Ottobre/2001 - 1981-2001

Un raro privilegio

 

di Giuseppe Battista

 

Rispondo con molto piacere alla lettera con la quale mi sollecitate la mia personale memoria su fatti che sembrano lontani ma che in realtà sono vivi sotto i nostri occhi.
Sono combattuto se scrivere tutti i pensieri, che in questo momento si affollano nella mia mente, oppure rispettare il vostro velato invito a scrivere in modo moderato.
I fatti, i personaggi, i luoghi e i colleghi, parte attiva di quel passato, che con il mio e loro contributo sono stati i protagonisti di un periodo che, senza retorica, possiamo definire “storico” per il Corpo in cui noi operavamo.
L’analisi, anche se stringata, deve iniziare dal clima politico che si respirava al tempo del nostro impegno.
Le nostre iniziative maturavano, in Bergamo e provincia, in un’epoca poco promettente per lo scrivente e per i colleghi, in quanto avere una divisa con le stellette rappresentava un rischio di carcere militare; lottare per avere un Corpo di Polizia più umano, con un rapporto diverso con la popolazione, rappresentava, per quel periodo, una provocazione da “comunisti”.
Le proposte formulate ai tempi, (smilitarizzazione e sindacalizzazione del Corpo di Polizia) trovarono un clima politico aperto ad una soluzione, in quanto nel governo dell’epoca, vi era un equilibrio politico che fu benefico; la maggioranza e l’opposizione erano forze talmente bilanciate che ognuna di esse, contava su una copiosa raccolta di voti nelle file della Polizia: fu così che i deputati dell’allora governo Dc e i deputati dell’opposizione di sinistra consentirono l’approvazione della legge che rappresentò, per noi tutti, la prima vittoria ed il primo passo per il riconoscimento, nella forma più ampia, della “persona” che indossava la divisa.
Ma prima di questa data, alcuni coraggiosi agenti e sottufficiali si incontravano di nascosto per formulare e propagandare le nuove idee per la “libertà dei poliziotti”; tanti sacrifici i più pesanti furono fatti da Franco Fedeli, che io ricordo con particolare affetto, quando a Bergamo con poca possibilità finanziaria, fu alloggiato alla “cooperativa Rosa Luxemburg”, mangiando panini per pranzo e per cena: io ero costretto a frequentare le riunioni di nascosto dai miei colleghi e superiori; tempi molto duri per chi voleva impegnarsi socialmente rischiando tutto, anche la propria famiglia.
Altamente appagante fu un memorabile documento diffuso con il soprannome “Carboneria della Polizia”; che io custodisco gelosamente. Anche in questa occasione vorrei ricordare il nome di Franco Fedeli grande trascinatore e combattente della nostra causa.
È motivo di particolare soddisfazione vedere che la piccola pianta nata dalle nostre rivendicazioni si sia trasformata in un magnifico albero che continua a dare buoni frutti per tutti i nostri colleghi in servizio.
Per chi ha lottato per un bene comune, poter scrivere questa breve nota, sulla storia che ha cambiato il Corpo di Polizia, è un raro privilegio.
Un caro saluto dal “carbonaro”

 
Ottobre/2001 - 1981-2001

Ciò che il Movimento sognava

 

di Orlando Botti

 

Venti anni sono passati dal varo della Riforma della Polizia. Molti anni di un percorso pregno di aspettative, di democrazia, di rispetto, di ideali e di diritti da conseguire. Non è facile ripercorrerli cercando di evitare facile retorica. Si deve sottolineare che l’anima del “Movimento” dei carbonari non è risultata vincente. Non vi è nulla di nuovo in ciò perché la storia è sempre presente a ricordare che chi rischia di più non ha quasi mai riconosciuti i propri atti e le cosiddette “seconde file” sono pronte a sfruttare la situazione per poi prendere possesso della rivoluzione. Peccato. Io sono convinto, che se al posto di qualche teorico della “linea morbida” ci fossero stati in Segreteria nazionale del Siulp, un Riccardo Ambrosini o un Armando Fontana, il verso della nostra storia sarebbe cambiato in maniera sostanziale.
Anche la sinistra non aveva compreso che non è sempre oro quello che luccica negli alti gradi, ma spesso c’è nella bassa manovalanza operaia che anche nel postriforma è stata quasi sempre dimenticata. Dai famosi “punti di Empoli”, dai sogni dei carbonari, era nata una nuova Polizia da concretarsi con idee pregne di diritto e di democrazia. Purtroppo alcuni… incidenti di percorso hanno minato questo terreno fertile di democrazia che aveva come base le parole “giustizia” e “diritto”.
Le svolte “arrangiate” dopo i gravissimi fatti delle torture perpetrate in danno dei terroristi accusati del sequestro Dozier e la morte in un ufficio della Polizia di Palermo del fermato Marino, hanno creato fratture nel rapporto tra poliziotti e diritto. Le scelte di facciata, hanno consentito una chiusura di quella struttura che invece doveva autoeliminare i germi antidemocratici. Chi doveva concretare siffatti metodi di elementare giustizia preferì gettare a mare il capitano Riccardo Ambrosini e l’agente Trifirò nel ricordato “caso Dozier”. Ci ha traditi anche il fascino del superiore e certamente il sindacato poteva avere ben altri assetti; se si fosse scelta la politica di appartenenza sino al grado di maresciallo, forse il sindacato avrebbe contato di più. Alcune strategie non fatte osservare e poi subìte, hanno complicato notevolmente l’organicità interna poi sfociata in diatribe interminabili.
Ecco alcuni punti irrisolti.
- Carriere: le professionalità da acquisire specialmente nell’attività di Polizia giudiziaria con il passaggio da agente di Pg a ufficiale di Pg sono state calpestate frenando un processo di incredibile portata culturale. Penso alle lotte per la qualifica di Ispettore che passano in secondo piano se le confrontiamo con la linea “leggera” della Segreteria nazionale che ha tollerato vergognosamente che mentre i vincitori di concorso in alcune specialità si prendevano giustamente le proprie responsabilità nel campo dettato dalla legge e cioè soltanto nel campo della Polizia giudiziaria, altre, tranquillamente gozzovigliavano negli spacci di Polizia distribuendo caffè e cornetti.
- Trasferimenti: per anni, evitando un album nazionale con punteggi acquisiti si è data la possibilità alla raccomandazione di regnare sovrana, alla faccia di chi aveva, dopo molti anni, diritto alla sede auspicata.
- Straordinario: il dio denaro l’ha fatta sempre da padrone e anche in questo caso ritardi incredibili hanno fatto esplodere lotte fratricide tra i poliziotti. Eppure la parola stessa era facile da rispettare ma se i dirigenti, non pagando di tasca loro, favorivano equilibri interni agli uffici da loro diretti, qualcuno ne avrà pure la responsabilità. Un esempio: mentre frequentavo il corso da Ispettore a Nettuno, ogni giorno scambiavamo idee sulle nostre attività di Pg. Un collega di una città del Nord, a proposito del monte ore massimo, tranquillamente diceva: “ma voi vi preoccupate delle ore… Io ogni mese ho l’autorizzazione del mio dirigente a fruire di 60 ore di straordinario fisso” Si capisce bene che questa discrezionalità, mai contrattata con il sindacato, ha creato situazioni di scontro. Queste cose, sempre segnalate a livello di riunioni sindacali nazionali, non hanno mai avuto un seguito.
- Sale Operative comuni: benché il dettato della legge 121/81 obbligasse le forze politiche e le autorità di Polizia delle tre Forze a coniugare le proprie potenzialità operative, a distanza di 20 anni c’è soltanto la “virtualità” come risultato e nessuna sala operativa comune è operante neppure nelle città più importanti.
- Questione morale: anche in questo campo vi sono delle isole discrezionali troppo comode. Chi non si è comportato come la legge indicava è ancora al suo posto e, cosa ancora più grave, non è stato neanche spostato d’ufficio. Sarebbe bastata la voglia di fare una pulizia etica. Chi non si comportava come da prassi doveva essere cacciato e sostituito da altra persona più degna. O addirittura espulso dal Corpo.
- Questori: nodo cruciale della Riforma. Noi volevamo al posto dei soliti abbonati alla burocrazia stanziale, nuovi funzionari che potessero dare prova di nuove professionalità volte a creare sinergie operative e organizzative. Non è stato così se non in pochissimi casi. Ne cito due: Francesco Forleo. Se un questore come Forleo, ex segretario del Siulp, ex deputato della Repubblica, è incappato in un incidente di percorso sulle soglie dei gradini della promozione a Capo della Polizia, (che sarà chiarito dalla magistratura, unica a dare risposta) dicevo, se una persona come Forleo, non ha saputo coniugare le nostre nuove speranze, cosa ci possiamo aspettare da un questore che sta due anni in una sede poi viene spostato?
Francesco Minerva, è il secondo caso. Ad Imperia si è fatto notare soltanto come fotocopia dei suoi predecessori cioè incolore e non innovativo. Tutto questo sta a significare che aveva ragione il Gattopardo con il suo “occorre che qualche cosa cambi perché tutto resti come prima”. Certo ne è passato del tempo dal sogno del poliziotto di quartiere all’inglese che doveva essere l’asse centrale del rapporto cittadino-poliziotto. Il coordinamento delle Forze di polizia è ancora fermo agli interessi di casta. Le scuole di Polizia non hanno fatto quel salto di qualità così tanto agognato. La tecnologia avanzata e i mezzi più consoni ad una Polizia più sviluppata sono ancora lungi dal venire. Se poi pensiamo alle tante sigle sindacali che hanno proliferato con pochi iscritti, questo fatto ha ancora più complicato la vita alle già dure trattative ministeriali per la semplice ragione che forse quei piccoli sindacati vivono e rendono soltanto per fini di carriere preferenziali.
Noi del Movimento sognavamo una unione di intenti pur nella libertà del proprio pensiero ed eravamo per la pluralità sindacale ma arrivare ad una ventina di sindacati… Questo però era il sogno dell’Amministrazione che dividendo impera. Sulla diatriba Siulp-Silp che, di fatto, ha interrotto la strada iniziata molti anni fa, non intendo intervenire: si era cementata l’unitarietà ma con questa scelta si è rotto un ideale costruito con somma fatica.
Alla fine di questa mia riflessione voglio ricordare alcuni compagni di cordata che non sono più tra noi perché il destino li ha colpiti. Mi riferisco a Riccardo Ambrosini con il quale ho vissuto attimi di riflessioni democratiche inarrivabili e che per la sua coerenza estrema è stato colpito ed emarginato da chi non valeva neppure una sua pagina scritta.
Angelo Giacobelli, pioniere della democrazia nella scuola di Nettuno.
Gianni Trifirò, che ha pagato il suo credere nella democrazia: durante un inseguimento di un reo ne aveva provocato la morte incidentalmente. In un breve volgere aveva visto crollare la sua casa ideale. Non poteva sopportare quell’errore fatale e si sparò immediatamente dopo il fatto. A questo collega va il mio pensiero affettuoso.
Logicamente dentro il mio cuore sono nascoste tante soddisfazioni per gli eventi storici che non scorderò mai, dalle riunioni carbonare sul molo di Imperia, agli incontri con i maestri del Movimento. Le bandiere e le parole nelle tante manifestazioni, sono sempre lì a ricordarmi il percorso comunque raggiunto. Non posso fare a meno di ricordare l’opera di Franco Fedeli che è stato l’artefice, il regista del sindacato di Polizia. Abbiamo fatto assieme decine e decine di assemblee e manifestazioni e durante una di queste, precisamente ad Aosta, ambedue molto amareggiati e pessimisti sulla situazione sindacale in atto (era il 1986) prendevamo atto che molto era stato fatto ma purtroppo moltissimo restava ancora da fare.

 
Ottobre/2001 - 1981-2001

I giochi di potere

 

di Gianclaudio Vianzone

 

La ricorrenza di un fatto importante quale fu l’avvento della legge 121/81, chiederebbe un riscontro gioioso, cosa che non è proprio possibile in un Paese che in questi venti anni ha visto intersecarsi diversi fattori - alcuni colposi, altri sicuramente dolosi - tutti mirati alla destrutturazione di quella legge e di ciò che nei contenuti ideali rappresentava. Una Riforma che portava altresì una sindacalizzazione di una categoria tanto delicata per lo Stato, quale è quella dei poliziotti, non poteva che essere osteggiata in un’Italia fondamentalmente conservatrice e legata a revanscismi militaristici più puntati al formalismo dei lustrini e delle sciabole che non al maturamento di un valido apparato investigativo.
Le ultime visibili pressioni per smantellare le Specialità della Polizia di Stato, per dequalificare i ruoli tecnici, per incentivare la diaspora dei funzionari verso altre Amministrazioni ed ancora l’incremento contrattuale eccessivamente spostato sulle indennità connesse a servizi di prevenzione del territorio e di ordine pubblico, tutto si mostra propedeutico ad una ridefinizione della Polizia di Stato che, anziché valorizzarne le dimostrate capacità, cerca di farle scomparire.
Una scomparsa che trova ampio conforto in coloro che da sempre ritengono più affidabile l’Arma dei Carabinieri, soprattutto perché a status militare e non sindacalizzata. Ma ben noto è il fatto che i giochi di potere si programmino nelle stanze dei Comandi e non fra coloro che quotidianamente garantiscono sicurezza ai cittadini lavorando gomito a gomito sulle questioni del vivere comune.
Pertanto, su quesiti del tipo: “ma quando l’Italia attuerà i criteri di Schengen in merito alla smilitarizzazione di tutti i Corpi di Polizia?” Oppure: “ perché non si adotta il programma del partito della Rifondazione Comunista che propone di unificare i Corpi e le risorse?” Si poggia la domanda più significativa: “Chi e perché, ha interesse che la situazione anomala dell’Italia perduri in questi termini relativamente a tale settore?”
Possibile che si debba necessariamente pensare di adattare sulla devolution il concetto della sicurezza, appiattito ai modelli americani? E perché, anche se quello fosse un passaggio obbligato, comunque lo si vuole rendere antagonistico fra le due maggiori forze di Polizia e non si prevede invece appunto di unificarne i settori identici?
Con tanti dubbi del genere, si può comprendere come la ricorrenza di una legge che veramente faceva in origine pensare ad una progressiva maturazione democratica dei Corpi di Polizia, di fatto si sia trasformata in un dramma.
Udire senatori della Repubblica, come il leghista Speroni, affermare che la regionalizzazione della Polizia di Stato è una cosa che si decide in Parlamento ed anche se non piace ai più di centomila lavoratori della Ps deve essere comunque accettato, fa capire come il valore della parola democrazia, sia probabilmente molto diversamente interpretabile a seconda che il potere lo si gestisca o lo si subisca.
Non è credibile il modello che si vuole imporre, ma se veramente chi governa il Paese vuole dare un servizio alla collettività, sfuggendo ai perversi giochi del potere autarchico, faccia propri i programmi - condivisibili per i contenuti da chiunque abbia una coscienza democratica - del partito della Rifondazione Comunista.
Forse così, con una Riforma unificante e che magari del modello americano prenda i criteri gerarchici, probabilmente si potrebbe veramente festeggiarne poi la ricorrenza.

 
Ottobre/2001 - 1981-2001

Grazie babbo per quello che mi hai insegnato

 

di Paolo Rossi

 

Vorrei ricordare (oggi che non c’è più) la figura e l’opera di mio padre Angelo Rossi per quanto attiene il suo impegno a favore della Riforma della Polizia. Nei numeri precedenti di “Polizia e Democrazia” ho visto tanti messaggi delle persone che hanno lottato nel Movimento e per questo spero che anche queste mie righe possano essere ospitate nelle vostre pagine.
Quello che mi torna subito alla mente è la tenacia, la forza, il tempo e la volontà che mio padre e tanti altri suoi colleghi hanno profuso per realizzare una vera Riforma della Polizia. Penso che la generazione di mio padre sia stata una delle ultime che abbia saputo esprimere valori morali e spiccato senso civico.
Anche dopo essere andato in pensione, l’impegno ideale di mio padre non è mai cessato, anche se si indirizzava ai colleghi rimasti in servizio: s’impegnava perché proprio loro avessero un futuro diverso e migliore.
Ricordo la sua amicizia con Franco Fedeli (da mio padre sempre stimato) e con tanti altri che profusero il loro impegno nel Movimento quando altri, magari, vedevano come unico valore il “dio denaro”. Ho trentanove anni e ovviamente sono della presente generazione, ma sono combattuto tutte quelle volte che, magari senza accorgermene, agisco solo in funzione egoistica... Ma poi ecco che mi torna in mente mio padre, lui che faceva tanto senza mai chiedere nulla in cambio. Lo faceva per la soddisfazione che provava nel mettersi al servizio degli altri e per la convinzione di vivere secondo i propri ideali e non secondo le opportunità del momento.
Negli anni Settanta ho visto che l’uomo in divisa non sempre era apprezzato: ma quando qualcuno, per i più diversi motivi, lo avvicinavano rimaneva meravigliato nel constatare che sotto quella divisa c’era una persona gentile, sempre pronta ad ascoltare ed, eventualmente, intervenire. Erano tempi, quelli, in cui io vivevo nell’assoluto “rispetto degli altri” mentre oggi, questo “rispetto” mi sembra difficile praticarlo. Una volta (ero un bambino) tornai a casa con della frutta... sottratta ad un contadino; la mostrai a mio padre, rallegrandomi con lui per quella... “conquista”. Lui certo non mi picchiò, ma bastarono poche parole per farmi capire la gravità di quel mio gesto. In fondo, questa era la sua filosofia: il dialogo, sopra ogni cosa.
Negli ultimi anni, ormai in pensione, continuava a scrivere per questa rivista analizzando la sua visione della rinnovata Polizia italiana. Qualche volta lo sentivo rammaricarsi perché non si riconosceva più in certi comportamenti: non sopportava l’immagine del “poliziotto-sceriffo” (questo era il termine da lui usato per indicare certi atteggiamenti degli uomini in divisa). Quella divisa che lui tanto aveva amato e perciò rispettata, non doveva essere insudiciata con atteggiamenti o comportamenti sbagliati.
Queste ultime considerazioni di mio padre, io le condivido pienamente e vogliono essere un invito ai tanti giovani poliziotti di oggi: non servitevi della vostra divisa per ottenere “qualche cosa”; essa deve essere un simbolo attraverso il quale il cittadino deve riconoscere un uomo che pratica la lealtà, produce sicurezza, offre protezione.
Vorrei chiudere questo mio scritto ringraziando mio padre, perché è stato un uomo che ha fatto dell’onestà, dell’altruismo, del senso del dovere la sua vera ragione di vita.
Grazie, babbo, per tutto ciò che mi hai insegnato, per come mi hai preparato ad affrontare la vita e soprattutto per l’esempio che mi hai dato. Oggi mi sento un uomo equilibrato, sereno che cerca di vivere secondo i tuoi insegnamenti. Questo ritengo sia il patrimonio più prezioso che un genitore può lasciare ad un figlio.
Grazie amici di “Polizia e Democrazia” per questo spazio che mi avete concesso. Un grazie anche da mia mamma Anna Maria Lombardi e da mio fratello Marcello.