della giurisprudenza penale, che ha separato sicurezza e igiene in materia di attrezzature di lavoro. Infatti questa conclusione dei giudici è derivata da una lettura stretta dell'art. 6 comma 2 d.lgs. 626\94, in ossequio all'art. 1 del codice penale e al principio della tipicità della condotta penale. L'articolo in questione, infatti, regola condotte penali legate strettamente alla sicurezza (fabbricazione, vendita, noleggio e concessione in uso di macchine e attrezzature di lavoro), ma è sufficiente leggere il comma successivo, introduttivo di altre condotte, per convincersi che la tutela della normativa abbia l'estensione semantica enunciata precedentemente. Sulla scorta di tali considerazioni appaiono solo parzialmente condivisibili le affermazioni della seguente sentenza. "La contravvenzione di cui all'art. 6 comma 2 d.lg. 19 settembre 1994 n. 626, come modificato dall'art. 4 comma 2 del d.lg. n. 242 del 1996, vieta la concessione in uso di macchine, attrezzature di lavoro ed impianti solo se non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di sicurezza, e non anche in materia di igiene del lavoro; cio' in quanto la normativa in materia di sicurezza non comprende, quale "genus", sia la "species" delle norme antinfortunistiche sia quella delle norme in materia di igiene del lavoro; infatti, le categorie della sicurezza e dell'igiene del lavoro sono ontologicamente distinte e separate; peraltro, l'espressione "legislazione vigente" contenuta nell'art. 6 d.lgs. n. 626 cit., ha lasciato il posto ad una diversa e specifica formulazione con l'art. 4 d.lgs. n. 242 del 1996, ovvero "disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di sicurezza". (Cassazione penale sez. III, 14 giugno 1999, n. 10551).

Sicurezza e igiene sono ontologicamente separate solo limitatamente ai reati introdotti dal comma 2 e 3, solo perché i soggetti attivi delle condotte penalmente rilevanti sono di necessità differenti (ben diversa è l'attività di un fabbricante da quella di un montatore di macchinari lavorativi). In riferimento alla teoria del bene giuridico, invece, sicurezza o igiene o benessere psico-fisico sono tutti a tutela del medesimo valore.
 

Si può, allora, essere tentati di concludere che tale legge trovi la propria più intima ratio solo nella tutela della salute del lavoratore. Garantire un completo piano di sicurezza in caso di incidente, predisporre una periodica sorveglianza medica o pause di lavoro possono in effetti richiamare immediatamente il concetto di salute. E' chiaro che la normativa in materia di sicurezza ha come obiettivo principale garantire la salute psico-fisica del lavoratore sul luogo di lavoro, ma se si guarda complessivamente la normativa in questione si può concludere che oggetto della sicurezza sia in realtà il benessere organizzativo, concetto che comprende sì la salute, ma anche un livello organizzativo tale da rendere l'insieme dei mezzi e dei locali di lavoro adatti ai bisogni del lavoratore. Le prescrizioni tese a ridurre per quanto possibile i lavori ripetitivi, l'aerazione e la temperatura dei locali, la lotta al mobbing devono essere lette esattamente come norme che tutelano, oltre alla salute, il benessere dell'organizzazione, intesa come l'insieme delle relazioni in seno al luogo di lavoro.

Non si tratta di una differenza accademica, in quanto salute e benessere organizzativa, pur essendo concetti complementari, comprendono valori differenti. La salute attiene all'individuo; il benessere organizzativo alla comunità organizzativa nel suo complesso. Garantire la salute significa impedire che il singolo lavoratore possa contrarre malattie di natura psichica o fisica a causa del lavoro; offrire un alto grado di benessere sul luogo professionale implica rendere la vita in seno alla comunità lavorativa il più confortevole possibile.
 

Sulla scorta di queste premesse è chiaro che la responsabilità dei soggetti della sicurezza non comprende solo una costante vigilanza sullo stato di salute del lavoratore, ma impone anche che vengano predisposte misure tali da evitare ogni forma di malessere legato a disfunzioni organizzative evitabili attraverso una diligente opera direzionale. L'affaticamento è un chiaro esempio di malessere, che, pur non rientrando, se rimane circoscritto sul piano temporale, nel concetto di malattia, incide talvolta in modo grave sul livello di sicurezza di un ufficio o di un reparto. Maggiore, infatti, è il livello d'affaticamento, maggiore sarà la probabilità che si verifichino errori nei processi di lavoro, con la conseguenza di abbassare il livello di sicurezza della comunità di lavoro. Analoghe considerazioni potrebbero essere svolte intorno allo stress che può inevitabilmente provocare la disorganizzazione. Tutto ciò, come si vedrà, è già ampiamente previsto nell'ambito privato dall'art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di "adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore". Il datore di lavoro è, quindi, chiamato, in primis, ad adottare non solo le misure di sicurezza previste dalla legislazione vigente in materia, ma anche quelle comunque ritenute necessarie alla luce delle cognizioni della "migliore tecnologia" e del patrimonio di esperienza tipici di un determinato momento storico. La norma avrebbe potuto essere utilizzata in tutte le sue potenzialità semantiche, se fosse stata applicata dagli organi di controllo (ispettorati del lavoro etc.) in termini di prevenzione dei fattori di rischio. In questo modo, attraverso una periodica attività ispettiva si sarebbe potuto imporre alle imprese un adattamento al livello tecnologico, evitando in tal modo l'obsolescenza delle misure di sicurezza. Al contrario si è applicata la norma solo in termini sanzionatori per il riconoscimento del risarcimento del danno, quando l'infortunio si era già verificato. Sotto quest'ultimo aspetto la giurisprudenza ha valorizzato al massimo le potenzialità operative della norma. Si è rilevato che la previsione dell'art. 2087 c.c. comporta che al lavoratore sia sufficiente provare il danno ed il nesso causale, spettando alla controparte la dimostrazione di avere fatto tutto il possibile per evitare lo stesso. Peraltro, il datore di lavoro è tenuto ad un'attività di controllo e di vigilanza costante volta ad impedire comportamenti del lavoratore tali da rendere inutili od insufficienti le cautele tecniche apprestate e deve adottare, se necessario, sanzioni di carattere disciplinare anche di carattere espulsivo, come il licenziamento. (a titolo d'esempio cassazione civile, 5 - marzo - 2002, n. 3162; 28 - luglio - 2000, n. 9981; 18 - febbraio - 2000, n. 1886; 7 - agosto - 1998, n. 7792; Tribunale Forlì 15 - marzo - 2001) Anche in questo caso, tuttavia, si può desumere che bene giuridico tutelato è il benessere organizzativo.

Del resto quest'impostazione teorica ha il vantaggio di comprendere nell'ambito della sicurezza le politiche di prevenzione di tutti i rischi o le situazioni organizzative che possono compromettere la salute psico-fisica del lavoratore, in quanto tale opera preventiva coincide con un alto grado organizzativo nel lavoro.

C'è, tuttavia, un'altra conseguenza di grande portata teorica. Se, infatti, sicurezza significa benessere organizzativo, allora concetti quali efficienza o efficacia si trasformano in valori non tanto a servizio dell'attività organizzativa, ma dell'organizzazione stessa e del suo ordinato e ragionevole sviluppo. In altre parole attraverso la d.l.gs. 626\94 s.m. diventa più chiaro il significato giuridico di efficienza ed efficacia che devono essere sacrificati nel caso un eccessiva enfatizzazione di tale principio risulti dannoso alla salute dei lavoratori. Tutto ciò è in perfetta armonia con il citato principio giurisprudenziale che concepisce la salute bene supremo della persona tale da prevalere su ogni altro interesse pubblico o privato. Alla luce di queste considerazioni vanno lette le norme tese a ridurre il lavoro ripetitivo o le regole destinate a ridurre al minimo i rischi della persona.

D'altra parte anche la management science (la scienza che studia l'organizzazione e la gestione organizzativa) ha ormai concluso che il fattore umano è preponderante sull'attività dell'organizzazione. Secondo alcuni autori ogni organizzazione efficiente si caratterizza per tre fattori: l'hardware, inteso come l'insieme dei mezzi di produzione; il software, complesso delle procedure decisionali, e l'humanware, vale a dire la totalità delle risorse umane. (cfr. POGGIALI I. (a cura di), cinque domande ad Alberto Galgano, in Bollettino AIB, vol. 32, n. 1, marzo 1992, pp. 24 ss.) L'humanware è considerato un elemento strategico aziendale e più genericamente organizzativo, di fondamentale importanza. Ciò è la base teorica prima che giuridica, della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Altro principio fondante la sicurezza è la conseguenza di tutti quei principi che oggi devono regolare l'attività amministrativa. È in conseguenza di queste considerazioni che bisogna leggere la nomina del responsabile per la sicurezza o del preposto e gli obblighi di informazione, istruzione, formazione. E' importante chiarire tutto ciò, perché concetti che da sempre hanno connotato la produzione - l'efficienza non è altro che la misura del livello di produzione di una certa impresa - diventano, nell'intento della legge sulla sicurezza, misure dell'adattabilità organizzativa ai processi psico-fisici dell'organismo umano. Tale conclusione è confermata anche dalla giurisprudenza che ha riconosciuto la prevalenza della sicurezza e igiene sul luogo di lavoro persino sul rapporto gerarchico, anche se la responsabilità generale, specie negli enti locali, emerge solo in presenza di un effettivo potere di spesa. Infatti "In forza dell'art. 2, comma 1, lett. b), d.lg. 19 settembre 1994 n. 626, nelle p.a. di cui all'art. 1, comma 2, d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, il datore di lavoro ai fini prevenzionali si caratterizza, rispetto a quello che opera nel settore privato, non per la titolarità di poteri decisionali e di spesa, quanto piuttosto per i concreti poteri di gestione in ordine all'attività e all'ufficio centrale o periferico cui e' preposto, il quale si aggiunge il requisito della qualifica dirigenziale ovvero dello svolgimento di mansioni direttive funzionalmente equivalenti; e non ha, per quanto attiene all'adempimento degli obblighi di sicurezza e di salute nei luoghi di lavoro, vincoli di subordinazione gerarchica e funzionale, ne' deve sottostare alle decisioni dei soggetti preposti agli organi di governo e di vertice degli enti pubblici (titolari di funzioni di definizione dell'indirizzo politico - programmatico e di legale rappresentanza), pur restando fermo il potere di controllo sul suo operato da parte degli organi di vertice di ciascuna amministrazione, che discende più in generale dal rapporto di servizio che li lega all'ente." (Cassazione penale sez. III, 29 maggio 2000, n. 6176) e per ciò che concerne il potere di spesa "Pur avendo il d.lg. 19 settembre 1994 n. 626 così modificato dal d.lg. 19 marzo 1996 n. 242 individuato negli enti pubblici come datore di lavoro ai fini della sicurezza il dirigente o il funzionario, anche senza qualifica dirigenziale, aventi poteri di gestione, negli enti locali tuttavia non vi può essere esonero di responsabilità degli organi di indirizzo politico (sindaco e assessori preposti al ramo) qualora il dirigente dotato di poteri gestionali sia tuttavia privo di effettivi poteri di spesa. L'assessore competente pertanto, in assenza di un'espressa delega attributiva di poteri di spesa al dirigente di un centro di formazione professionale, risponderà di tutte le carenze prevenzionali di natura strutturale riscontrate nei locali del predetto centro. A lui pertanto sono scrivibili solo le contravvenzioni riguardanti l'inadeguato ricambio d'aria, l'insufficiente illuminazione e la sussistenza di pericoli di caduta di carichi sospesi. (Cassazione penale sez. III, 2 giugno 2000) Queste sentenze sono la logica conseguenza del diritto costituzionale, a cui è agganciata la normativa sulla sicurezza, vale a dire il diritto alla salute. (Corte Costituzionale 20 - dicembre - 1996, n. 399). Sul piano costituzionale, perciò, la sicurezza implica da un lato il riconoscimento della tutela della salute come diritto fondamentale dell'individuo e interesse della collettività (art. 32 cost.); dall'altro l'imposizione di un limite all'esercizio dell'iniziativa economica privata e pubblica (art. 42 cost.) Se, dunque, la sicurezza trova la propria fonte nella costituzione è evidente che questo valore non può essere subordinato a nessun altro valore per quanto meritevole di tutela giuridica.



La circolare 7 - agosto - 1995, n. 102 e le prime applicazioni

Il decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 ha recepito otto direttive del Consiglio delle Comunità europee che disciplinano la sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro. Con questo decreto l'Italia adegua il livello della tutela del lavoratore agli standard europei.

Il Ministero del lavoro, con circolare 7 agosto 1995, n. 102, ha fornito le "prime direttive" per l'applicazione del decreto. Di seguito analizzeremo brevemente alcuni aspetti della circolare appena citata, anche perché essa ha rappresentato per lungo tempo l'unica linea guida per l'applicazione della legge.

L'art. 1 del decreto legislativo n. 626/1994 comprende nel campo di applicazione "tutti i settori di attività privati e pubblici" a prescindere dal numero di persone occupate presso il datore di lavoro. Peraltro, le disposizioni del decreto medesimo prevedono la semplificazione di alcuni adempimenti per le aziende che occupano un numero di dipendenti inferiore a quello di volta in volta stabilito. Al riguardo si rileva, in primo luogo, che quando il decreto legislativo fa riferimento al numero dei "lavoratori" e, secondo l'interpretazione che pare preferibile, anche quando fa riferimento agli "addetti" (cfr. l'allegato I al D.Lgs. al fine dell'individuazione dei datori di lavoro che hanno facoltà di svolgere direttamente i compiti del servizio di prevenzione e protezione), devono essere considerati non solo i "lavoratori subordinati" ma anche quelli ad essi "equiparati" ai sensi della lettera a) dell'art. 2.

Il decreto legislativo 626\94 si applica ai "lavoratori" intendendosi per tali non solo i "lavoratori subordinati", ma chiunque "presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro con rapporto di lavoro subordinato anche speciale", compresi gli apprendisti etc. Ai lavoratori subordinati sono espressamente equiparati i soci lavoratori di cooperative e società di fatto che prestino la loro attività per conto delle società stesse e altre particolari figure (lettera a) dell'art. 2).

Sono anche equiparati ai lavoratori subordinati - ma non vengono computati nel numero di lavoratori occupati ai fini della sussistenza degli obblighi di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994 - gli allievi degli istituti di istruzione ed universitari ed i partecipanti ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, macchine, apparecchi ed attrezzature di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici.
 

Il decreto non si applica:

- ai lavoratori a domicilio (art. 1, terzo comma, in combinato disposto con l'art. 1 della legge n. 877 del 18 dicembre 1973) se non dove sia diversamente ed espressamente disposto (ad es., dagli art. 21, ultimo comma, e 22, primo comma, che impongono l'obbligo di fornire anche ai lavoratori a domicilio un'adeguata informazione e formazione sui rischi generici e specifici e sulle misure di protezione);

- ai lavoratori con rapporto contrattuale privato di portierato, ma sono compresi nella legge sulla sicurezza i portieri dipendenti da imprese ed enti pubblici, se non è diversamente ed espressamente disposto;

- ai lavoratori addetti a servizi domestici e familiari secondo l'interpretazione preferibile: infatti tali lavoratori sono esclusi dalla nozione di lavoratore subordinato dettata dall'art. 2, primo comma, lett. a), ai fini dell'applicazione del decreto legislativo;

- ai lavoratori autonomi se non dove ciò è espressamente previsto come ad esempio l'art. 7, sul "contratto d'opera".

Al riguardo si deve rilevare che il Ministero del lavoro ha ritenuto che non siano equiparati ai lavoratori subordinati i collaboratori familiari all'impresa familiare di cui all'art. 230 bis cod. civ.

Lo stesso Ministero ha inoltre precisato che:

- devono considerarsi esclusi in via interpretativa, facendo ricorso ai principali orientamenti della giurisprudenza in materia di dimensione delle imprese, i lavoratori in prova, i sostituti dei lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto e i volontari, come definiti dalla legge 11 agosto 1991, n. 266. Una tale interpretazione appare comunque molto singolare, in quanto non si ravvedono le ragioni dell'esclusione. Tutti questi lavoratori partecipano in pieno all'attività dell'impresa e della pubblica amministrazione e pertanto dovrebbero ricevere una tutela pari a quella ricevuta dagli altri lavoratori. La salute e il benessere organizzativo vanno tutelati fin dall'inizio senza eccezioni, trattandosi, specie la salute, di diritti fondamentali. Certamente le dimensioni ridotte di un'impresa possono non richiedere tutte le garanzie previste dalla normativa, non perché queste ne sono esonerate, ma piuttosto in quanto esse con misure minime possono garantire comunque un alto livello di sicurezza per i lavoratori. Del resto, poiché la tutela alla salute è un diritto soggettivo, si ritiene che soltanto un'espressa previsione di legge possa limitarne la portata.

- i lavoratori a tempo parziale sono computati in misura corrispondente al numero di ore previste;

- i dipendenti assunti a termine (stagionali) vanno computati solo qualora il loro inserimento sia indispensabile per la realizzazione del ciclo produttivo e, con particolare riferimento alle aziende agricole, gli stagionali vanno computati solo se inclusi nell'organigramma dell'azienda (o dell'unità produttiva) necessario ad assicurarne la normale attività per l'intera annata agraria o, quantomeno, per un rilevante periodo di essa. Sempre con riferimento alle aziende agricole, fa eccezione a detto principio il caso previsto dall'art. 10 del decreto in esame, per la cui applicazione si stabilisce espressamente il computo dei dipendenti va effettuato con riferimento ai soli addetti assunti a tempo indeterminato;

- devono considerarsi computabili i dipendenti con rapporto di lavoro subordinato anche speciale, i soci lavoratori di cooperative di società anche di fatto, gli utenti dei servizi di orientamento o di formazione universitaria o scolastica avviati presso datori di lavoro per agevolare o perfezionare le loro scelte professionali;

- il D.Lgs. non si applica ai soci di società che non prestano attività lavorativa nella stessa.

Le disposizioni di cui ai titoli I, IX e X del decreto legislativo n. 626 del 1994 trovano applicazione a tutte le lavorazioni e/o le situazioni di rischio anche se diverse da quelle specificamente previste dai titoli da II a VIII del decreto legislativo medesimo.

 

La sicurezza e la pubblica amministrazione.

Non vi è dubbio che il d.lgs. si applichi anche alla pubblica amministrazione. Infatti "L'art. 4 d.lg. 19 settembre 1994 n. 626, che detta norme per il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro, e' applicabile anche alle pubbliche amministrazioni." (Consiglio Stato sez. II, 14 giugno 1995, n. 1437) Con ciò non significa che non siano necessari opportuni adattamenti della normativa all'ambito pubblicistico che è connotato da caratteristiche del tutto peculiari.
E' il medesimo d.lgs 242\1996 che introduce anche per il settore della pubblica amministrazione una definizione di datore di lavoro ai fini dell'applicazione della normativa sulla sicurezza del lavoro. Nell'art. 2 - lett. b), la figura del datore di lavoro nell'ambito pubblicistico viene identificato, secondo le indicazioni della giurisprudenza, in colui che effettivamente esercita i poteri e le funzioni gestionali sul posto di lavoro. L'articolo sancisce: "nelle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, secondo comma, del D.L.vo 29/1993, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto a un ufficio avente autonomia gestionale". La norma è in perfetta armonia con l'art. 15 del d.lgs. 165\2001, che ha conferito maggiori responsabilità ai dirigenti e ai funzionari con delega dirigenziale.
La stessa impostazione è confermata dall'art. 4 comma primo del citato d.lgs. 165\2001 "Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico?amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento ditali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti" mentre il successivo secondo comma sancisce: "Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati." Avendo i dirigenti autonomi poteri di spesa è chiaro che a loro sia attribuita la responsabilità in materia di sicurezza. Anzi alla luce della giurisprudenza citata sopra essi non sono nemmeno subordinati ad alcun rapporto gerarchico, con la conseguenza che in tale ambito hanno la massima autonomia decisionale.

 

Gli obblighi generali e i soggetti della sicurezza nella pubblica amministrazione.

L'articolo 3 del d.lgs. 626\94 stabilisce le misure generali dirette a tutelare la sicurezza e la salute del lavoratore. In particolare nei luoghi di lavoro è necessario garantire:

a) una valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza;
b) l'eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico o riduzione dei rischi al minimo;
c) la riduzione dei rischi alla fonte con una conseguente accentuazione della prevenzione dei rischi;
d) una programmazione della prevenzione mirando ad un complesso che integra in modo coerente nella prevenzione le condizioni tecniche produttive ed organizzative dell'azienda nonché l'influenza dei fattori nell'ambiente di lavoro;
e) la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che è meno pericoloso;
f) il rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, anche per attenuare il lavoro monotono e ripetitivo;
g) la priorità nelle misure di protezione collettiva rispetto alla protezione individuale;
h) una limitazione dei lavoratori sottoposti a rischio; i) utilizzo limitato di agenti chimici, fisici e biologici sui luoghi di lavoro;
i) il controllo sanitario dei lavoratori in funzione dei rischi;
j) l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione al rischio, specie quando le condizioni di salute specifiche del lavoratore lo richiedono;
k) le misure igieniche;
l) le misure di protezione collettive individuali;
m) le misure di emergenza da attuare in caso di pronto soccorso, di lotta antincendio, di evacuazione dei lavoratori e di pericolo grave ed immediato;
n) l'uso di segnali di avvertimento e di sicurezza;
o) il regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, macchine ed impianti con particolare riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alle indicazioni fornite dai fabbricanti;
p) l'informazione, la formazione, la consultazione e la partecipazione dei lavoratori ovvero dei loro rappresentanti, sulle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro;
q) istruzioni ai lavoratori.

E' quindi importante identificare coloro che sono tenuti ad attuarle. Individuato il datore di lavoro è chiaro che soggetti della sicurezza nella pubblica amministrazione sono il dirigente o funzionario delegato e il preposto.

Il d.lgs. 626\94 s.m. non definisce espressamente il concetto di dirigente e pertanto bisogna riferirsi agli artt. 13 ss. del d.lgs. 165\01. Di conseguenza sono responsabili della sicurezza in primo luogo i direttori generali e i dirigenti titolari di uffici periferici. L'attribuzione a tali qualifiche dirigenziali di compiti in materia di sicurezza e salute dei lavoratori sui luoghi di lavoro è in linea con l'evoluzione legislativa in materia di pubblico impiego. I soggetti appartenenti alle qualifiche dirigenziali saranno quindi tenuti, nell'ambito delle ispettive attribuzioni e competenze, ad adottare le misure necessarie per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori. Si tratta, piuttosto, di tener conto dell'identificazione del dirigente con il datore di lavoro, operata dall'art. 2, primo comma, lett. b), del D.L.vo 626/1994. Di conseguenza nella pubblica amministrazione è il dirigente, che ha l'obbligo di valutare la scelta delle attrezzature di lavoro, dei preparati chimici se necessari nei laboratori tecnici e la sistemazione dei luoghi di lavoro. Proprio in ordine a tale obbligo il dirigente è responsabile nel caso il lavoratore contragga malattie a causa di elevata umidità dei locali o se una sistemazione degli uffici provoca un'irragionevole organizzazione del lavoro fonte di stress etc.
In questo senso è fondamentale il documento di valutazione dei rischi di cui all'art. 4 comma secondo d.lgs. 626\94 s.m. In esso il dirigente dove inserisce una relazione sulla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute, l'individuazione delle misure di prevenzione e di protezione dei lavoratori e infine un programma per migliorare il livello di sicurezza. La valutazione del rischio e l'indicazione dei tempi e delle misure di eliminazione o contenimento dello stesso va armonizzata con il rispetto delle vigenti norme di igiene e di sicurezza del lavoro che mantengono la loro validità.
 

Per quanto concerne la procedura da adottare, appare opportuno indicare, come linea orientativa, il documento sulla valutazione della Cee ripreso nello specifico documento delle Regioni. Secondo tale documento i parametri, che è necessario valutare sono: CITARE FONTE.

Ambiente di lavoro
Impianti elettrici
Illuminazione naturale ed artificiale
Aerazione/ricambio d'aria
Riscaldamento/condizionamento/microclima
Uscite/porte/gabinetti/pavimenti (tenendo conto delle esigenze dei portatori di handicap)
Porte e scale di sicurezza
Prevenzione incendi/certificato prevenzione incendi
Arredi/attrezzature
Pulizia e igiene dei locali

Fattori di rischio
Rumore
Composti organici volatili
Videoterminali/piani di lavoro/sedili di lavoro
Movimentazione carichi
Agenti biologici, chimici, fisici
Fumo passivo

Organizzazione del lavoro

Orari/turni di lavoro
Carichi/stress
Rapporti gerarchici ed interindividuali
Rapporti con terzi e con il pubblico
Software
 

Sempre il dirigente deve designare un responsabile del servizio di protezione e prevenzione, come meglio si vedrà, interno ed esterno e designa gli addetti al servizio di protezione e prevenzione interno ed esterno. I responsabili della sicurezza devono possedere attitudini e capacità adeguate e si può procedere alla loro nomina solo dopo la consultazione del rappresentante per la sicurezza. In casi particolari, soprattutto dove i rischi per la salute sono molto elevati è obbligatoria anche la nomina di un medico o specializzato in materia di lavoro o docente universitario sempre in tali materie.
 

Ai sensi del quinto comma art. 4 della medesima normativa il dirigente ha una serie di obblighi, destinati principalmente a prevenire ogni forma di rischio. In particolare mantiene l'aggiornamento sulla situazione di rischio sui luoghi di lavoro, evita ogni situazione che possa aggravare a qualunque titolo il rischio per la salute dei lavoratori, tiene un registro nel quale sono annotati cronologicamente gli infortuni sul lavoro che comportano un'assenza dal lavoro di almeno un giorno, custodisce la cartella sanitaria del lavoratore. Inoltre tiene costanti contatti di collaborazione con i rappresentanti per la sicurezza e adotta ogni misura utile ad evitare rischi per la salute. Tale responsabilità è diretta e secondo la giurisprudenza emerge anche quando il fatto è provocato da una negligenza del lavoratore. Per esempio in un cantiere di lavoro è stato ritenuto responsabile il direttore dei lavori anche nel caso in cui un operaio manovratore di un carrello elevatore corse in aiuto di un compagno, rimasto schiacciato sotto a una frana, anziché allontanarsi rapidamente dal luogo del sinistro tentò di fermare la caduta dei massi. Proprio a ragione di questo obbligo di vigilanza, si è dell'avviso che la colpa del lavoratore non possa costituire motivo di esonero della responsabilità del datore di lavoro del soggetto da lui delegato. La responsabilità verrebbe meno esclusivamente nell'ipotesi in cui il lavoratore adottasse una condotta assolutamente imprevedibile, cioè eseguisse il proprio lavoro con modalità del tutto anomale, atipiche ed inconsuete. Infatti, solo la prevedibilità in concreto dell'evento dannoso e non la mera possibilità astratta dello stesso, può costituire un criterio per l'individuazione della colpa degli addetti alla sorveglianza dei lavoratori. Del resto si è affermato che la normativa deriva dalla necessità di garantire una costante prevenzione dei rischi e si comprende quanto sia fondamentale in ordine a tale finalità la costante sorveglianza, anche in relazione all'art. 40 c.p. (cfr. anche fra le più recenti Cassazione civile 22 - luglio - 2002, n. 10706; 21 - maggio - 2002, n. 7454; 8 - aprile - 2002, n. 5024).

Particolari norme sono dettate dall'articolo 7 a riguardo contratti di appalti. Il dirigente deve verificare l'idoneità tecnica dell'impresa appaltatrice o dei lavoratori singoli incaricati delle opere. Inoltre deve fornire alle imprese tutte le informazioni relative agli eventuali rischi che possono correre durante l'esecuzione dei lavori. Infine anche durante l'esecuzione dei lavori il datore di lavoro ha un generico obbligo di sorveglianza con la conseguenza che è tenuto a porre in essere ogni misura ritenuta necessaria per la riduzione dei rischi alla salute. Con il termine generico si intende indicare una responsabilità in relazione a eventi prevedibili con la normale diligenza, mentre i rischi specifici da cui possono derivare danni ai lavoratori sono di responsabilità delle imprese appaltatrici. Per esempio se si verifica un infortunio sul lavoro al fine di individuare le precise responsabilità, è necessaria una approfondita indagine tesa ad individuare in modo univoco il nesso di causalità tra l'evento e l'ambiente generale da cui è derivato il fatto medesimo. Se l'infortunio deriva da una negligente realizzazione dei ponteggi la responsabilità è della ditta appaltatrice, mentre se deriva da un malfunzionamento di una attrezzatura all'interno dell'ufficio, ove sono state eseguite le opere, la responsabilità è del dirigente.
 

Un importante problema è sapere se le funzioni dirigenziali in materia di sicurezza sono delegabili. Ai sensi dell'art. 17 d.lgs. 165\01 comma 1 bis i dirigenti possono delegare con atto scritto, motivato e per un tempo determinato, esclusivamente a coloro che occupano le posizioni funzionali più elevate in seno all'ufficio, la gestione del personale e delle risorse finanziarie. Sulla base di questa normativa si può concludere che, anche dopo all'accentramento delle funzioni dell'ufficio sui dirigenti, una pur limitata delega in materia di sicurezza sia ancora giuridicamente possibile. Un esplicito richiamo a tali poteri del delegante si trova, ad esempio, nelle decisioni giurisprudenziali, sopra citate, concernenti gli obblighi di sicurezza del sindaco. Quest'ultimo, infatti, è ritenuto responsabile della violazione delle norme di prevenzione anche quando, pur avendo espressamente delegato un assessore, sia stato direttamente sollecitato dall'interessato, e ciò nonostante non abbia fatto uso del proprio potere di ingerenza, sino al punto di revocare la delega.
 

In definitiva, per l'efficacia della delega si richiederanno gli stessi presupposti individuati dalla giurisprudenza con riferimento al settore privato (capacità, autonomia decisionale ed economica del delegato, completezza, specificità e prova certa della delega). Va, però, evidenziata una differenza: nel settore pubblico, infatti, si può ritenere, come sopra detto, che la delega costituisca un vero e proprio provvedimento amministrativo, dal momento che difficilmente avrà ad oggetto solo aspetti riguardanti la gestione dei rapporti di lavoro o, comunque, le materie nelle quali le amministrazioni "operano con i poteri del privato datore di lavoro (...)" (art. 4, primo comma, D.L.vo 29/1993). La delega, ovviamente, non esime dalla culpa in eligendo. Pertanto in caso di infortunio provocato per omissione di sorveglianza da parte di un funzionario delegato si potrà accertare se il dirigente ha compiuto ogni controllo possibile intorno all'idoneità del delegato a svolgere quelle specifiche mansioni. Quest'interpretazione è desumibile in più punti del D.L.vo 626/1994. Si pensi, ad esempio, alla figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che deve essere persona in possesso di attitudini e capacità adeguate (art. 8, secondo comma)
 

Altra figura è quella del preposto, ovvero di quel dipendente che, in virtù di un diretto ed immediato contatto con l'ambiente di lavoro e le persone che vi prestano la loro opera, esercita compiti di supervisione e coordinamento del lavoro, dovendo perciò assolvere fondamentalmente ad obblighi (di sicurezza) relativi al controllo ed alla vigilanza sull'applicazione delle norme di prevenzione ed alla connessa informazione/istruzione dei lavoratori. Se dunque nel settore privato preposto è il carpentiere, il capo-officina, il capo-reparto; nelle amministrazioni pubbliche sarà il capo servizio, capo-ufficio, ecc. Ai fini della concreta individuazione è importante sia il dato formale - e dunque le funzioni desunte dalla qualifica e dal profilo professionale - sia il dato sostanziale - cioè le mansioni in concreto esercitate in base alla ripartizione interna delle competenze. Un fondamentale elemento presuntivo sarà la formale individuazione del "preposto" da parte del dirigente. In altre parole è sempre necessario un atto formale di individuazione. Per quanto concerne la responsabilità la giurisprudenza è stata molto chiara. "[...] ai preposti competono di regola compiti connessi sostanzialmente al controllo del rispetto della normativa antinfortunistica da parte dei lavoratori e dell'efficienza dei dispositivi di sicurezza installati, con l'obbligo di segnalare al datore di lavoro e al dirigente ogni disfunzione in materia prevenzionistica. Attribuire ad un collaboratore compiti che prescindono dalla sua specifica competenza ovvero dalla sua concreta e sostanziale capacità di assolverli equivale ad un inammissibile aggiramento delle norme, finalizzato non all'attuazione nel quadro della organizzazione del lavoro dell'antinfortunistica, ma solo alla tutela della propria posizione. (Pretura Roma 18 ottobre 1984)
 

Ai sensi dell'articolo 9 della 626\94 s.m. anche la pubblica amministrazione deve organizzare un servizio di prevenzione e protezione con il compito di individuare i fattori di rischio, elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali, proporre i vari programmi di informazione e formazione dei lavoratori. Al tempo stesso il dirigente fornisce al servizio di prevenzione e protezione ogni informazione utile per un'equa valutazione dei rischi ambientali, in particolare indica la natura dei rischi, una descrizione dettagliata degli impianti, le prescrizioni che i vari organi di vigilanza (vigili del fuoco etc..) offrono.
 

In amministrazioni di ridotta entità numerica il servizio di prevenzione e sorveglianza può essere svolto direttamente dal dirigente, previa intesa con il rappresentante per la sicurezza. Il SPP, così organizzato, è strumento di consulenza tecnica del dirigente competente in materia di sicurezza (dirigente/funzionario) cui fa capo la responsabilità organizzativa e decisionale di spesa per i doveri di tutela della salute dei propri dipendenti.
 

Compiti del SPP sono:
· l'individuazione dei fattori di rischio e la loro valutazione;
· l'individuazione delle misure e delle procedure di sicurezza;
· la collaborazione alle azioni di informazione e di formazione;
· la consultazione del medico competente e dei rappresentanti dei lavoratori;
· i programmi di formazione.
Il ricorso a strutture esterne all'azienda sarà possibile nei casi di pubbliche amministrazioni con organizzazioni semplici e se le capacità dei dipendenti sono insufficienti.
In ogni caso, poiché alla complessità dell'organizzazione della pubblica amministrazione può non corrispondere una pari complessità dei rischi, si ritiene che quest'ultimo elemento debba essere il fattore guida nell'organizzazione del Servizio di prevenzione e protezione.

 

I lavoratori e i loro obblighi

A proposito della posizione dei lavoratori come soggetti obbligati alla sicurezza (art. 5 D.L.vo 626/1994, non modificato dal decreto correttivo 242/1996), non è dato riscontrare - per quel che qui interessa - particolari differenze tra lavoro pubblico e privato. Anche i lavoratori hanno specifici obblighi e ai sensi dell'articolo appena citato essi:
a) osservano le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti;
b) utilizzano correttamente le macchine, le apparecchiature e gli utensili;
c) utilizzano in modo appropriato i dispositivi di protezione;
d) segnalano immediatamente al datore di lavoro o da chi è delegato (direttore dei lavori nei cantieri) di ogni inefficienza riscontrata nelle attrezzature o macchine;
e) non rimuovono i dispositivi di sicurezza senza autorizzazione;
f) non compiono di propria iniziativa attività di cui non hanno la competenza tecnica;
g) si sottopongono agli accertamenti sanitari;
h) collaborano a rendere l'ambiente di lavoro il meno rischioso possibile.

 

Norme particolari.

Norme particolari riguardano la prevenzione incendi, l'evacuazione dei lavoratori, il pronto soccorso. Anche per questi servizi lo scopo principale è la prevenzione dei rischi e gli articoli 13,14,15 sono la diretta conseguenza di tutti i principi che si sono precedentemente analizzati. Soltanto nei luoghi in cui il rischio è alto viene nominato un medico stabile al fine di prendere tempestivi provvedimenti in caso avvenga un incidente sul lavoro. Tale medico ha gli stessi compiti del datore di lavoro, ma sono legati strettamente alla professione, pertanto questi ha l'obbligo di informare o di prevenire rischi di malattie o incidenti invalidanti. Di grande importanza assume poi il comma 3 dell'articolo 17. Il medico ha la possibilità di dichiarare inidoneo all'attività lavorativa i lavoratori e darne tempestiva comunicazione al datore di lavoro. Quest'ultimo entro 30 giorni dalla comunicazione può proporre ricorso all'organo di vigilanza territorialmente competente. L'organismo di controllo può confermare o rigettare il giudizio del medico. Nel caso di conferma non può più essere modificato e il lavoratore non potrà essere adibito a quelle mansioni.
 

Un elemento importante è poi rappresentato dalla formazione dei lavoratori in quanto ogni addetto deve essere informato di tutte i rischi che possono sorgere sul luogo di lavoro. La formazione deve avvenire in due momenti principalmente. Prima di tutto al momento dell'assunzione e periodicamente durante tutta la carriera professionale del lavoratore stesso. Inoltre è obbligatoria ogni volta che sorgano nuovi rischi, magari a causa dell'introduzione di nuovi attrezzi o per la riorganizzazione dell'amministrazione pubblica. Il rappresentante per la sicurezza ha poi un diritto speciale di formazione in materia di salute e di sicurezza, corso che deve seguire fin dopo la nomina a rappresentante (art. 22/4°comma). L'unico limite alla formazione è che deve avvenire durante l'orario di lavoro e non comportare oneri economici in capo ai lavoratori.

La vigilanza nei luoghi di lavoro viene attribuita ai vigili del fuoco (art. 23), salvo qualche eccezione di scarso rilievo ( industrie estrattive ecc.). Tale competenza rientra in compiti ispettivi e strettamente tecnici. I vigili del fuoco per esempio valutano se in un determinato luogo di lavoro sono state adottate tutte le misure necessarie antincendio, sono presenti le vie di fuga e via discorrendo. Qualora vi siano dei lavori ad alto rischio ( nelle centrali nucleari ecc.) è stata predisposta presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri di concerto col Ministro del Lavoro una commissione consultiva permanente con il compito di predisporre misure particolari nella prevenzione e nella sicurezza lavorativa. In armonia con il Codice della Navigazione sulle navi o natanti in generale rimangono competenti le autorità marittime; mentre per i tribunali e l'amministrazione della giustizia possono essere per le funzioni ispettive, possono essere utilizzate le forze di polizia. In ultimo le statistiche relative agi infortuni sul lavoro vengono redatte annualmente dall'INAIL e dall'ISPESL. (art. 29)

Molto più dettagliate si presentano le norme relative ai luoghi di lavoro definiti come "i luoghi destinati a contenere posti di lavoro, ubicati all'interno dell'azienda ovvero dell'unità produttiva, nonché ogni altro luogo nell'area della medesima azienda ovvero unità produttiva comunque accessibile per il lavoro". (art. 30 lettera b)).

Tutte queste norme si applicano, dunque, indistintamente sia nei luoghi destinati alla produzione o in generale all'attività lavorativa sia alle pertinenze, ossia a quei locali legati funzionalmente ai luoghi di lavoro ( cucine, mense di lavoro, ecc.). Fanno eccezione i mezzi di trasporto, i cantieri temporanei o mobili, le industrie estrattive, i pescherecci, i campi, boschi o terreni delle aziende agricole situati al di fuori dell'unità centrale dell'azienda. Le norme sulla sicurezza devono comunque tenere conto della Legge 104/90 a tutela dei disabili. Anzi si può dire che la normativa a tutela delle persone con handicap, quando viene applicata ai luoghi di lavoro, diventa parte integrante delle norme di sicurezza. Principi come accessibilità o fruibilità nei luoghi di lavoro non garantiscono soltanto che una persona disabile possa nel modo più autonomo possibile accedere alla struttura, fine principale della legge 104\92, ma servono anche a rendere il luogo sicuro per queste persone e permettere di conseguenza un agile evacuazione in caso di pericolo. Più dettagliatamente il datore di lavoro deve garantire che le vie di circolazione interne (corridoi) o all'aperto (parcheggio) che conducano a uscite di emergenza e le uscite di emergenza medesime siano costantemente sgombre; che i luoghi di lavoro, gli impianti e i dispositivi vengano sottoposti a regolare manutenzione tecnica e vengano eliminati tutte le cause di probabile rischio; che i luoghi di lavoro, gli impianti e i dispositivi vengano sottoposti a regolare pulitura, onde assicurare condizioni igieniche accettabili; che gli impianti e i dispositivi di sicurezza vengano sottoposti a regolare manutenzione. Nella seconda parte verranno analizzate più dettagliatamente alcune norme applicabili alla pubblica amministrazione.
 

Infine, poiché la sicurezza rappresenta un bene irrinunciabile, proprio perché è strettamente legata alla salute dei lavoratori, se per qualsiasi motivo le norme in materia non possano essere applicate - si pensi per esempio al caso in cui sia presente un vincolo storico, urbanistico o sia necessario un procedimento lungo autorizzatorio - il dirigente è comunque tenuto a garantire un livello accettabile di sicurezza con misure alternative concordate insieme al rappresentante per la sicurezza.