CIRCOLARE N. 8
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Roma, 3 marzo 2005
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Prot. n. 210
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e, p.c.:
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Alle Direzioni Regionali del Lavoro
LORO SEDI
All'INPS
Direzione Centrale Vigilanza
All'INAIL
Direzione Centrale Ispettorato
Al Gabinetto dell'On.le Ministro
Alla Direzione Generale degli
ammortizzatori sociali e incentivi all'occupazione
Alla Direzione Generale per la
famiglia, i diritti sociali e la responsabilità sociale delle
imprese
Alla Direzione Generale per la
gestione del fondo nazionale per le politiche sociali e
monitoraggio della spesa sociale
Alla Direzione Generale per le
politiche, per l'orientamento e la formazione
Alla Direzione Generale delle
risorse umane e affari generali
All Direzione Generale per il
volontariato, l'associazionismo e le formazioni sociali
Alla Provincia Autonoma di Trento
Alla Regione Siciliana
Assessorato Lavoro e Previdenza
sociale
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1. Premessa
Con il decreto legislativo n. 66 dell'8
aprile 2003, integrato e modificato dal decreto legislativo n. 213
del 19 luglio 2004, è stata data piena attuazione anche nel nostro
ordinamento alla direttiva comunitaria n. 93/104/CE e successive
modifiche.
E' da sottolineare, in via preliminare,
che la direttiva 93/104/CE aveva già trovato parziale attuazione
nell'art. 13 della legge n. 196 del 1997 (che aveva, tra l'altro,
fissato l'orario normale di lavoro in 40
ore settimanali) e nell'accordo
interconfederale Confindustria - CGIL - CISL e UIL del 12 novembre
1997.
In seguito, la legge n. 409 del 1998,
aveva disciplinato l'esecuzione del lavoro straordinario nelle
imprese industriali, mentre con il decreto legislativo n. 532 del
1999, relativo alla disciplina del lavoro notturno, era stata data
attuazione, non solo alla direttiva 93/104, ma anche alla delega
conferita al Governo dall'art. 17, comma 2, della legge n. 25 del
1999.
Pertanto, l'adempimento agli obblighi
derivanti dalla appartenenza alla Unione Europea ha fornito
l'occasione per dare un assetto organico e definitivo all'intera
materia dell'orario di lavoro. Il decreto in esame unifica infatti
la disciplina del tempo di lavoro e quella dei riposi, attuando in
larga parte i contenuti del menzionato Accordo interconfederale del
1997 e garantendo un ampio spazio di intervento all'autonomia
collettiva per ciò che riguarda la modulazione dei tempi di lavoro
(orario normale multiperiodale, gestione degli straordinari, limiti
di orario massimo, ecc.) in rapporto alle esigenze produttive e
organizzative.
Per le parti riguardanti anche il
personale dipendente dalle pubbliche Amministrazioni, la circolare è
stata redatta d'intesa con il Dipartimento della Funzione Pubblica.
2. Finalità e definizioni
Il decreto detta una disciplina di
carattere generale che definisce l'apparato terminologico di cui lo
stesso decreto fa uso. Le diverse definizioni verranno illustrate
nel prosieguo della circolare. Peraltro, per alcune di esse si
ritiene già in questa sede utile effettuare delle precisazioni.
In proposito occorre evidenziare una
novità sostanziale rispetto alla precedente disciplina dell'orario
di lavoro in ordine ai rinvii operati alla contrattazione
collettiva. Infatti, alle varie definizioni viene aggiunta quella di
"contratti collettivi di lavoro" che, conformemente alla prassi
legislativa attualmente in vigore, sono individuati in quelli
stipulati da organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori
comparativamente più rappresentative. Non è specificato alcun
livello di contrattazione collettiva di riferimento. Salve diverse
specifiche disposizioni (art. 17, comma 1°), dunque, il rinvio alla
contrattazione collettiva deve intendersi come rinvio a tutti i
possibili livelli di contrattazione collettiva: nazionale,
territoriale, aziendale.
Orario di lavoro
La nozione di orario di lavoro è stata
sinora ancorata al concetto di lavoro "effettivo", già definito
dall'art. 3 R.D.L. 692/23 come quel lavoro "che richieda
un'applicazione assidua e continuativa".
Il decreto legislativo n. 66/2003, nel
riprendere la definizione dettata dalla direttiva europea,
stabilisce (art. 2, punto a)), invece, che per orario di lavoro si
intende "qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a
disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua
attività o delle sue funzioni".
Tale formulazione ha una portata
certamente più ampia, così come ha chiarito la stessa Corte di
giustizia europea che ha ritenuto compresi nell'orario di lavoro i
periodi in cui i lavoratori "sono obbligati ad essere fisicamente
presenti sul luogo indicato dal datore di lavoro e a tenervisi a
disposizione di quest'ultimo per poter fornire immediatamente la
loro opera in caso di necessità" (sentenza del 9 settembre 2003).
D'altro canto ciò è confermato dalla
circostanza che, nella nuova disciplina, non è stata più riproposta
l'esclusione dalla nozione di orario di lavoro e dalla disciplina
sulla durata massima della prestazione di lavoro di "quelle
occupazioni che richiedano per loro natura o nella specialità del
caso, un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia" (art. 3
R.D.L. n. 692/1923); nella nuova disposizione, invece, tali
lavorazioni vengono esplicitamente escluse solo dall'ambito di
applicazione della disciplina della durata settimanale (art. 16 DLgs
n. 66/2003).
3. Campo di applicazione
La disciplina dell'orario di lavoro di
cui al decreto legislativo n. 66 del 2003 si applica a tutti i
settori di attività, pubblici e privati, in relazione a rapporti di
lavoro subordinato. Si applica anche agli apprendisti che abbiano
raggiunto la maggiore età che, pertanto, possono svolgere lavoro
straordinario e notturno (già possibile, per quanto attiene al
lavoro notturno, nelle aziende artigianali di panificazione e di
pasticceria e di quelle del comparto turistico e dei pubblici
esercizi).
Per gli apprendisti minorenni si applica
la disciplina speciale di cui alla legge n. 977 del 1967 e
successive modificazioni.
La disciplina non si applica qualora
"altri strumenti comunitari contengano prescrizioni più specifiche
in materia di organizzazione dell'orario di lavoro per determinate
occupazioni o attività professionali". In particolare, non si
applica al lavoro della gente di mare di cui alla direttiva
1999/63/CE del 21 giugno 1999, che attua l'accordo
sull'organizzazione dell'orario di lavoro della gente di mare
concluso dall'Associazione armatori della Comunità europea (ECSA) e
dalla Federazione dei sindacati dei trasportatori dell'Unione
europea (FST). In forza di questo atto, espressamente richiamato dal
decreto n. 66 del 2003, per "gente di mare" si intende ogni persona
occupata o impegnata a qualunque titolo a bordo di una nave
marittima di proprietà pubblica o privata, registrata nel territorio
di uno Stato membro.
Il decreto non si applica neppure ai
lavoratori mobili, per quanto attiene ai profili di cui alla
direttiva n. 2002/15/CE dell'11 marzo 2002, concernente
l'organizzazione dell'orario di lavoro delle persone che effettuano
operazioni mobili di autotrasporto. Per "lavoratori mobili" si
intendono quelli impiegati quali membri del personale viaggiante o
di volo presso una impresa che effettua servizi di trasporto
passeggeri o merci su strada, per via aerea o per via navigabile, o
a impianto fisso non ferroviario.
In ragione della peculiare
organizzazione del lavoro e della concorrente competenza regionale
in materia di istruzione, il decreto legislativo n. 66 del 2003 non
si applica al personale della scuola di cui al Testo Unico delle
disposizioni legislative in materia di istruzione, né al personale
delle Forze armate e di polizia, nonché gli addetti al servizio di
polizia municipale e provinciale, in relazione alle attività
operative specificamente istituzionali.
Infine, il decreto in oggetto non si
applica nei confronti dei servizi di protezione civile, ivi compresi
quelli del corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché nell'ambito
delle strutture giudiziarie, penitenziarie e di quelle destinate per
finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in
materia di ordine e sicurezza pubblica, delle biblioteche, dei musei
e delle aree archeologiche dello Stato. Nei confronti di queste
attività le norme del decreto non trovano applicazione in presenza
di particolari esigenze inerenti al servizio espletato o di
protezione civile, nonché degli altri servizi espletati dal corpo
nazionale dei vigili del fuoco, così come individuate con decreto
del ministro competente, di concerto con i ministri del lavoro e
delle politiche sociali, della salute, dell'economia e delle finanze
e per la funzione pubblica. Nelle more dell'emanazione dei decreti
ministeriali indicati si deve ritenere che continuino a trovare
applicazione le attuali discipline, anche contrattuali, previgenti,
ove compatibili.
4. Orario normale settimanale
Il decreto legislativo n. 66 del 2003
riprende i contenuti dell'art. 13, della legge n. 196 del 1997 e
fissa in 40 ore settimanali l'orario normale di lavoro, assegnando
alla contrattazione collettiva la facoltà sia di stabilire un orario
inferiore che di riferire l'orario normale alla durata media delle
prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno in modo
tale che, nonostante la flessibilizzazione, nel dato arco temporale
non venga superata la media riferita, ovviamente, all'orario
normale.
Tale orario di lavoro, purché venga
rispettata la media nei termini suddetti, è orario normale di lavoro
e l'eventuale superamento settimanale delle 48 ore, senza che
concorrano ore di lavoro straordinario, non dovrà essere oggetto di
comunicazione, stante la chiara lettera della legge (purché
ovviamente nel periodo di riferimento sia effettuato il relativo
recupero).
Si ricorda, a questo proposito, che in
caso di organizzazione multiperiodale dell'orario di lavoro,
costituisce straordinario ogni ora di lavoro effettuata oltre
l'orario programmato settimanale. Pertanto qualora ad esempio in una
settimana sia svolto un orario programmato di 50 ore la
cinquantunesima ora di lavoro sarà imputata a lavoro straordinario e
quindi costituirà motivo sufficiente per la comunicazione.
Si evidenzia, inoltre, che anche nel
caso di orario multiperiodale, pur non venendo in essere l'obbligo
di comunicazione (in quanto non siano state effettuate ore di lavoro
straordinario che abbiano concorso al superamento delle 48 ore di
lavoro settimanali) resta fermo il limite massimo delle 48 ore medie
nel periodo di riferimento.
E' da sottolineare come nella nuova
formulazione si fa riferimento ai "contratti collettivi" e non ai
contratti "collettivi nazionali" di cui al citato art. 13. Di
conseguenza anche i contratti territoriali e aziendali, oltre quelli
nazionali, possono stabilire – purché stipulati da organizzazioni
sindacali comparativamente più rappresentative (art. 1, comma 2,
lett. m) – una durata minore ovvero prevedere orari multiperiodali.
Ovviamente, in questo quadro di
flessibilizzazione, i contratti collettivi dovranno, comunque,
rispettare il limite massimo settimanale dell'orario, come
determinato dall'art. 4.
Per quanto concerne il settore del
pubblico impiego, si ritiene che la contrattazione collettiva
decentrata non possa introdurre discipline difformi dalla
contrattazione collettiva nazionale.
L'orario normale di lavoro è di 40 ore
nell'arco della settimana, da intendersi non necessariamente come
settimana di calendario, salva la facoltà della contrattazione
collettiva, di qualsiasi livello, di introdurre il c.d. regime degli
orari multiperiodali, cioè la possibilità di eseguire orari
settimanali superiori e inferiori all'orario normale a condizione
che la media corrisponda alle 40 ore settimanali o alla durata
minore stabilita dalla contrattazione collettiva, riferibile ad un
periodo non superiore all'anno.
Il riferimento all'anno non deve
intendersi come anno civile (1° gennaio - 31 dicembre) ma come un
periodo mobile compreso tra un giorno qualsiasi dell'anno ed il
corrispondente giorno dell'anno successivo, tenendo conto delle
disposizioni della contrattazione collettiva.
Nel computo dell'orario normale di
lavoro, stante la definizione di orario di lavoro, non rientrano i
periodi in cui il lavoratore non è a disposizione del datore, nel
senso precisato nel paragrafo 2, ovvero nell'esercizio della sua
attività e delle sue funzioni. Quindi le ore non lavorate potranno
essere recuperate in regime di orario normale di lavoro.
Laddove, pertanto, uno di questi eventi
venga a coincidere con giornate in cui, a seguito della
programmazione multiperiodale, sia stato previsto un orario
superiore o inferiore a quello normale, le parti del rapporto sono
tenute a concordare lo spostamento in altra data di un eguale
incremento o riduzione della prestazione.
Le eventuali ore di incremento prestate
e non recuperate assumono la natura di lavoro straordinario e devono
essere compensate secondo le modalità previste dai contratti.
I contratti collettivi possono stabilire
che la durata dell'orario normale sia ridotta rispetto al limite
legale delle 40 ore. Questa facoltà ha ad oggetto una riduzione
d'orario valida ai soli fini contrattuali.
La possibilità di modulare l'orario di
lavoro su base settimanale, mensile o annuale è stata attuata dal
decreto legislativo n. 66 del 2003 anche attraverso l'eliminazione
del limite giornaliero di durata della prestazione lavorativa. Nel
nostro ordinamento non vige più, pertanto, un limite positivo alla
durata giornaliera del lavoro ma, semmai, un limite che può
ricavarsi, a contrario, dal combinato disposto dagli articoli 7 e 8
del decreto nella misura di 13 ore giornaliere, ferme restando le
pause. Tale individuazione risulta conforme al dettato
costituzionale che impone alla legge di definire la durata massima
della giornata lavorativa.
La limitazione positiva della durata
della prestazione lavorativa giornaliera, benché non sia disposta
per legge, potrebbe essere disposta dalla autonomia privata, ma ai
soli fini contrattuali, imponendo un limite anche alla modulazione,
pertanto alla flessibilità, dell'organizzazione del lavoro nella sue
caratteristiche temporali.
Deroghe alla durata settimanale
dell'orario
L'art. 16 del decreto, che recepisce le
corrispondenti disposizioni dell'Accordo interconfederale del 1997,
ampliandole con le fattispecie di cui alle lettere "m" ed "n",
riporta l'elencazione delle ipotesi per le quali non si applica la
disposizione sulla durata settimanale di 40 ore di lavoro. Per
queste attività, quindi, non esiste un orario settimanale normale
stabilito per legge.
Si tratta di una serie di attività e di
prestazioni suscettibili di aggiornamento e armonizzazione con i
principi della nuova normativa mediante decreto del Ministero del
lavoro, da adottare sentite le OO.SS. datoriali e dei lavoratori
maggiormente rappresentative.
Pertanto, tutte le attività che
rientrano tra le ipotesi dell'articolo in questione continuano a
mantenere la loro specificità, salvo i necessari adeguamenti al
principio della durata media settimanale di 48 ore che dovranno
essere adottati con i decreti di armonizzazione previsti dal secondo
comma dell'art. 16.
L'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 66/2003
prevede che "l'orario normale di lavoro é fissato in 40 ore
settimanali". Ai soli fini contrattuali, i contratti collettivi di
lavoro possono prevedere una minore durata.
A tal proposito va chiarito che le 40
ore settimanali di lavoro sono calcolate non necessariamente sulla
base della settimana lavorativa ma per ogni periodo di sette giorni.
La violazione della previsione è punita
in via amministrativa con la sanzione da € 25,00 a € 154,00 inoltre,
se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori ovvero si è
verificata nel corso dell'anno solare per più di cinquanta giornate
lavorative, la sanzione amministrativa va da € 154,00 a € 1.032,00 e
non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta.
Per tale violazione non trova
applicazione l'istituto della diffida di cui all'art. 13 del d.lgs.
n. 124/2004.
6. Durata massima dell'orario di
lavoro
Il decreto, al fine di tutelare la
salute e sicurezza dei lavoratori, di consentire una più attuale
distribuzione dei tempi di vita e di lavoro e di garantire eque
condizioni di concorrenza tra le imprese, nel mercato comunitario,
prevede un sistema di limiti alla durata della prestazione
lavorativa organizzati in modo flessibile.
La durata massima settimanale
dell'orario di lavoro, comprensiva sia del lavoro ordinario sia di
quello straordinario, è stabilita dai contratti collettivi e
riguarda, in generale, sia il settore pubblico sia il settore
privato.
L'orario settimanale, sia in presenza
sia in assenza di contrattazione applicabile, non può superare le 48
ore, comprese le ore di lavoro straordinario, per ogni periodo di
sette giorni calcolate, come media, su un periodo di riferimento non
superiore a 4 mesi.
A tale limite deve attenersi l'autonomia
individuale.
Il limite delle 48 ore medie, nel
periodo di riferimento, deve essere rispettato sia nel caso in cui
il datore stabilisca un orario rigido e uniforme sia nel caso in cui
l'orario di lavoro venga disciplinato in senso multiperiodale
mediante il rispetto del limite come media, per ogni periodo di
sette giorni, in un determinato periodo. Quindi il decreto non vieta
prestazioni che superino, nell'arco di sette giorni, le 48 ore in
quanto il periodo di riferimento sia un periodo più ampio della
settimana e non superiore a quattro mesi, salvi i più ampi periodi
che può fissare la contrattazione collettiva. Nella settimana
lavorativa si potrà superare il limite delle 48 ore settimanali
purché vi siano settimane lavorative di meno di 48 ore in modo da
effettuare una compensazione e non superare il limite delle 48 ore
medie nel periodo di riferimento.
L'attività potrà essere concentrata in
alcuni periodi e ridotta in altri in modo da realizzare una
efficiente gestione dei fattori produttivi. Ad esempio, in un
periodo di 4 mesi dal 1 gennaio al 30 aprile, l'orario settimanale
di lavoro del mese di gennaio potrebbe essere di 60 ore, di 40 ore
il mese di febbraio e di 35 ore il mese di marzo e di 48 ore il mese
di aprile.
Nel caso in cui la contrattazione
collettiva non provveda a disciplinare l'orario di lavoro
multiperiodale, l'autonomia individuale potrà intervenire
esclusivamente con riferimento all'orario di lavoro straordinario.
La contrattazione collettiva, oltre che
determinare la durata massima settimanale dell'orario di lavoro, ha
facoltà di elevare il periodo di riferimento, in relazione agli
specifici interessi del settore cui i datori di lavoro ed i
lavoratori appartengono, da 4 fino a 6 mesi e, in caso di ragioni
obiettive, tecniche o inerenti all'organizzazione del lavoro, fino a
12 mesi.
La durata massima dell'orario di lavoro,
pari a 48 ore medie nel periodo di riferimento, si applica anche nei
confronti degli apprendisti maggiorenni. I lavoratori adolescenti,
anche non apprendisti, rimangono assoggettati alla disciplina della
l. n. 977 del 1967 che, all'articolo 18, pone un limite orario
settimanale di 40 ore ed uno giornaliero di 8 ore. Di tale
limitazione, anche giornaliera, deve tenersi conto anche
nell'ipotesi di distribuzione dell'orario di lavoro su base
multiperiodale. Per i bambini, liberi da obblighi scolastici, la
stessa disposizione legislativa prevede al primo comma che
l'attività lavorativa non può essere prestata per più di 7 ore
giornaliere e 35 settimanali.
L'articolo 4, comma 2, del decreto
legislativo n. 66/2003 stabilisce che "la durata media dell'orario
di lavoro non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette
giorni, le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro
straordinario". In base ai successivi commi 3 e 4, la durata media
dell'orario di lavoro deve essere calcolata con riferimento a un
periodo non superiore a quattro mesi e i contratti collettivi di
lavoro possono in ogni caso elevare tale limite fino a sei mesi
ovvero fino a dodici mesi a fronte di ragioni obiettive, tecniche o
inerenti all'organizzazione del lavoro, specificate negli stessi
contratti collettivi.
In riferimento invece all'arco temporale
di quattro, sei o dodici mesi sul quale va calcolata la media delle
ore di lavoro effettuate, si precisa che lo stesso è da considerarsi
scorrevole limitatamente ai periodi di ferie e malattia e periodi
equiparabili alla malattia a differenza di quanto avviene negli
altri periodi di sospensione (ad es. sciopero).
In altre parole, l'arco temporale di
riferimento può superare il quadrimestre (ovvero il semestre o
l'anno) in quanto nella sua determinazione non vanno computate le
assenze dovute a ferie e malattia o periodi equiparabili alla
malattia; ad esempio, nel considerare il quadrimestre
gennaio/aprile, tale periodo, in considerazione delle assenze dovute
a malattia, potrebbe scorrere nel mese di maggio.
Si precisa, inoltre, che per effetto
delle disposizioni di cui all'art. 16 del decreto legislativo n. 66
del 2003, con riferimento al personale nei confronti del quale non
si applica il limite dell'orario normale di lavoro pari a 40 ore
settimanali, non opera la sanzione in esame, giacché tale personale
è escluso dall'obbligo di comunicazione.
9. Lavoro straordinario
Il "lavoro straordinario", a norma
dell'articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 66
del 2003, è quello prestato oltre l'orario normale così come
definito dall'articolo 3 del decreto.
Il ricorso al lavoro straordinario "deve
essere contenuto".
Non è più prevista una durata massima
giornaliera delle prestazioni straordinarie (così come la prevedeva,
per i datori di lavoro che non fossero imprenditori industriali,
l'art. 5 r. d. l. n. 692 del 1923), bensì una durata massima
settimanale che, cumulata con le ore di lavoro normale, non può
superare il livello medio di 48 ore. Infatti, ai sensi dell'articolo
4, comma 2, la durata medio/massima dell'orario di lavoro per ogni
periodo di sette giorni, non può superare le 48 ore medie,
comprensive del lavoro straordinario, nel periodo di riferimento.
Il ricorso al lavoro straordinario è
legittimo in presenza di un accordo collettivo applicato ovvero
applicabile, che preveda una disciplina del lavoro straordinario
ovvero, in mancanza di esso, in presenza di un previo accordo tra
datore di lavoro e lavoratore. In questo ultimo caso il ricorso al
lavoro straordinario non può superare le 250 ore annue, oltre alle
casistiche previste al comma 4 dell'art. 5 del decreto.
Perché possa essere superato il suddetto
limite è necessario, quindi, che esista un contratto collettivo
applicato ovvero applicabile, inoltre è necessario che il contratto
collettivo disciplini il ricorso al lavoro straordinario.
In aggiunta ai limiti fissati dal
contratto collettivo o dalla legge (250 ore annuali) il ricorso al
lavoro straordinario è consentito, salvo diversa disciplina
collettiva, in relazione all'ipotesi in cui non sia possibile
fronteggiare i casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive
attraverso l'assunzione di altri lavoratori; nei casi di forza
maggiore; nei casi in cui la mancata esecuzione di prestazioni di
lavoro straordinario possa dare luogo a un pericolo grave e
immediato ovvero a un danno alle persone o alla produzione.
Inoltre è consentito in caso di eventi
particolari, come mostre, fiere e manifestazioni collegate alla
attività produttiva, nonché allestimento di prototipi, modelli o
simili, predisposti per le stesse, preventivamente comunicati agli
uffici competenti ai sensi dell'art. 19 della legge n. 241 del 1990,
come sostituito dall'art. 2, comma 10, della legge n. 537 del 1993.
In quest'ultimo caso gli eventi indicati
devono essere comunicati in tempo utile alle rappresentanze
sindacali aziendali.
Anche in questi casi, a fronte della
richiesta del datore, il lavoratore è tenuto alla prestazione del
lavoro straordinario, salvo sussistano ragioni che consentano al
lavoratore di rifiutarne l'esecuzione.
Il lavoro straordinario deve essere
computato separatamente dal computo del lavoro normale e deve essere
retribuito con una maggiorazione, rispetto al lavoro normale, il cui
ammontare è stabilito dalla contrattazione collettiva. Quest'ultima
può disporre che, in aggiunta o in alternativa alla maggiorazione
retributiva, i lavoratori possano usufruire di riposi compensativi.
In questo caso le prestazioni straordinarie eseguite non sono
computabili ai fini della durata media dell'orario di lavoro
prevista, nella misura massima complessiva delle 48 ore settimanali,
dall'articolo 4, comma 2.
In caso di superamento delle 48 ore di
lavoro settimanale, questa volta da intendersi come valore assoluto,
attraverso prestazioni di lavoro straordinario, entro trenta giorni
dalla scadenza del periodo di riferimento di 4 mesi o di quello
superiore previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro che
occupa più di dieci dipendenti nell'unità produttiva interessata è
tenuto a informare la direzione provinciale del lavoro - Settore
ispezione del lavoro competente per territorio. Qualora il
superamento del limite delle 48 ore non avvenga attraverso
prestazioni di lavoro straordinario non è dovuta la comunicazione ex
art. 4, comma 5.
L'obbligo di comunicazione può essere
adempiuto secondo le modalità previste dai contratti collettivi, in
questo caso il mancato rispetto delle disposizioni contrattuali non
costituisce violazione dell'obbligo di comunicazione purché sia
comunque raggiunto lo scopo comunicativo.
Ai fini del calcolo dei dipendenti non
devono essere computati i lavoratori con contratto di
somministrazione, mentre i lavoratori a tempo parziale devono essere
computati in proporzione all'orario svolto tranne che nel settore del
pubblico impiego.
La disposizione, quindi, fissa sia
limiti quantitativi che tipologici alla prestazione di lavoro
straordinario, che non riguardano, evidentemente, il personale di
cui all'art. 16 del decreto legislativo n. 66 del 2003, per il quale
non trova applicazione la disciplina dell'orario normale di lavoro.
Per tale violazione non trova
applicazione l'istituto della diffida di cui all'art. 13 del decreto
legislativo n. 124 del 2004.
11. Criteri di computo
L'art. 6, comma 1, del decreto
legislativo n. 66 del 2003 prevede che i periodi di ferie e di
assenze per malattia non devono essere considerati ai fini del
computo della media di cui all'art. 4. Il riferimento alla malattia,
coma già accennato, si ritiene debba intendersi equivalente a
quello di "stato invalidante" e comprendere quindi anche le assenze
comunque legate alla salute del lavoratore (infortunio, gravidanza
ecc.). L'interpretazione più corretta sembra consistere nel
considerare neutre tali assenze rispetto al calcolo della media, con
il conseguente slittamento del periodo di riferimento sul quale
calcolare la media.
Lo "slittamento" del periodo di
riferimento è, ovviamente, riferito al solo calcolo della media
delle ore settimanali lavorate (non superiore alle 48) ma non rileva
ai fini della scadenza dei termini per la comunicazione di cui al
comma 5 dell'art. 4 (superamento tramite straordinario) che
indipendentemente dalle assenze resterà cristallizzato nei termini
di legge od in quelli fissati dalla contrattazione collettiva.
Il comma 2 dello stesso articolo prevede
che non vengano computate, ai fini del calcolo della media in
questione, le ore di lavoro straordinario per le quali il lavoratore
abbia beneficiato del riposo compensativo. In questo caso sembra
doversi ritenere che tale meccanismo di calcolo possa essere
adottato solo qualora sia il lavoro straordinario sia il relativo
riposo compensativo siano effettuati in un medesimo periodo di
riferimento, dovendosi, al contrario provvedere a computare le ore
di straordinario effettuate qualora il riposo compensativo sia
effettuato in un successivo periodo di riferimento.
Diversamente, stante la lettera
dell'art. 6 che fa riferimento ai criteri di computo ai fini del
solo calcolo della media, il lavoro straordinario effettuato nella
settimana, qualora il relativo riposo compensativo non sia goduto
nella stessa, sarà computato ai fini della comunicazione, di cui al
comma 5 dell'art. 4, relativa al superamento delle 48 ore nella
singola settimana a causa della prestazione di lavoro straordinario.
Il criterio di calcolo basato sulla
media individua il limite entro il quale deve considerarsi
rispettato il principio della tutela della salute e della sicurezza
del lavoro, indipendentemente dalla durata effettiva del rapporto di
lavoro.
Va inoltre chiarito che, nel caso di
rapporti a tempo determinato di durata inferiore al periodo di
riferimento (4, 6 o 12 mesi), per il calcolo dell'orario medio di
lavoro è necessario considerare l'effettiva durata del contratto di
lavoro a termine. Invece nei rapporti di lavoro risolti
inaspettatamente prima della scadenza del periodo di riferimento, il
periodo da prendere in considerazione quale base di calcolo della
media è pari a 4 mesi (ovvero 6 o 12 mesi qualora previsto dalla
contrattazione collettiva).
12. Riposo giornaliero
Il lavoratore ha diritto a undici ore di
riposo consecutive ogni 24 ore, calcolate dall'ora di inizio
della prestazione lavorativa. Rimane ferma la durata del normale
orario settimanale fissato in 40 ore o nel minor valore individuato
dalla contrattazione.
Il periodo di riposo di undici ore è un
periodo minimo, salvi i casi di deroghe previste, quindi l'eventuale
accordo che diminuisca tale periodo è nullo e sostituito di diritto
dalla disposizione normativa.
Le parti possono accordarsi per un
periodo di riposo maggiore di quello stabilito dall'art. 7 del
decreto legislativo n. 66 del 2003, in questo caso il lavoratore ha
facoltà di rinunciare al periodo di riposo compreso tra la misura
convenzionale e quella minima prevista.
Il lavoratore ha diritto al
periodo di riposo giornaliero anche qualora sia titolare di più
rapporti di lavoro.
Peraltro, poiché non esiste
alcun divieto di essere titolari di più rapporti di lavoro non
incompatibili, il lavoratore ha l'onere di comunicare ai datori di
lavoro l'ammontare delle ore in cui può prestare la propria attività
nel rispetto dei limiti indicati e fornire ogni altra informazione
utile in tal senso.
Il riposo giornaliero deve essere fruito
in modo consecutivo salvo che per le attività caratterizzate da
periodi di lavoro frazionati durante la giornata, ossia per quelle
attività che, per loro natura, sono svolte in tal modo come, in
particolare, l'attività del personale addetto alle pulizie. Per
queste ultime attività, sarà la contrattazione collettiva a
disciplinare le più opportune modalità di fruizione del riposo
giornaliero.
Nel periodo di riposo non si computano i
riposi intermedi, nonché le pause di lavoro di durata non inferiore
a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese
tra l'inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro,
durante le quali non sia richiesto alcun tipo di prestazione
lavorativa in quanto non si tratta di un periodo di riposo
continuativo.
Questi periodi non rientrano nell'orario
di lavoro né nel periodo di riposo.
Il terzo comma dell'articolo 8 del
decreto legislativo n. 66 del 2003 recita testualmente che "Salvo
diverse disposizioni dei contratti collettivi, rimangono non
retribuiti o computati come lavoro ai fini del superamento dei
limiti di durata i periodi di cui all'art. 5, regio decreto 10
settembre 1923, n. 1955, e successivi atti applicativi, e dell'art.
4 del regio decreto 10 settembre 1923, n. 1956, e successive
integrazioni". Questi periodi, pertanto, non rientrano nell'orario
di lavoro.
Il richiamo operato all'art. 5 del R.D.
10/9/23, n. 1955, ha la sola finalità di individuare i periodi
suddetti. Deve, pertanto, ritenersi abrogato il disposto di cui al
secondo comma del citato articolo 5 il quale prevedeva che "i riposi
normali, perché possano essere detratti dal computo del lavoro
effettivo, debbono essere prestabiliti ad ore fisse ed indicati
nell'orario di cui all'art. 12".
Da ciò deriva che, alla luce della
vigente disciplina, la pausa intermedia di 10 minuti possa essere
anche mobile. Allo stesso modo deve pure considerarsi decaduto
l'obbligo della esposizione dell'orario "in modo facilmente
visibile ed in luogo accessibile a tutti i dipendenti" così come
l'obbligo di comunicarlo all'Ispettorato del Lavoro previsto
dall'art. 12 del citato regio decreto.
Deroghe in materia di riposo giornaliero
L'art. 7, nella parte che determina la
misura e la consecutività del riposo giornaliero, può essere
derogato ai sensi dell'art. 17. La deroga può essere disposta da
contratti collettivi o accordi conclusi a livello nazionale tra le
organizzazioni sindacali nazionali comparativamente più
rappresentative e le associazioni nazionali dei datori di lavoro
firmatarie di contratti collettivi nazionali di lavoro o,
conformemente alle regole fissate nelle medesime intese, mediante
contratti collettivi o accordi conclusi al secondo livello di
contrattazione. Per poter derogare alla disposizione in materia di
riposo le parti devono accordare ai prestatori di lavoro periodi
equivalenti di riposo compensativo. Se, in casi eccezionali ed
oggettivi, non possono essere previsti dei periodi di riposo
compensativo ai lavoratori interessati, deve essere accordata loro
una protezione appropriata. In presenza di una siffatta tutela
devono considerarsi ancora in vigore le previgenti disposizioni
collettive che regolamentano l'orario di lavoro non rispettando il
limite di 11 ore di riposo consecutivo.
Nelle ipotesi di attività frazionate le
deroghe alla disciplina in materia di riposi alle condizioni di cui
all'art. 17, comma 4, possono avere ad oggetto la durata del riposo.
13. Pause
Il lavoratore ha diritto ad un
intervallo di pausa dall'esecuzione della prestazione lavorativa
quando la stessa ecceda le sei ore nell'ambito dell'orario di
lavoro.
Le funzioni per le quali è previsto il
diritto alla pausa sono individuate nell'esigenza di consentire il
recupero delle energie, nell'eventuale consumazione del pasto e
nell'attenuazione del lavoro ripetitivo e monotono.
La durata e le modalità della pausa sono
stabilite dalla contrattazione collettiva.
In mancanza di contrattazione collettiva
che preveda una pausa per una finalità qualsiasi, anche ulteriore
rispetto a quelle previste dal decreto, il lavoratore ha diritto ad
un intervallo non inferiore a 10 minuti.
Il periodo di pausa può essere fruito
anche sul posto di lavoro, in quanto la finalità della pausa è
quella di costituire un intervallo tra due momenti di esecuzione
della prestazione, ma non può essere sostituito da compesazioni
economiche. La eventuale "concentrazione" della pausa all'inizio o
alla fine della giornata lavorativa, che determina in sostanza una
sorta di riduzione dell'orario di lavoro, può essere ritenuta lecita
come disciplina derogatoria, ex art. 17 comma 1 e per il legittimo
esercizio della quale è necessario accordare ai lavoratori degli
equivalenti periodi di riposo compensativo o, comunque, assicurare
una appropriata protezione. Quindi si ritengono superate, dalle
disposizioni di legge, quelle regole collettive o individuali che
prevedono al posto della pausa la sola compensazione economica.
La determinazione del momento in cui
godere della pausa è rimessa al datore di lavoro che la può
individuare, tenuto conto delle esigenze tecniche dell'attività
lavorativa, in qualsiasi momento della giornata lavorativa e non
necessariamente successivamente al trascorrere delle 6 ore di
lavoro. Quindi, nell'ipotesi in cui l'organizzazione del lavoro
preveda la giornata c.d. spezzata, la pausa potrà coincidere con il
momento di sospensione dell'attività lavorativa.
La pausa minima stabilita per legge e
corrispondente a 10 minuti deve essere fruita consecutivamente
affinché possa essere raggiunta la finalità per la quale è prevista.
I periodi di pausa, stante la definizione di orario di lavoro, non
vanno computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di
durata.
I periodi di pausa non sono retribuiti,
salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi. In particolare
non sono retribuiti i riposi intermedi che siano presi sia
all'interno che all'esterno dell'azienda; il tempo impiegato per
recarsi al posto di lavoro ; le soste di lavoro di durata non
inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore,
comprese tra l'inizio e la fine di ogni periodo della giornata di
lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione.
Pausa per alcune particolari
attività
I lavoratori che utilizzino
un'attrezzatura munita di videoterminali in modo sistematico o
abituale, per venti ore settimanali, hanno diritto, qualora svolgano
tale attività per almeno quattro ore consecutive, ad una pausa
stabilita, nelle modalità, dalla contrattazione collettiva. Qualora
nulla disponga la contrattazione collettiva, questi lavoratori hanno
diritto a 15 minuti di pausa ogni 120 minuti di applicazione
continuativa al videoterminale, senza possibilità di cumulo
all'inizio ed al termine dell'orario di lavoro. Il tempo di pausa è
considerato orario di lavoro.
Il periodo di pausa di cui all'articolo
8 è assorbito da quello appena indicato quando quest'ultimo comporti
una interruzione dell'attività lavorativa e non consista in un
cambiamento dell'attività.
14. Riposi settimanali
Il lavoratore ha diritto ad un periodo
di riposo di almeno 24 ore consecutive, ogni sette giorni, di regola
coincidenti con la domenica. Il periodo di riposo settimanale deve
essere cumulato con il riposo giornaliero, per un totale di 35 ore
consecutive nelle ipotesi in cui il periodo di riposo sia
individuato in 11 ore.
Il decreto pone una intricata disciplina
in materia di eccezioni e deroghe ai principi indicati in materia di
riposi settimanali.
In particolare prevede due categorie di
eccezioni.
Da un lato prevede che le regole della
periodicità, della coincidenza con la domenica, della durata e della
consecutività possano essere derogate per alcune attività, quelle di
cui alle lettera a), b), c) dell'art. 9, comma 2 del decreto
legislativo n. 66 del 2003. Inoltre prevede che la contrattazione
collettiva possa introdurre delle deroghe purché ai lavoratori siano
concessi periodi equivalenti di riposo compensativo o, in caso di
eccezionale impossibilità oggettiva, che sia predisposta una
protezione appropriata a favore degli stessi.
Dall'altro lato prevede che la regola
della coincidenza del riposo domenicale possa essere derogato nelle
ipotesi elencate - peraltro già contenute nell'art. 5 della legge n.
370 del 1934 - in cui il riposo settimanale di 24 ore consecutive
può essere spostato in un giorno diverso dalla domenica e attuato
mediante turni del personale.
Innanzitutto, per quanto riguarda la
prima categoria di eccezioni, la disposizione che prevede che il
periodo di riposo settimanale debba coincidere con la domenica può
essere derogata in quanto la coincidenza è esclusivamente
tendenziale. La disposizione che prevede la cadenza del riposo ogni
sette giorni può essere derogata, in conformità agli orientamenti
consolidati e prevalenti in giurisprudenza, in presenza, si ritiene,
di una triplice condizione: che esistano degli interessi
apprezzabili, che si rispetti, nel complesso, la cadenza di un
giorno di riposo ogni sei di lavoro, che non si superino i limiti di
ragionevolezza con particolare riguardo alla tutela della salute e
sicurezza dei lavoratori. La disposizione che prevede la durata del
riposo può essere derogata nel limite delle 24 ore che costituiscono
la soglia minima di tutela. Qualora esistano delle disposizioni che
prevedono la durata del riposo al di sotto di tale soglia, le stesse
dovranno prevedere un recupero compensativo. La disposizione che
prevede la consecutività delle ore di riposo può anch'essa essere
derogata nel rispetto del limite delle 24 ore.
Il decreto fa salve le disposizioni
speciali in materia di riposi settimanali e deroghe previste dalla
disciplina dettata in materia di riposi domenicali e settimanali.
Le ulteriori attività per le quali il
decreto legislativo n. 66 del 2003 ammette la derogabilità della
disciplina del riposo settimanale, che non siano già previste da
disposizioni vigenti, saranno individuate con decreto del Ministero
del Lavoro, adottato dopo aver sentito le organizzazioni sindacali
nazionali di categoria comparativamente più rappresentative, nonché
le organizzazioni nazionali dei datori di lavoro.
Pertanto, qualora un contratto
collettivo finisca per identificare una nuova attività, diversa da
quelle già previste, si dovrà attivare la procedura di cui all'art.
9.
A tal proposito si rileva che la
previsione normativa, pur non commisurata al numero delle giornate e
dei lavoratori, trova applicazione con riferimento alla singola
condotta datoriale che comunque si sostanzia nel non consentire i
periodi di riposo a ciascun lavoratore coinvolto ed in relazione a
ciascun periodo considerato (giorno o settimana). Ne consegue che,
in tali ipotesi, vadano applicate tante sanzioni quanti sono i
lavoratori interessati ed i riposi giornalieri o settimanali non
fruiti, fermo restando quanto stabilito dall'art. 8, comma 1, L. n.
689 del 1981.
Per tale violazione non trova
applicazione l'istituto della diffida di cui all'art. 13 del decreto
legislativo n. 124 del 2004.
16. Ferie annuali
La disciplina in materia di ferie è,
innanzitutto, regolata dall'art. 36, comma 3, della Costituzione,
che tutela il diritto del lavoratore ad un periodo di ferie annuali
retribuite cui non può rinunciare.
L'art. 2109, comma 2, del Codice Civile
dispone poi che la durata delle ferie è fissata dalla legge, dai
contratti collettivi, dagli usi e secondo equità; che il momento di
godimento delle ferie è stabilita dal datore di lavoro che deve
tenere conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del
lavoratore; che il periodo feriale deve essere possibilmente
continuativo; che il periodo feriale deve essere retribuito.
Oltre a quanto sopra indicato la
Convenzione OIL n. 132 del 24 giugno 1970 (ratificata con legge 10
aprile 1981, n. 157) prevede un periodo di ferie minimo di tre
settimane di cui due da godere ininterrottamente. Inoltre, dispone
che la fruizione del periodo bisettimanale "dovrà essere accordata e
usufruita entro il termine di un anno al massimo, e il resto del
congedo annuale pagato entro il termine di diciotto mesi, al
massimo, a partire dalla fine dell'anno che dà diritto al congedo".
Inoltre, "ogni parte di congedo annuale che superi un minimo
stabilito potrà, con il consenso della persona impiegata
interessata, essere rinviata, per un periodo limitato, oltre i
limiti indicati" in precedenza.
La Corte costituzionale, con sentenza 19
dicembre 1990, n. 543, ha, fra l'altro, affermato che il godimento
infra-annuale dell'intero periodo di ferie deve essere contemperato
con le esigenze di servizio che hanno carattere di eccezionalità o
comunque con esigenze aziendali serie.
In questo quadro normativo si è inserito
il decreto legislativo 66 del 2003 che ha disposto che "il
prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie
retribuite non inferiore a quattro settimane".
Quindi, nel caso di fruizione di un
periodo feriale consecutivo di quattro settimane, tale periodo
equivale a 28 giorni di calendario.
Con il decreto legislativo n. 66 del
2003 è stata introdotto per la prima volta in Italia, in modo
espresso, il divieto di monetizzare il periodo di ferie
corrispondente alle quattro settimane previste dalla legge, salvo il
caso di risoluzione del rapporto di lavoro nel corso dell'anno. Per
quanto riguarda i contratti a tempo determinato, di durata inferiore
all'anno, è quindi sempre ammissibile la monetizzazione delle ferie.
L'impossibilità di sostituire il
godimento delle ferie con la corresponsione dell'indennità
sostitutiva è operante per la quota di ferie maturata a partire dal
giorno dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 66 del
2003, ossia dal 29 aprile 2003.
Nei casi di sospensione del rapporto di
lavoro che rendano impossibile fruire delle ferie secondo il
principio della infra-annualità, le stesse dovranno essere godute
nel rispetto del principio dettato dall'art. 2109 cod civ,
espressamente richiamato nell'art. 10 del decreto legislativo n. 66
del 2003, ossia "nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto
conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore
di lavoro".
Il legislatore delegato ha, ora, dettato
una specifica disciplina sul punto, in forza della quale si possono
distinguere 3 periodi di ferie.
Un primo periodo, di almeno due
settimane, da fruirsi in modo ininterrotto nel corso dell'anno di
maturazione, su richiesta del lavoratore. La richiesta del
lavoratore dovrà essere inquadrata nel rispetto dei principi
dell'art. 2109 del Codice Civile. Pertanto, anche in assenza di
norme contrattuali, dovrà essere formulata tempestivamente, in modo
che l'imprenditore possa operare il corretto contemperamento tra le
esigenze dell'impresa e gli interessi del prestatore di lavoro.
La contrattazione collettiva e la
specifica disciplina per le categorie di cui all'articolo 2 comma 2
possono disporre diversamente. Allo scadere di tale termine, se il
lavoratore non ha goduto del periodo feriale di due settimane, il
datore sarà passibile di sanzione.
Il periodo cui si riferisce la
violazione è quello di due settimane. sarà sufficiente che il
lavoratore non abbia goduto anche solo di una parte di detto periodo
perché il datore di lavoro sia considerato soggetto alla sanzione
indicata, anche nelle ipotesi in cui il godimento di detto congedo
annuale sia in corso di godimento in quanto il periodo deve essere
fruito nel corso dell'anno di maturazione e non oltre il termine di
esso.
Un secondo periodo, di due settimane, da
fruirsi anche in modo frazionato ma entro 18 mesi dal termine
dell'anno di maturazione, salvi i più ampi periodi di differimento
stabiliti dalla contrattazione collettiva. Nell'ipotesi in cui la
contrattazione stabilisca termini meno ampi per la fruizione di tale
periodo (ad esempio nel settore del pubblico impiego ove il termine
è di 6 mesi) il superamento di questi ultimi, quando sia comunque
rispettoso del termine dei 18 mesi, determinerà una violazione
esclusivamente contrattuale.
Un terzo periodo, superiore al minimo di
4 settimane stabilito dal decreto, potrà essere fruito anche in modo
frazionato ma entro il termine stabilito dall'autonomia privata dal
momento della maturazione. Questo ultimo periodo può essere
monetizzato tenendo conto, per il settore del pubblico impiego,
delle previsioni dettate al riguardo.
Per tale violazione non trova
applicazione l'istituto della diffida di cui all'art. 13 del decreto
legislativo n. 124 del 2004.
Personale dipendente da aziende
autoferrotranviarie. Regime sanzionatorio
Con riferimento al decreto legislativo
n. 213 del 2004, correttivo delle disposizioni del decreto
legislativo n. 66 del 2003, e, segnatamente, alla predisposizione di
apposite sanzioni (v. art. 1, lett. f), relative, in particolare,
alla violazione delle norme sulla durata del riposo giornaliero
(art. 18 bis, comma 4, del D.lgs n. 66 del 2003), sul riposo
settimanale (art. 18 bis, comma 4) e sulla durata del lavoro
notturno (art. 18, comma 7), è necessario chiarire che, in virtù
della speciale disciplina applicabile al settore
autoferrotranviario, ove ricorrano le fattispecie predette,
continuano a trovare attuazione le sanzioni previste dall'art. 11
del R.D.L. 19 ottobre 1923, n. 2328 e dall'art. 14 della legge n.
138 del 1958 (disposizione quest'ultima applicabile al solo
personale mobile dei servizi automobilistici di linea extraurbani),
in virtù dell'espresso richiamo effettuato a tali provvedimenti di
legge nell'art. 19, comma 3, dello stesso decreto legislativo. n. 66
del 2003.
18. Lavoro notturno
Gli articoli dall'11 al 15, in materia
di lavoro notturno, riprendono in larga misura il contenuto del
decreto legislativo n. 532 del 1999 con il quale era stata data
attuazione alla delega conferita al Governo dall'art. 17, comma 2
della legge n. 25 del 1999, nonché alla direttiva 93/104.
La normativa di cui ai citati articoli
non si allontana, sostanzialmente, da quella del 1999, ma viene
riordinata e razionalizzata.
Definizione di lavoro e di
lavoratore notturno
Il lavoro notturno è quello prestato in
un periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l'intervallo
tra la mezzanotte e le cinque del mattino.
Quindi il lavoro notturno è quello
svolto tra le 24 e le 7, ovvero tra le 23 e le 6, ovvero tra le 22 e
le 5, indipendentemente dalla eventuale maggiorazione retributiva
prevista dalla contrattazione collettiva.
Il lavoratore notturno è il lavoratore
che svolge, durante il periodo notturno, almeno tre ore del suo
tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale; è, inoltre,
lavoratore notturno anche colui che svolge durante il periodo
notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme
definite dai contratti collettivi di lavoro. Qualora la disciplina
collettiva nulla stabilisca sul punto è considerato lavoratore
notturno qualsiasi lavoratore che svolga, durante il periodo
notturno almeno una parte del suo tempo di lavoro giornaliero, per
un minimo di 80 giorni lavorativi all'anno.
Quest'ultimo criterio di definizione del
lavoratore notturno non va a sovrapporsi con il primo in quanto
prende in considerazione lo svolgimento di una prestazione
lavorativa in parte esercitata durante il periodo notturno, a
prescindere che l'attività in oggetto rientri nell'orario normale di
lavoro. Quindi, deve considerarsi lavoratore notturno anche colui
che non sia impiegato in modo normale durante il periodo notturno ma
che, nell'arco di un anno, svolga almeno 80 giorni di lavoro
notturno. Ad esempio se al lavoratore è richiesto lo svolgimento,
per esigenze contingenti, di prestazioni durante il periodo
notturno, tale prestatore è considerato lavoratore notturno ai fini
della disciplina in oggetto se detto periodo, anche frazionato,
abbia durata di almeno 80 giorni lavorativi nell'arco temporale di
un anno solare.
Ove il limite degli 80 giorni venga
superato in ragione del sopravvenire di eventi eccezionali e
straordinari (gravi incidenti agli impianti o nell'esercizio di
particolari servizi, calamità naturali), non potrà configurarsi la
fattispecie in esame.
Il suddetto limite minimo è
riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale.
Il lavoratore, per poter svolgere
prestazioni di lavoro notturno, deve esserne ritenuto idoneo
mediante accertamento ad opera delle strutture sanitarie pubbliche
competenti o per il tramite del medico competente.
I lavoratori notturni, la cui idoneità
sia già stata verificata ai sensi della legge previgente, non devono
essere sottoposti ad un nuovo accertamento.
Oltre a questa iniziale valutazione che
deve precedere l'esecuzione di prestazioni di lavoro notturno, lo
stato di salute dei lavvoratori notturni deve essere periodicamente
verificato. La periodicità di tali controlli è individuata dal
legislatore in almeno due anni. I controlli potranno essere più
frequenti sia nel caso in cui il medico competente abbia prescritto
una periodicità inferiore sia nel caso in cui siano mutati i rischi
relativi alle lavorazioni cui il lavoratore è addetto.
Tali controlli devono essere effettuati
dalle competenti strutture sanitarie pubbliche, o dal medico
competente di cui all'articolo 17 del decreto legislativo n. 626 del
1994. In ogni caso tali controlli devono avvenire a cura e spese del
datore di lavoro.
Limitazioni al lavoro notturno
L'esecuzione di prestazioni di lavoro
notturno è obbligatoria per i lavoratori idonei fatto salvi i casi
di divieto o di esclusione dall'obbligo di eseguire la prestazione.
È vietato adibire al lavoro dalle 24
alle 6 le donne in gestazione dall'accertamento dello stato di
gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino o,
comunque, dal momento in cui il datore di lavoro ha avuto conoscenza
della fattispecie generatrice del divieto.
Alcuni lavoratori hanno facoltà di non
prestare lavoro notturno dandone comunicazione, in forma scritta, al
datore di lavoro entro 24 ore precedenti al previsto inizio della
prestazione. Il datore ha facoltà di accettare la comunicazione del
rifiuto avvenuta in un termine inferiore rispetto a quello previsto.
L'individuazione dei requisiti dei
lavoratori che determinano l'insorgere della facoltà sono stabiliti
dai contratti collettivi. Il decreto prevede, inoltre, che abbiano
facoltà di rifiutarsi di prestare lavoro notturno:
la lavoratrice subordinata, madre di un
figlio di età inferiore di tre anni o, qualora la stessa non abbia
esercitato la facoltà di rifiutare l'esecuzione di prestazioni di
lavoro notturno, il lavoratore padre convivente che sia anch'esso
lavoratore subordinato; l'unico genitore affidatario e convivente di
un minore di età inferiore a 12 anni; coloro che abbiano a loro
carico un soggetto disabile ai sensi della legge quadro per
l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone
handicappate .
Obblighi di comunicazione
Il datore di lavoro ha l'obbligo di
comunicare per iscritto, annualmente, l'esecuzione di lavoro
notturno continuativo oppure compreso in turni periodici regolari.
La comunicazione deve essere effettuata
ai servizi ispettivi della DPL competente e alle organizzazioni
sindacali titolari del diritto ad essere consultate al fine
dell'introduzione del lavoro notturno.
Se il contratto collettivo applicato in
azienda disciplina in modo specifico l'esecuzione di lavoro notturno
continuativo oppure compreso in turni periodici regolari, non sorge
l'obbligo di comunicazione.
Durata della prestazione
Ai sensi dell'articolo 13 del D.Lgs. n.
66/2003, per tutti i lavoratori notturni, l'orario non può superare
le 8 ore, in media, nell'arco di 24 ore calcolate dal momento di
inizio dell'esecuzione della prestazione lavorativa.
Tale limite costituisce, data la sua
formulazione, un media fra ore lavorate e non lavorate pari ad 1/3
(8/24) che, in mancanza di una esplicita previsione normativa, può
essere applicato su di un periodo di riferimento pari alla settimana
lavorativa – salva l'individuazione da parte dei contratti
collettivi, anche aziendali, di un periodo più ampio sul quale
calcolare detto limite – considerato che il Legislatore ha in più
occasioni adoperato l'arco settimanale quale parametro per la
quantificazione della durata della prestazione (vedi ad esempio gli
articoli 3 e 4 del D.Lgs. n. 66/2003 in materia di orario normale di
lavoro e orario medio).
Per il settore della panificazione
industriale la media su cui calcolare il limite di durata della
prestazione lavorativa è riferito, comunque, alla settimana
lavorativa e, pertanto, la norma si configura quale limite alla
contrattazione collettiva di estendere ulteriormente il periodo di
riferimento sul quale calcolare l'orario di lavoro.
Inoltre, conformemente alla direttiva
93/104/CE, per alcune lavorazioni che comportano rischi particolari
o rilevanti tensioni fisiche o mentali, il limite orario è di otto
ore nel corso di ogni periodo di 24 ore. In questo caso il limite è
fisso e non va considerato come media.
L'individuazione di tali lavorazioni è
rimessa ad un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche
sociali – di concerto col Ministro per la funzione pubblica per
quanto riguarda, in modo non esclusivo, i pubblici dipendenti –
previa consultazione delle organizzazioni sindacali nazionali dei
lavoratori e dei datori di lavoro.
Per le materie di esclusivo interesse
dei pubblici dipendenti il decreto è adottato dal ministro della
funzione pubblica di concerto col Ministro del lavoro e delle
politiche sociali.
La durata massima della settimana
lavorativa non potrà, quindi, superare le 48 ore comprensive delle
ore di straordinario, tenendo presente che queste ultime non
potranno essere superiori, in assenza di determinazioni collettive,
di 250 ore annue.
Nel computo della media su cui calcolare
il limite delle 8 ore non si deve tener conto del periodo di riposo
minimo settimanale quando questo ricade nel periodo di riferimento
stabilito dai contratti collettivi.
Trasferimento al lavoro diurno
Qualora sopraggiungano condizioni di
salute che comportino l'inidoneità alla prestazione di lavoro
notturno il lavoratore può essere trasferito al lavoro diurno.
La sopraggiunta inidoneità deve essere
accertata dalle competenti strutture sanitarie pubbliche o dal
medico competente.
Il decreto dispone che il trasferimento
al lavoro notturno è subordinato alla esistenza e alla disponibilità
di un posto di lavoro la cui esecuzione sia relativa a mansioni
equivalenti a quelle svolte. In mancanza di tali condizioni il
datore di lavoro ha facoltà di risolvere il rapporto di lavoro per
giustificato motivo oggettivo.
Alla contrattazione collettiva è
attribuita la facoltà di definire le modalità di applicazione delle
disposizioni illustrate in materia di trasferimento al lavoro diurno
e di individuare le soluzioni per le ipotesi in cui manchino le
condizioni per l'assegnazione al lavoro diurno del prestatore di
lavoro notturno.
Quindi, mentre il decreto legislativo n.
532 del 1999 stabiliva che il trasferimento al lavoro diurno o ad
altra mansione era automatico, con la nuova disciplina tale
trasferimento è vincolato alla disponibilità in azienda, secondo le
modalità stabilite dalla contrattazione collettiva che potrà
ricercare anche soluzioni alternative in caso di inesistenza di
altro posto di lavoro disponibile.
L'art. 14, comma 1, del decreto
legislativo n. 66 del 2003, come modificato dall'art. 1, comma 1
lett. e), del decreto legislativo n. 213 del 2004, stabilisce che
"la valutazione dello stato di salute dei lavoratori notturni deve
avvenire a cura e a spese del datore di lavoro, o per il tramite
delle competenti strutture sanitarie pubbliche di cui all'articolo
11 o per il tramite del medico competente di cui all'articolo 17 del
decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive modificazioni,
attraverso controlli preventivi e periodici, almeno ogni due anni,
volti a verificare l'assenza di controindicazioni al lavoro notturno
a cui sono adibiti i lavoratori stessi".
Sotto il profilo della quantificazione
della sanzione, applicata con riferimento ad "ogni giorno e per ogni
lavoratore adibito al lavoro notturno oltre i limiti previsti", non
sembra possibile, anche sulla base dell'orientamento
giurisprudenziale prevalente, applicare in tali ipotesi l'articolo
8, comma 1, della legge n. 689 del 1981 che prevede l'istituto del
concorso formale. In tal caso, infatti, si è in presenza di un c.d.
precetto a struttura pluralistica per il quale il legislatore ha
ritenuto opportuno commisurare la sanzione al numero dei lavoratori
ed alle giornate lavorative e l'eventuale applicazione della
l'istituto del concorso formale vanificherebbe in sostanza la
volontà del legislatore stesso.
Per tale violazione trova applicazione
l'istituto della diffida di cui all'art. 13 del decreto legislativo
n. 124 del 2004.
20. Deroghe alla disciplina in
materia di riposo giornaliero, pause, lavoro notturno, durata
massima settimanale.
La norma recepisce una serie di
disposizioni contenute nella direttiva 93/104/CE come modificata
dalla direttiva 2000/34/CE.
Si tratta di una serie di deroghe alle
norme contenute nello stesso decreto legislativo in materia di
riposo giornaliero (art. 7), pause (art. 8), modalità di
organizzazione del lavoro notturno (art. 12), durata del lavoro
notturno (art. 13).
La derogabilità è affidata alla
previsione dei contratti collettivi nazionali (comma 1) ovvero, ove
abilitata da questi ultimi, anche alla contrattazione collettiva di
secondo livello.
In mancanza di contrattazione, ovvero
qualora non risultasse possibile definire alcun accordo, è previsto
che le deroghe possano essere adottate con decreto del Ministero del
lavoro, su richiesta delle OO.SS. nazionali di categoria
comparativamente più rappresentative, ivi compresa la eventuale
previsione di un periodo di riferimento più ampio di un
quadrimestre, ma contenuto nel periodo di sei mesi, ai fini del
calcolo della media della durata massima dell'orario settimanale.
Sempre mediante decreto del Ministero
del lavoro e alle condizioni di cui al comma 2 dell'articolo in
esame, si può derogare alla disciplina del riposo giornaliero nelle
ipotesi di cui alle lettere a) e b) del comma 3.
Infine, sempre nel rispetto dei principi
generali di protezione della salute e della sicurezza dei
lavoratori, viene previsto (comma 5) che gli artt. 3 (orario normale
di lavoro), 4 (durata massima dell'orario di lavoro), 5 (lavoro
straordinario), 7 (riposo giornaliero), 8 (pause), 12 (modalità di
organizzazione del lavoro notturno) e 13 (durata del lavoro
notturno) non trovano applicazione nei confronti dei lavoratori e
delle prestazioni di cui alle lettere a), b), c) e d) del richiamato
comma 5 che, essendo delle esemplificazioni, come lascia intendere
l'espressione "in particolare", non sono ipotesi tassative.
Relativamente alla categoria di
lavoratori di cui alla lettera a) del citato comma 5 (dirigente,
personale direttivo aziendale o di altre persone aventi potere di
decisione autonomo) non può sottacersi – come del resto già fatto
presente con circolare n. 10 del 15/2/2000 – che nell'ampia
formulazione della norma trovano ingresso nuove figure professionali
che, sebbene prive di potere gerarchico, conservano, nel disimpegno
delle loro attribuzioni, ampia possibilità di iniziativa, di
discrezionalità e di determinazione autonoma sul proprio tempo di
lavoro.
Più in generale, si ritiene, poi, che la
deroga al limite delle 48 ore settimanali riguardi anche quelle
attività le cui peculiarità non consentono di predeterminarne la
durata.
Si tratta di attività nelle quali la
professionalità dei lavoratori, dotati di competenze specialistiche,
è condizione essenziale per il funzionamento del servizio, di modo
che l'attività del personale impegnato, talora anche a ragione della
continuità del servizio offerto, reso in alcuni casi anche
all'esterno dell'azienda, si concreta in una serie di interventi che
non consentono la pianificabilità, in termini di tempo, del lavoro
necessario al funzionamento del servizio.
21. I lavoratori a bordo di navi da
pesca marittima
La disciplina dell'orario di lavoro dei
lavoratori imbarcati su navi da pesca marittima è contenuta
nell'articolo 18 del decreto e differisce da quella dei lavoratori
imbarcati su navi da trasporto.
La durata dell'orario di lavoro è di 48
ore settimanali medie calcolate su un periodo di riferimento di un
anno. I contratti collettivi possono stabilire una durata diversa
nei limiti stabiliti dal decreto. In particolare, la prestazione
lavorativa non può essere eseguita per un periodo superiore a 14 ore
nell'arco di 24 ore.
Il periodo di riposo non potrà essere
inferiore a 10 ore nell'arco di 24 ore. Quindi, il lavoratore che
inizia a lavorare alle 08.00 dovrà cessare la sua attività entro le
22.00 del giorno stesso e non potrà riprendere a lavorare prima
delle 08.00 del giorno successivo.
A questi limiti si sommano quelli
settimanali, in forza dei quali non possono essere superate 72 ore
settimanali di lavoro e devono essere godute almeno 77 ore di
riposo.
Le ore di riposo possono essere godute
in modo anche non continuativo ma suddivise in due periodi, in
questo caso uno dei due periodi di riposo non deve essere inferiore
a sei ore e tra un periodo di riposo e l'altro non devono
trascorrere più di 14 ore. Quindi, ad esempio, un lavoratore che
inizia a svolgere la sua prestazione alle 08.00 potrebbe cominciare
a fruire di un periodo di riposo alle 21.00 per 6 ore. Quindi
riprendere a svolgere la restante ora di prestazione dalle 03.00
alle 4.00 e fruire del rimanente periodo di riposo di 4 ore fin alle
08.00.
A questi lavoratori non si applicano le
disposizioni contenute nel decreto per la generalità dei lavoratori
in materia di durata massima dell'orario di lavoro, di riposo
giornaliero, di pause, di riposi settimanali e di lavoro notturno.
La disciplina di questi aspetti dell'organizzazione dell'orario di
lavoro trova la propria fonte nell'autonomia privata.
22. L'orario di lavoro nella P.A.
Il decreto legislativo n. 66/2003 si
applica a tutti i settori di attività, pubblici e privati salve le
eccezioni espressamente previste.
Nello specifico alla disciplina della
durata dell'orario normale di lavoro il decreto legislativo in
questione non cambia nulla rispetto alla legislazione e alla prassi
contrattuale vigente. L'art. 3, che disciplina la materia della
durata normale dell'orario di lavoro, riprende infatti testualmente
l'art. 13 della legge n. 196 del 1997, il quale, a sua volta, dava
attuazione alla intesa del 1997 tra Confindustria e CGIL, CISL, UIL,
in materia di orario di lavoro.
Stante il processo di privatizzazione
del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni Pubbliche, nessun
dubbio sussisteva in merito alla applicabilità dell'art. 13 della
legge n. 196 del 1997 anche ai lavoratori del settore pubblico. Già
oggi vige dunque nel settore pubblico il principio delle 40 ore
settimanali come orario normale di lavoro, fermo restando che –
secondo quanto previsto sia nella legge n. 196 del 1997 sia nel
decreto legislativo n. 66 del 2003 – "i contratti collettivi di
lavoro possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore
…". Questo è quanto avviene già oggi nel settore pubblico.
Inoltre, l'articolo 3, nella parte
relativa alla disciplina dell'orario plurisettimanale, consente alla
contrattazione collettiva di riferire l'orario normale di lavoro
alla durata media delle prestazioni lavorative in riferimento
plurisettimanale. Questa disciplina è già presente nella
contrattazione collettiva del lavoro alle dipendenze della pubblica
amministrazione.
Quindi il decreto legislativo n. 66 del
2003 è destinato a non modificare in modo importante la disciplina
in materia nella P.A. sul presupposto che non sono messe in
discussione le clausole dei contratti collettivi compatibili con la
disciplina comunitaria, quali sono appunto le clausole sulla durata
della prestazione e sulla organizzazione dell'orario di lavoro in
generale.
Merita peraltro puntualizzare che in
materia di deroghe agli articoli 3, 4, 5, 7, 8, 12 e 13, di cui
all'articolo 17, comma 5, tra i lavoratori cui si applicano le
stesse rientrano, a titolo esemplificativo, gli uffici di diretta
collaborazione dei Ministri e quelli di supporto agli organi di
direzione politica degli enti locali, in considerazione della durata
non predeterminata o predeterminabile della prestazione lavorativa
di tale personale.
L'indicazione delle figure necessarie
allo svolgimento di particolari compiti e delle esigenze di servizio
per i quali sia necessario ricorrere alla deroga di cui sopra spetta
all'amministrazione di competenza.
La deroga, comunque, è prevista al fine
di consentire una organizzazione dell'orario di lavoro compatibile
con le primarie esigenze di tutela della salute e sicurezza dei
lavoratori. Pertanto la facoltà di deroga potrà essere esercitata
solo qualora non vi sia altro modo, quindi altra modalità
organizzativa dell'orario di lavoro, per sopperire alle esigenze
indicate. Anche qualora sia esercitata la facoltà di deroga, questa
non potrà costituire un facile espediente per non modificare
l'organizzazione degli orari ma un completamento di essa.
23. Sanzioni
In base al principio di irretroattività
delle leggi che prevedono sanzioni amministrative di cui all'art. 1
della legge n. 689 del 1981, alle violazioni riferite al periodo
antecedente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo
n. 213 del 2004, sarà applicata la sanzione prevista dalla
precedente disciplina, anche se l'accertamento avvenga in data
successiva e anche nel caso di emissione di ordinanza ingiunzione
A tal riguardo è peraltro possibile
citare quanto dettato dalla sentenza della Suprema Corte n. 16699
del 26 novembre 2002, la quale stabilisce che "in materia di
illeciti amministrativi, l'adozione del principio di legalità, di
irretroattività e di divieto di applicazione dell'analogia,
risultante dall'art. 1 della L. n. 689/1981, comporta
l'assoggettamento della condotta considerata alla legge del tempo
del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della
disciplina posteriore più favorevole"; inoltre la medesima pronuncia
chiarisce che la nuova disciplina non opera "limitatamente ai
rapporti non esauriti, per essere ancora in corso i relativi
procedimenti, né in relazione alle violazioni commesse
precedentemente, ma per le quali l'ordinanza ingiunzione è stata
emessa dopo l'entrata in vigore della legge, atteso che l'ordinanza
ingiunzione non è esercizio di un potere e provvedimento
amministrativo costitutivo, ma atto puramente esecutivo, preordinato
soltanto alla riscossione di un credito già sorto per effetto della
violazione commessa".
Per quanto riguarda le sanzioni di
carattere penale si applicano i principi in materia.
24. Abrogazioni
Le disposizioni di legge e di
regolamento in materia di orario di lavoro sono abrogate salve
quelle espressamente richiamate dal decreto legislativo n. 66 del
2003. In particolare è da ritenersi abrogato l'art. 12 del Rd 10
settembre 1923, n. 1955, relativo all'obbligo di esporre in luogo
accessibile a tutti i lavoratori, l'orario di lavoro, e l Decreto
ministeriale 3 agosto 1999, pubblicato sulla G.U. del 10 agosto
1999, n. 186, perché emanato in attuazione dell'art. 1, comma 2 bis,
della legge n. 409 del 1998, oramai abrogata.
Roberto MARONI