Il primo aprile, per quelli della mia
generazione, ricorda l’arruolamento periodico che avveniva nel disciolto
Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza e quindi, oltre a rammentare la
gioventù, tale data rappresenta anche un giorno epocale allorquando il 1
aprile del 1981 si raggiunse il traguardo della completa democratizzazione
della Polizia restituendo alla collettività un’istituzione più vicina alle
istanze dei cittadini.
Da quel mio 1° aprile sono trascorsi quasi
trent’anni mentre dal secondo si è appena girata la boa dei vent’anni, e
quindi credo sia d’obbligo fornire un tracciato di quanto è stato fatto
dall’allora “Movimento unitario dei poliziotti democratici” agli attuali
24 sindacati esistenti.
La nascita di tutti questi sindacati sta a
significare che non tutto ha funzionato per il giusto verso.
Queste divisioni e diaspore a chi sono
servite? Chi le ha orchestrate? Che interesse avevano coloro che le hanno
condotte in porto? È stato fatto solo per opinioni divergenti all’interno
delle varie sigle nate di volta in volta, oppure c’è stato sempre qualcuno
o qualcosa dietro ad ogni defezione?
Come vediamo, 20 anni sembrano trascorsi
inutilmente in quanto ci troviamo sempre a combattere contro i muri di
gomma e i “grandi vecchi”!
La natura del sospetto è insita in me,
avendo già vissuto la stagione dell’ostracismo da parte dei poteri forti
sull’allora nascente legge di Riforma della Polizia.
La legge 121/81 tra tutte le leggi varate
dal Parlamento, fu definita “epocale” sia per i contenuti sia per le
innovazioni che avrebbe dovuto apportare per una maggiore sicurezza della
collettività e di coordinamento tra le Forze dell’ordine.
Ancora prima di essere approvata, dietro le
quinte c’era già chi remava contro, preferendo una Polizia militarizzata
alla pari dei Carabinieri perché, ieri come oggi, c’è più di qualcuno che
è convinto che l’essere militare sia sinonimo di fedeltà e di cieca
ubbidienza!
In questi vent’anni i tentativi di
smantellare l’impianto della legge 121/81 si sono susseguiti all’ordine
del giorno, e guarda caso dove la destra ha sempre fallito c’è riuscito un
governo di centro sinistra approvando la legge 78/2000, affossando di
fatto l’impianto originale della legge 121/81 che prevedeva un
coordinamento reale nella nazione dalle tante Polizie!
La legge di Riforma della Polizia si incuneò
verso il traguardo finale in un esatto periodo storico, che vide il calar
della cosiddetta fase del “tintinnar di sciabole” e la nascita contestuale
del piano di rinascita nazionale che aveva già posto gli uomini giusti nei
gangli vitali della cosiddetta prima Repubblica.
Mentre nel Corpo delle Guardie di Pubblica
Sicurezza si lottava per organizzare il “Movimento democratico dei
poliziotti” tendente a democratizzare e smilitarizzare la Polizia
parallelamente, nel 1966, due uomini come Freda e Ventura inviavano
lettere anonime a 2000 militari, senza che i vertici militari né quelli
politici obiettassero, annunciando la creazione di una struttura
clandestina denominata “nuclei difesa dello Stato” costituita “in seno
alle Forze armate” e da “militari di grande prestigio e autentica fedeltà”
con il compito “di stroncare l’infezione prima che essa divenga mortale”
partecipando a “una lotta vittoriosa contro la sovversione”.
Ecco forse una risposta all’ostracismo per
il varo della legge di Riforma della Pubblica Sicurezza e la continua
diffidenza verso una futura Polizia civile e anche la spiegazione per cui
molti poliziotti della prima ora vennero definiti “inaffidabili” e
“sovversivi” dall’allora gerarchia militare e oserei dire sino ad oggi
benché le stellette siano scomparse dai nostri baveri.
Forse è vero, o forse no, che rispetto a
vent’anni fa ci sia più libertà di espressione e di parola, ma per quanto
mi consta vedo notevoli passi indietro con una paurosa involuzione e una
tremenda gerarchizzazione degli apparati tendente alla rimilitarizzazione
latente della Polizia.
Si potrebbe continuare a lungo su questa
analisi ma alla fine non vorrei che da ciò si traesse una chiave di
lettura tutta negativa di ciò che è stata la legge 121/81 e trarne
consequenzialmente un necrologio.
Quindi vorrei concludere con alcuni spunti
dell’intervento fatto da Riccardo Ambrosini in occasione del II° Congresso
Nazionale del Siulp del 1987 , che furono valutati con molta sufficienza
da chi era intento solo a salire i gradini della scalata alla somma vetta
non curandosi, ieri come oggi, della categoria che avrebbero dovuto
rappresentare.
Dal momento che li ritengo ancora validi li
ripropongo come spunto di riflessione per le giovani leve invitandole a
meditare e a rivedere la nostra storia al fine di non concedere mai
deleghe in bianco a chicchessia: “Dobbiamo camminare sulla via maestra
della costruzione dal basso di un sindacato capace di esprimere le sue
scelte; il sindacato si trova in una situazione pericolosa di stallo
politico e ideale, foriera di sconfitte politiche e tracolli
organizzativi; quattro punti sui quali si dovrebbe operare urgentemente e
contemporaneamente per bloccare ed invertire questa tendenza negativa;
individuazione di riferimenti ideali e dei passaggi pratici per
realizzarli; la piena applicazione della democrazia nel sindacato; la
ridefinizione dei rapporti con i sindacati confederali; il cambiamento del
gruppo dirigente del Siulp. Più libertà vuol dire più stato! Errore
gravissimo, compagni ed amici di Cgil-Cisl-Uil, è stato quello che ha
consentito che il movimento operaio fosse scacciato dalla sua centralità e
costretto all’angolo della pura difesa economico-sociale, errore fatale
non certo solo vostro ma anche vostro, che ha fatto subire alla classe
operaia italiana la più grave sconfitta dopo quella degli anni 20.
Oggi la riforma è saldamente nelle mani
dell’Amministrazione, e il Siulp oscilla tra l’accomodamento e la puntata
di piedi talvolta velleitaria; fino ad oggi la filosofia della riforma
imposta dall’Amministrazione non ha incontrato seri ostacoli, perché anche
il Siulp, di fatto, l’ha condivisa. Il sindacato ha contestato singole
iniziative, agendo sempre di rimessa, sempre in modo subalterno.
L’attuale gruppo dirigente del nostro
sindacato, al di là delle singole persone che lo compongono, si è rivelato
complessivamente incapace di tenere una gestione ‘alta’, strategica,
dinamica del sindacato, ha assimilato la parte peggiore della cultura
politica del sindacalismo confederale, ha mantenuto un atteggiamento al
tempo stesso subalterno e velleitario nei confronti dell’Amministrazione,
ha insomma in larga parte sprecato e dissipato le energie del Movimento.
Se si vuole potere perché dividerlo con gli
altri? Perché non averlo tutto portando dalla propria parte coloro che si
oppongono? Perché per convincere gli altri che non fanno parte della
‘parrocchia’ bisogna mettersi in gioco, avere idee, e le idee non nascono
dal cervello di Giove, ma dal confronto pieno e concreto con le cose!
Questa crisi sta conducendo alla
frantumazione dei soggetti sociali, alla atomizzazione delle spinte e,
perciò, allo stallo politico, ed è la premessa del caos e della svolta
autoritaria.
È più comodo certo agire secondo copioni
prestabiliti, senza imprevisti e sorprese, ma se continuiamo su questa
strada, quello che non paghiamo in termini di fatica e di rischio, giorno
dopo giorno, lo pagheremo tutto insieme, con gli interessi, prima o poi”
Ben sappiamo che ogni stagione produce i
suoi frutti, e per certi aspetti la legge 121/81 non è null’altro che un
frutto di una determinata stagione che allo stato attuale sta
attraversando il suo periodo autunnale con la perdita di foglie qua e là e
si sta, forse, avvicinando anche al momento invernale, ma non sarà oggi, e
forse neanche domani, ma prima o poi arriverà la primavera.
La natura con tutte le sue manifestazioni è
ciclica e chi ha gioito durante i periodi autunnali ed invernali sappia
che prima o poi una nuova primavera esploderà con tutta la sua
magnificenza di colori, di germogli, di profumi ed il risveglio di tutto
il creato. È solo una questione di tempo ma la nuova primavera arriverà!
_____________-
VENTENNALE |
Valter Vecellio: Quell'incontro
del maggio 1977 |
|
Il primo incontro con Franco Fedeli lo
devo ad uno scontro, una polemica. Franco da qualche mese aveva
abbandonato Ordine Pubblico, per non dover sottostare ad imposizioni
dell’editore che riteneva, non a torto, inaccettabili, e aveva dato
vita ad una nuova rivista, Nuova Polizia e Riforma dello Stato. Con
lui, perché c’era lui, erano andati tutti i redattori e i
collaboratori di Ordine Pubblico. La storia si ripeterà quando, anni
dopo, la convivenza con l’editore di Nuova Polizia risulterà
impossibile, e Franco si getterà in una nuova avventura editoriale,
quella da cui poi è nata Polizia e Democrazia. E già questi due
episodi la dicono lunga sul personaggio e sulle sue qualità e
capacità.
L’incontro-scontro è legato al 12 maggio
del 1977, una di quelle giornate il cui ricordo mi seguirà sempre. Era
l’anniversario della grande vittoria dei “Si” al referendum sul
divorzio, voluto dal Vaticano, dalla Dc di Amintore Fanfani e dai
neofascisti di Giorgio Almirante. Il Partito Radicale inoltre stava
raccogliendo le firme per altri referendum, con i quali si chiedeva
tra l’altro di abrogare le norme fasciste allora contenute nel Codice
penale, i Tribunali e i Codici militari. L’allora ministro
dell’Interno Francesco Cossiga aveva pretestuosamente vietato, per
motivi di ordine pubblico, tutte le manifestazioni, per un mese. Anche
il concerto del 12 maggio a piazza Navona, per festeggiare la vittoria
divorzista e raccogliere le firme per i referendum. Un divieto
ingiusto, e i radicali annunciarono che avrebbero pubblicamente
disobbedito.
Reparti di Carabinieri e Polizia furono
mobilitati per impedire che si potesse accedere a piazza Navona. Ci
furono violente cariche, aggressioni, fermi, arresti. Ricordo come
fosse oggi il vice questore in borghese del primo distretto che mi
massacrò di cazzotti, e poi mi fece rinchiudere in cella di sicurezza
per ore. Al processo che ne seguì, il Tribunale riconobbe le mie buone
ragioni, e non vi fu alcun seguito. Si era molto risentito, quel vice
questore, per un epiteto che mi era uscito di bocca, dopo che a freddo
mi aveva dato un pugno allo stomaco (come neppure Mike Tyson), che mi
aveva letteralmente piegato in due. E quello fu il meno. Dalle tre del
pomeriggio fino alle sei il centro storico di Roma, da piazza Navona
fino a Trastevere, divenne terreno di battaglia. C’erano squadre di
agenti di Polizia in borghese, travestiti da autonomi, che si
incaricavano di provocare i manifestanti; in alcuni casi si sparò,
anche ad altezza d’uomo. È tutto documentato, scritto, provato; in un
libro bianco sono state raccolte decine di fotografie e di
testimonianze di parlamentari e giornalisti del Messaggero, del
Corriere della Sera, della Repubblica. Qualcuno quel pomeriggio
cercava il morto; e alla fine il morto ci fu: una ragazza, Giorgiana
Masi, colpita all’altezza del Ponte Garibaldi, stava andando al
concerto con il suo fidanzato. Di quello solo era colpevole. Un’altra
ragazza, Elena Ascione, fu ferita gravemente.
In televisione Marco Pannella denunciò
l’accaduto, la provocazione, la sua regia, i “mandanti”. Usò parole di
fuoco, come solo Pannella sa usare. Parlò, tra l’altro, di agenti di
Polizia “travestiti da lupi, che qualcuno voleva fossero lupi”.
Su Nuova Polizia di giugno apparve una
breve nota. Le accuse di Pannella erano definite “infami e
generalizzate”, il leader radicale “abbaia una farsa d’avanguardia neo
qualunquistica”. Non so se quella nota la scrisse di suo pugno Franco
o qualche collaboratore della rivista. So che mi fece male leggere
quelle cose: io quel pomeriggio avevo visto com’erano andate le cose;
ero stato massacrato di botte, denunciato; non avevo neppure fatto il
gesto di alzare un dito, eppure mi avevano strappato i vestiti,
picchiato, sputato in viso…
Scrissi una nota molto lunga e molto
dura, contestando punto per punto i giudizi dati. Franco non batté
ciglio; la pubblicò nel numero successivo, accompagnando alla mia, una
nota redazionale, in cui si ribadiva con minore durezza nei toni, ma
eguale fermezza nei contenuti, la posizione assunta.
Qualche giorno dopo Franco mi telefonò,
voleva conoscermi; concordammo un appuntamento; mi invitò a
collaborare alla rivista. Accettai perplesso. Cosa mai potevo
scrivere, io che da quel mondo ero lontano, non avevo mai indossato
una divisa in vita mia? Non era presuntuoso e velleitario da parte
mia? “Vedrai che gli argomenti non ti mancheranno”, rispose Franco
sorridendo. Aveva ragione lui. Gli argomenti non mancavano, e potei
trattarli in piena libertà come raramente accade in altri giornali.
È stata un’esperienza preziosa. Anni
dopo Franco decise di raccogliere in volume parte delle lettere che da
ogni parte d’Italia gli giungevano; Da sbirro a tutore della legge è
il titolo di quel libro, che racconta l’emarginazione, i problemi
personali, le tensioni e i pericoli di un mestiere difficile come
quello del poliziotto. La prefazione è di Leonardo Sciascia: “Per
quanto possa sembrare paradossale, sono stati i buoni cittadini a fare
le cattive Polizie, più o meno consapevolmente operando come Bernard
Shaw diceva facessero i bianchi nei confronti dei negri: prima li
costringono a fare i lustrascarpe, poi dicono che sono soltanto capaci
di fare i lustrascarpe. Prima i buoni cittadini li hanno fatti
poliziotti in un dato modo, poi li hanno considerati incapaci di
essere poliziotti in un modo diverso”.
Ecco: Franco non era, da questo punto di
vista, un “buon cittadino”; lui sapeva perfettamente che i poliziotti
qualcuno li voleva fatti in un certo modo, ma a lui quel “certo modo”
non piaceva. E sapeva che potevano essere capaci di esserlo anche in
un modo diverso. E oggi si può dire che molti lo sono, poliziotti in
“modo diverso”; e provo amarezza: perché troppi mostrano di aver
dimenticato l’impegno di Franco, e che a lui siamo un po’ tutti
debitori.
“Tra le tante cose nostre di cui abbiamo
poco o nulla da rallegrarci”, scriveva Sciascia, “questa è una delle
poche che ci dà una certa fiducia nell’avvenire: che dalla scorza
dello sbirro - di quello che i buoni cittadini chiamano lo sbirro -
stia per venir fuori il tutore della legge, della legge che è uguale
per tutti, della legge che a tutti garantisce libertà e giustizia”.
Se è così - e io credo che sia così -
buona parte del merito va a Franco. Di cui sono onorato d’essere stato
collaboratore e amico. E le parole riescono a esprimere solo in minima
parte il sentimento di gratitudine che ho per una persona cui tanti,
tanto devono. |
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VENTENNALE |
Massimo Buggea: fronte
sindacale disgregato |
|
Il ventesimo compleanno della legge
121 lascia ancora insolute molte questioni, sia di carattere storico
che socio-politico.
Un primo interrogativo si pone ancor
prima della Riforma della Polizia e consiste nel chiedersi come mai
un’istituzione tipicamente civile sia stata mantenuta per lungo
tempo sotto l’organizzazione militare.
Non appare sufficiente considerare
unicamente le difficoltà della società italiana del secondo
dopoguerra, anche se hanno influito in modo diretto su alcune
scelte. Similmente non sembra sostenibile la teoria di chi
giustifica la militarizzazione delle Forze di polizia con la loro
scarsa affidabilità politica; secondo i fautori di tale
interpretazione una Polizia “con le stellette” costituirebbe una
garanzia sia per l’imparzialità operativa, sia come argine di
protezione in funzione anti-democratica.
Se si riconosce il ruolo delle Forze
dell’ordine nel funzionamento dell’apparato statale non si può che
evidenziare come tra il 1943 ed il 1981 lo stesso Stato abbia
attuato un controllo rigoroso su questo settore attraverso le
gerarchie militari. Questo tipo di gestione ha precluso i
miglioramenti organizzativi interni ma soprattutto ha reso
impermeabile l’organizzazione “Polizia” rispetto alle istanze di
sicurezza dei cittadini. A ciò si deve, in parte, il divario
attualmente esistente tra richiesta di sicurezza ed impegno di
adeguamento da parte delle Forze dell’ordine.
La situazione in cui si viene a
trovare la Polizia italiana sul finire degli anni sessanta è frutto
anche di una concezione della politica che tende a separare la
sicurezza dal contesto sociale di riferimento.
L’aver individuato questa collocazione
storica e l’impegno per creare condizioni migliori di vita e lavoro
costituiscono un patrimonio ed un merito indiscusso dei poliziotti
“riformatori” ispirati e guidati da Franco Fedeli.
Ma oltre questi indiscutibili aspetti
storici il percorso che ha condotto all’attuazione della legge di
riforma risulta costellato di interventi esterni che non sono
univocamente riconducibili alla volontà degli appartenenti al Corpo:
in questo senso la Riforma è frutto di compromessi e mediazioni. Ed
è emblematico in questo senso il ruolo giocato, al tempo, da governo
ed opposizione, con il primo proteso a difendere fino all’ultimo gli
assetti esistenti, la seconda impegnata nel collegare il “Movimento
per la smilitarizzazione e la sindacalizzazione” al mondo operaio.
Sono trascorsi venti anni, ma
parlandone sembra di evocare un mondo la cui memoria si perde nel
tempo, anche se sappiamo che l’approvazione della 121 fu il frutto
di un compromesso come lo furono centinaia di altre leggi, nella
coerenza con la logica che sorreggeva la politica di quegli anni.
Anche dal punto di vista linguistico
molti degli elementi innovativi proposti dal Movimento risultano
impoveriti se non stravolti nel loro significato: è l’effetto di una
costante opera di adeguamento lessicale certo giustificata dalla
formalizzazione ma su cui sarebbe opportuna un’analisi specifica.
Tra il 1981 ed il presente c’è una
lunga serie di modifiche alla legge 121 che non si sono collegate
allo spirito innovatore della norma; anzi a questo proposito si può
affermare che una delle più gravi lacune della legge 121 è
evidenziata dalla discontinuità delle leggi integrative rispetto
alla norma di riferimento.
La legge di riforma, come tutte le
leggi, non poteva avere poteri taumaturgici: per altro la
smilitarizzazione era un atto dovuto e qualsiasi ulteriore ritardo
avrebbe avuto ripercussioni politiche non indifferenti. È sulla
sindacalizzazione che si focalizzano le aspettative dall’aprile del
1981; anche per analizzare i comportamenti sindacali venti anni
rappresentano un periodo di riferimento significativo.
Personalmente sono convinto che il
sindacalismo nella Polizia sia rappresentato attualmente in linea di
continuità rispetto agli ideali dei “carbonari” solo ed
esclusivamente da chi vive con passione questo impegno.
Parlare di sigle, parlare del diverso
approccio rispetto ai problemi o argomentare sui referenti politici
o sindacali è del tutto di secondaria importanza: nella scala di
valori prima viene quel gruppo di sindacalisti che, in Polizia come
altrove, svolge il suo lavoro con onestà, coraggio e tenacia,
cercando di ascoltare gli altri senza proporre soluzioni
preconfezionate, ammettendo gli errori ed impegnandosi contro
qualsiasi forma di ingiustizia.
La grande discriminante contemporanea
tra i sindacati di Polizia non potrebbe essere ricercata nel valore
aggiunto di una compagine rispetto ad un’altra: quando in un settore
si concentrano molte sigle di organizzazioni di lavoratori non
risulta possibile (nemmeno tecnicamente) differenziare le posizioni
sulla base delle reali esigenze o delle idee condivise.
L’articolo 95 della legge 121 ha
gettato le basi per la proliferazione dei sindacati: il momento
contrattuale ha attirato l’attenzione di tutti a tal punto da
divenire il fulcro dell’attivismo.
La mancanza di una cultura delle
relazioni sindacali ed una forte tendenza alla conflittualità
interna hanno contribuito a disgregare il fronte sindacale in mille
rivoli. Nelle strutture organizzative sindacali si sono esportati
modelli di riferimento antidemocratici che hanno reso ancor più
complesso ed articolato lo scenario.
Gli “eredi” del Movimento dei
poliziotti sono un gruppo trasversale, che approccia la realtà
quotidiana con l’occhio curioso tipico di chi si interroga sulle
cose di tutti i giorni; spesso c’è un impegno politico, religioso o
laico che sottende la proiezione nel sindacato, ma non è un
requisito indispensabile.
In questo gruppo di sconosciuti, del
quale non conosciamo la consistenza numerica pur conoscendone
personalmente molti, riponiamo le residue speranze di un recupero
dei valori affermati durante l’assemblea di Empoli del febbraio 1975
e di un’attività sindacale basata su valori piuttosto che su schemi:
altrimenti la legge 121/81 resterà una pagina storica da consultare
negli archivi ma non da attuare. |
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VENTENNALE |
Quanta nostalgia |
Luigi Duca |
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Mi dispiace di essere troppo vecchio e malato
di cuore, tuttavia ho nell’anima tanta nostalgia della mia
giovinezza; perché vorrei lottare ancora per dare sempre più
prestigio alla Polizia italiana. Ricordo con tanta commozione
Franco Fedeli: non finirò mai di ringraziarlo perché ci ha
difeso sempre con tenacia, lottando a fianco di noi
“carbonari”, sempre presente ovunque fosse necessaria la sua
presenza, al fine di conseguire la nostra Riforma, superando
ostacoli d’ogni tipo. Quanto vorrei vedere, magari in un
piccolo paesino d’Italia, un ricordo marmoreo del nostro
Fedeli (anche se so perfettamente che lui queste cose non le
vorrebbe).
Sono contento di aver lottato, insieme a tanti
altri colleghi, per la Riforma dell’Amministrazione della
pubblica sicurezza e la nascita della Polizia di Stato. E
questa Riforma indubbiamente, ci ha portato grandi benefici,
sia a noi che ormai non siamo più in servizio, sia per i
colleghi di oggi che, tra l’altro, possono anche godere di una
libertà di espressione che una volta avevano solo i nostri
“superiori”, sia quando avevano ragione, ma soprattutto quando
non l’avevano. Non voglio aggiungere altro, se non che nella
Polizia italiana finalmente è entrata una ventata di libertà,
elemento indispensabile per tutti i componenti della società.
Forse questo mio contributo di vecchio
“carbonaro” è troppo sintetico, ma non so fare di più.
Luigi
Duca - Brescia |
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VENTENNALE |
La
nostra volontà di ferro
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Pasquale
Sambuco |
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Desidero far giungere un mio pensiero,
nell’occasione del ventennale della Riforma della Polizia.
Vorrei tanto sbagliarmi, ma ho fondati dubbi, che oggi,
pochissimi sanno che la Riforma fu conquistata duramente, dico
molto duramente, perché allora, non si doveva superare solo la
resistenza del ministero dell’Interno, i suoi dualismi, ma
soprattutto quella delle forze politiche, le quali tutto
pensavano, tranne che all’aggiornamento democratico della
Polizia.
Le forze politiche di allora, restarono
traumatizzate alla richiesta di smilitarizzazione e
sindacalizzazione; ricordo che la stampa dell’epoca titolava
“Vogliono disarmare la Polizia”. Purtroppo i cittadini ci
credevano.
L’allora “Movimento per la smilitarizzazione e
sindacalizzazione della Polizia” intensificava gli sforzi,
facendo riunioni per coinvolgere la maggior parte dei
poliziotti e questo, ricordo, fu il passo facile direi, perché
in tutte le province la percentuale dei firmatari aderenti
era del 90/93%. Fu questa la risposta più incoraggiante, anche
se era nelle previsioni scontata.
Ricordo che i poliziotti più coraggiosi avevano
una unica possibilità: tormentati e martoriati dai metodi di
servizio, dai “moduli”, erano esasperati e trovavano coraggio
scrivendo al compianto Franco Fedeli esprimendo le doglianze
delle ingiustificate illogiche vessazioni che andavano
subendo. Fedeli scrisse un libretto dal titolo “Eroi senza
medaglie”.
Ma il desiderio, la volontà ferrea dei
poliziotti era tanta, che pur dovendo sottostare a quei
modelli di servizio illogici, senza scopi, cercavano in ogni
modo di arrivare ad una riforma.
Ricordo che tanto più era viva la forza dei
poliziotti riformisti, quanto più era dura la resistenza
ministeriale e parlamentare; nonostante gli sforzi, non
riuscivano mai a dire si, ma sempre il classico ni.
Ricordo che la proposta di riforma subì 11 o
12 rinvii, con altrettante correzioni. Chi proponeva il
“Comitato dei bussolotti”, chi le Commissioni paritetiche, chi
sceglieva di non smilitarizzare la Polizia stradale, e tante
tante altre simili proposte che non stavano né in cielo né in
terra.
Un ultimo colpo finale lo dette, mi pare l’on.
Piccoli, che volle presentare una riforma tutta del suo
gruppo, che non poteva essere accettata da noi.
Qui, ricordo i suggerimenti di Fedeli,
Ambrosini, Lama, Marini e i tanti poliziotti della Capitale,
fra essi sempre l’anima della Riforma, il generale Felsani: di
accettare la riforma comunque essa fosse, anche la più
strampalata. Angela Cammarano sindacalista abruzzese, consorte
di un poliziotto che aveva trovato la fortuna di lasciare la
Polizia per un impiego civile, ma che aveva lasciato
nell’animo della consorte la realtà dolente della nostra vita,
cercava di convincerci, dicendo “con i contratti tutto si può
raddrizzare; il necessario è ottenere di sedersi allo stesso
tavolo”. Che donna coraggiosa, quanto coraggio dimostrò per
aiutarci in ogni modo!
Contemporaneamente occorreva tenere fermo
l’irrequieto D’Alberto, che con 2 processi al Tribunale
militare della Capitale, era disponibile a tutto, spericolato
com’era (direi com’è tuttora) incurante di tutto, sosteneva
riunioni a destra e a manca, ricordo i numerosi suoi articoli
sulla stampa dove definì un colonnello della Polizia come
Pinochet.
Che dire poi della riunione a Vico Equense?
Voci circolavano che il Ministro dell’Interno aveva disposto
600 carabinieri per farci arrestare, se noi avessimo
deliberato il tesseramento.
Noi eravamo più di mille e ci domandavamo: sarà
attendibile la minaccia? Perché sì, eravamo poliziotti dai
metodi arretrati, ma la nostra mente non era altrettanto. Alla
pausa del pranzo tutti eravamo presi dalla soluzione non
remissiva e legittima contemporaneamente. Ci dicemmo: ma dove
troverà mai il Ministro lo spazio per contenere in carcere i
poliziotti riformisti?
Decidemmo il tesseramento; poi seppi che
v’erano state telefonate interlocutorie fra il Ministro ed i
nostri vertici del Movimento.
Un fatto mi preme ricordare, per l’amore della
verità. Il generale Enzo Felsani, il più quotato per essere
nominato tenente generale della Polizia, quindi in pectore,
non fu mai promosso, proprio perché era riformista. A lui fu
preferito altro che non aveva la stessa capacità e soprattutto
la sua cultura democratica dell’essere cittadino e voler
essere cittadino poliziotto.
Quante mortificazioni quest’uomo andava
subendo! Ma, dall’altra parte c’eravamo e ci siamo noi, che
come contrappeso, gli dobbiamo eterna riconoscenza.
Ripensando alle sofferenza di altri riformisti,
ricordo quanti di essi, oggi, non sono più tra noi. Ma lo sono
e resteranno nei nostri cuori, nelle nostre menti.
Una sera, sentivo parlare di Forleo alla
televisione: quanti travagli ha subìto, Ciccio carissimo; il
tuo carattere non abbisogma di incoraggiamenti perché sei
razionale, consapevole dei tuoi legittimi comportamenti,
quindi vai avanti. Tu sei sempre nella nostra mente, ti
guardiamo come guida nel servizio della Polizia di oggi.
I riformisti della Polizia, non hanno mai
pensato alla propria utilità, convenienza, promozione, ma solo
a rendere un servizio più preparato, più capace di rispondere
alle crescenti quotidiane richieste dei cittadini. Nessuno ha
pensato di fare la Riforma per ottenere qualche cosa.
Importante è aver ottenuto che anche l’Agente avesse la
possibilità di percorrere tutti gli scalini
dell’Amministrazione, che fosse remunerato come cittadino non
di serie B, che possa dire la propria opinione anche
attraverso i sindacati di Polizia (che sono tanti).
Pasquale Sambuco - Teramo
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VENTENNALE |
Sandro Canestrini: lo spirito
della democrazia |
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Vengo affettuosamente richiesto di dare
un contributo nell’occasione del Ventennale della istituzione della
Polizia di Stato. Sia pure ben modestamente ritengo di non potermi
sottrarre a tale richiesta formulata da un direttore di “Polizia e
Democrazia” che è ben degno di essere subentrato a Franco Fedeli. Dico
subito che quando io scrivo o penso di Franco Fedeli, un moto di
commozione mi invade. Era un uomo preparato e disinteressato, in cui
la forza dell’ideale prevaleva su ogni altra spinta emotiva e morale.
Davvero egli è morto esausto per il lavoro tremendo che ha dovuto
svolgere per portare a termine la battaglia per portare, nell’istituto
allora ancora chiuso della Polizia, lo spirito della democrazia.
Si affollano alla memoria tanti e tanti
episodi”: le tumultuose assemblee iniziali dove, piano piano
emergevano gli uomini che avevano capito l’impegno di Franco e che si
schieravano apertamente per esso. Assemblee dove, con il massimo della
libertà, vi era anche un concreto pericolo, che più volte colpì. Un
tipo di assemblee di questa natura, uno sciopero di questa natura, una
sfilata pubblica di questa natura, qualunque articolo che in materia
venisse scritto, veniva passato alla vigilanza dei “superiori” tesa
individuare forme di violazioni penali.
È il caso di sottolineare un aspetto che
forse altri non riterranno di riprendere e cioè che se oggi viviamo in
uno stato in cui la Polizia non è un Corpo militare, se viviamo in una
organizzazione politica dove la Polizia è un prezioso aiuto per gli
accertamenti della verità e fa ben più leva su questi che sullo
sfilare in pompa magna e su carri armati, dobbiamo guardarci indietro
e sapere che cosa era l’organizzazione della Polizia qualche decennio
fa. La drastica scure di Scelba e dei suoi amici aveva tentato di
tagliare in un modo netto ogni filo di collegamento democratico delle
Forze di polizia con la Resistenza e con la Costituzione.
Licenziamenti, potere di ferro dei
questori, rigida disciplina erano le armi con cui si volevano allevare
non degli uomini partecipi del grande lavoro che la nazione intera
stava facendo per crescere e per prosperare, ma solo dei rabbiosi
esecutori di ordini. Ancora oggi certi ricordi non sono del tutto
passati, ma è certo che allora più che la ragione valevano i colpi di
manganello e più che la discussione valevano le cariche della Celere:
e talvolta anche le denuncie penali nelle quali siamo sempre stati,
anche come difensori, fianco a fianco, nelle aule dei tribunali, ai
poliziotti ingiustamente accusati.
Siamo a buon punto con le modifiche
passando anche attraverso momenti drammatici, come tutto il quesito se
la nuova Polizia doveva essere o meno alleata alle grandi
organizzazioni sindacali; se le spettava o meno il diritto di
sciopero; se le spettava o meno l’esercizio dei diritti concessi a
tutti i cittadini. Battaglie compiute con senso della giustizia e
della misura, ma alle quali bisogna rivolgersi per appunto
ripercorrere il cammino fino ad oggi.
“Polizia e Democrazia” è il giornale che
dice di ispirarsi a principi di attualità, ma è molto di più perché è
il legame tra la Polizia e il mondo esterno e il modo con cui
poliziotto e cittadino possono intendersi.
Io auspico vivamente che questo legame
sia sempre più stretto e quell’accordo sempre più frequente, in nome
di Franco Fedeli. |
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PENSIONI |
Il nuovo calcolo |
Giuseppe Chiola |
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Pubblichiamo, qui di seguito, un esempio
di calcolo della pensione di un primo Dirigente della Polizia di Stato
(trattamento economico di Dirigente Superiore a norma dell’art. 43,
comma 23, della legge 121/81), dispensato dal servizio per
fisica-inabilità a decorrere dal 19 febbraio 2001 e con anzianità
utile a pensione pari a 36 anni e 6 mesi, eseguito con il criterio
delle doppie quote di cui agli articoli 7 e 13 del d.lgs 503/92 e
successive modificazioni ed integrazioni.
Questo nuovo metodo di calcolo
determina, per l’interessato, una differenza in meno di sole 48.693
lire mensili nette, rispetto al vecchio sistema. Infatti, se la
pensione fosse stata calcolata sulla sola quota “A” sarebbe risultata:
(105.361.223 X 73,70%) + (52.941.803 X 15% X 73,70%), diviso 12 meno
Irpef = 5.096.083 lire mensili nette. Va precisato che lo stesso
funzionario, avendo trascorso gli ultimi 15 mesi in aspettativa per
infermità, non ha potuto usufruire della retribuzione accessoria sulla
quota “B”, in alternativa alla maggiorazione del 18% di cui alla legge
177/76, altrimenti non avrebbe avuto alcuna decurtazione.
Diverso è il discorso per i lavoratori
che alla data del 31 dicembre 1995 non avevano raggiunto un’anzianità
contributiva pari o superiore ai 18 anni, per i quali trova
applicazione il cosiddetto sistema misto (retributivo fino al 31.12.95
e contributivo dal 1° gennaio 1996 in poi), con conseguente sensibile
diminuzione del trattamento pensionistico.
Risulterà penalizzato, in misura più
modesta, anche il personale con più di 18 anni di servizio utile al 31
dicembre 1996, ma con meno di 15 al 31 dicembre 1992 (vale solo per i
lavoratori del Comparto Sicurezza e per quelli addetti alle cosiddette
attività usuranti, per i quali sono previsti aumenti di anzianità
figurative). Questo personale, infatti, pur conservando il sistema
interamente retributivo, è soggetto al disposto di cui al 1° comma
dell’art. 7 del d.lgs 503/92, che stabilisce di considerare l’intero
periodo intercorrente dal 1° gennaio 1993 alla data del pensionamento,
ai fini della determinazione della retribuzione media pensionabile
(quota B). |
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LABORATORIO |
Un grido di dolore |
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Ecco
il testo di una lettera che il Coordinamento Donne del Siulp ha
inviato, l’8 marzo di quest’anno, al Ministro delle Pari Opportunità.
“Da
tempo il Coordinamento Donne Siulp è impegnato su tutto il territorio
nazionale nel raccogliere elementi utili alla elaborazione di proposte
che rendano il difficile quadro organizzativo della Polizia di Stato
più compatibile con una società che, sempre più, è orientata verso una
maggiore affermazione dei diritti dell’individuo e della famiglia,
diritti che troppo spesso sono stati riconosciuti sulla carta ma
ignorati proprio nei rapporti con le Istituzioni.
E
mentre molto è stato fatto per attribuire maggiore valenza ai bisogni
del cittadino nel suo rapporto con le Istituzioni, riconoscendo una
centralità della sfera soggettiva dei diritti, l’apparato da cui
dipende la Polizia di Stato, si è reso protagonista in questi anni, di
un’involuzione culturale che ne ha appiattito i connotati essenziali
sul modello militare provocando, come era prevedibile, un
rafforzamento delle logiche burocratiche, che oggi di fatto soffocano
quel naturale respiro che in uno stato di diritto deve essere
riconosciuto alla sfera individuale e personale della vita di un
lavoratore.
Vorremmo dare alla giornata dell’8 marzo un positivo senso di
concretezza allargandone la portata al concetto di Pari Opportunità
non solo tra uomo e donna ma tra cittadini/e e poliziotti/e,
sottoponendo alla Sua autorevole attenzione alcune proposte di
modifiche del quadro normativo che disciplina il rapporto di lavoro,
consapevoli che una società che si prepara a tutelare le differenze
non può avvalersi di apparati che riconoscono solo l’omogeneità.
Mobilità - Nel corso dell’incontro svoltosi presso gli Uffici del
Ministero da Lei diretto, l’8 novembre 2000, una delegazione del
Coordinamento Donne consegnò un elenco di situazioni personali
relative ad alcuni lavoratori di Polizia, padri e madri, che a causa
di un sistema di mobilità vetusto e anacronistico, sono costretti a
lavorare ‘per legge’ lontano dai figli e dal proprio nucleo familiare.
Come
noto, il bando di concorso per Agenti effettivi contiene il divieto di
chiedere come sede di prima assegnazione la provincia di residenza e
quelle confinanti, mentre il bando di concorso per l’accesso al ruolo
Ispettori è ancora più penalizzante in quanto il limite di cui sopra è
esteso non solo alla regione di residenza ma anche a quella di
nascita. Quest’ultimo limite viene imposto anche a coloro che
partecipano alla quota di posti riservata a chi è già appartenente
alla Polizia di Stato. Da notare, innanzitutto, l’anomalia di un
limite che non è previsto nel bando di concorso per Commissari, i
quali possono prestare servizio tranquillamente nella loro città di
provenienza. Da poco è stata emanata una circolare ministeriale
contenente rigorosi criteri cui il Ministero si atterrà nel gestire le
domande di trasferimento che verranno accolte nel rispetto di una
graduatoria in base ad elementi nel complesso condivisibili. Tuttavia,
grande perplessità suscita la circostanza che dette istanze non
verranno neanche prese in considerazione laddove il dipendente non
abbia maturato almeno quattro anni di servizio in sede. Da questo
quadro normativo, pur sinteticamente esposto, emergono con chiarezza
alcune gravi devianze rispetto ad un processo di valorizzazione della
famiglia intesa, non solo come luogo primario di crescita e
formazione, ma anche come espressione dell’intimità e della sfera
affettiva di ciascuno. Infatti, il combinato disposto esposto dai
precedenti dettami, fa sì che il lavoratore o la lavoratrice di
Polizia che hanno già un bambino, per legge staranno lontano dalla
prole per almeno quattro anni, non solo: in tale periodo può accadere,
come già verificatosi in tante province, che nella città che il
lavoratore non potrà richiedere come sede, vi potrà essere
paradossalmente assegnato d’ufficio personale appena uscito dalle
scuole e che nella migliore delle ipotesi avrebbe preferito lavorare
in altra città. Oltre enormi ‘guasti’ all’integrità della famiglia,
questo pregresso sistema di assegnazione e mobilità del personale
provoca ‘a cascata’ un’infinita serie di problemi sotto il profilo
alloggiativo. Infatti, oltre a non poter tornare nella città di
provenienza, il lavoratore di polizia apprenderà solo 48 ore prima
dell’inizio dell’attività lavorativa la sede di destinazione.
L’attuale congestione delle caserme, che si acutizza puntualmente e
drammaticamente ogni volta che arrivano ‘nuove leve’, ne è la prova
lampante. Il disagio della vita di caserma impedirà a molti poliziotti
un’adeguata integrazione nel tessuto sociale; ciò, inevitabilmente,
anziché stimolare l’inserimento nella città di assegnazione, non farà
che esasperare la legittima aspettativa di tornare nelle sedi di
provenienza, alcune delle quali, peraltro, hanno una limitata capacità
recettiva di personale rispetto alle numerose domande di
trasferimento, costringendo i lavoratori di Polizia ad attese
ultradecennali.
Questo
Coordinamento, pertanto, chiede che anche attraverso un adeguato
periodo di transizione, si giunga gradualmente ad eliminare qualsiasi
limite geografico, sia nell’assegnazione della prima sede, sia nelle
assegnazioni conseguenti le progressioni di carriera. I vincitori di
concorso, genitori di figli di età inferiore a dodici anni, dopo un
periodo di transizione, dovrebbero essere assegnati, automaticamente,
preferibilmente nella città dove risiede la famiglia o alla sede di
lavoro ad essa più vicina.
Alla
luce di quanto esposto, sarebbe auspicabile anche l’abolizione del
limite dei quattro anni di servizio in sede, sanando, così le tante
contraddittorie situazioni, evitando disagi ai singoli ed alle loro
famiglie allo scopo di ‘armonizzare’ i tempi in un’ottica comunitaria.
Aggregazioni - L’aggregazione anche in sovrannumero rispetto
all’organico è prevista nel Contratto Nazionale di Lavoro per gravi
motivi di famiglia. La genericità del requisito rende la gestione di
questo diritto naturalmente fumosa ed ambigua: sarebbe opportuno
imporre un termine perentorio all’Amministrazione allo scadere del
quale si configuri un silenzio-assenso ed individuare una casistica di
patologie a fronte delle quali l’esercizio del diritto funzioni come
una sorta di automatismo. Di frequente è accaduto che il lungo
silenzio dell’Amministrazione abbia vanificato la stessa richiesta in
quanto deceduto il congiunto per il quale la stessa era stata
inoltrata.
Applicabilità delle leggi - Il problema è connesso ai lunghi tempi che
l’Amministrazione impiega per adeguare la propria azione
amministrativa al susseguirsi delle nuove disposizioni normative di
fonte legislativa che ne disciplinano l’attività funzionale.
In
particolare l’attenzione del Coordinamento viene richiamata sulla
prassi circa la ‘mancata attuazione’ - da parte di Funzionari e
Dirigenti di Polizia - di leggi ordinarie dello Stato, senza la previa
emanazione di circolari esplicative ed interpretative. Tali prassi
determina una ‘sospensione’ de facto della vigenza delle norme di
legge e dei diritti che le stesse riconoscono e garantiscono, creando
nocumento all’attività della Pubblica Amministrazione e un danno a
quei soggetti che invece la norma tutela. Un esempio tra gli ultimi
riguarda il ritardo dell’applicazione dei ‘diritti’ previsti dalla
recente legge sui ‘congedi parentali’; a numerosi dipendenti che
richiedevano l’applicazione di quei diritti è stato risposto di
attendere la circolare esplicativa che dopo svariati mesi dall’entrata
in vigore della legge, non era ancora pervenuta.
In uno
stato sociale di diritto retto dal principio democratico non è
possibile ammettere la ‘sospensione’ di diritti previsti e garantiti
dalle leggi dello Stato. A tal proposito tra i molteplici rilievi di
carattere sistematico e tecnico-giuridico che i fatti narrati
consentono si ritiene necessario far presente quanto segue:
a)
l’art. 10 delle Disposizioni sulla legge in generale prevede - quanto
all’inizio dell’obbligatorietà delle leggi - che le medesime, in linea
di principio, divengono obbligatorie nel decimoquinto giorno
successivo a quello della pubblicazione (vedi anche art. 73 Cost.). La
ratio della disposizione è quella di consentire - tra l’altro -
l’adeguamento delle amministrazioni alle nuove disposizioni normative.
Il termine di 15 giorni - detto anche vocatio legis - è quindi
ritenuto dal legislatore congruo per la presunzione di conoscenza da
parte di tutti e per l’eventuale emanazione di circolari da parte
delle Amministrazioni che le ritengono opportune. Trascorso tale
periodo la legge diventa obbligatoria per tutti in conformità con il
principio generale ‘ignorantia legis non excusat’;
b)
quanto al rifiuto dei Funzionari e Dirigenti di assunzione di
responsabilità di applicare le leggi dello Stato in assenza della
circolare esplicativa, vale la pena ricordare quanto disposto
dall’art. 28 della Costituzione della Repubblica italiana e si
richiama l’attenzione sulla previsione degli artt. 323 e 328 del
Codice penale che, in generale, sanziona la condotta del pubblico
ufficiale, che nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in
violazione di norme di legge [...] arreca ad altri un danno ingiusto.
Legge
675/96 - Il secondo problema è connesso alla mancata applicazione
delle garanzie previste dalla legge 675/96 sulla Privacy in merito al
trattamento dei dati personali con particolare riferimento a quei dati
definiti dalla norma stessa ‘dati sensibili’.
Anche
in questo caso numerose segnalazioni giunte da tutta Italia, sollevano
l’attenzione sulle modalità con le quali vengono trattati i dati
relativi alla salute dei dipendenti. La prassi, in numerose questure,
prevede l’obbligo - da parte del dipendente che si assenta per
malattia - di fornire al proprio ufficio (es. all’Ufficio Personale
del commissariato) il certificato medico comprendente sia la diagnosi
che la prognosi. Mentre può avere una sua logica il fatto che
l’Ufficio periferico debba essere messo a conoscenza della prognosi -
ossia al fine di pianificare l’organizzazione del servizio e
l’eventuale sostituzione del dipendente - non si comprende la ratio -
soprattutto alla luce delle nuove norme - della necessità che
l’Ufficio periferico (e quindi non esclusivamente quello sanitario
competente) debba conoscere la patologia di cui è affetto il
dipendente. Con questa prassi, ormai consolidata, numerosi colleghi e
superiori del dipendente malato vengono messi nella condizione di
conoscere ‘dati sensibili’ pur non essendo a ciò formalmente preposti.
Per
uscir fuor di metafora, un poliziotto affetto da una qualsiasi
patologia, prima di vedere trasmesso il proprio certificato medico
all’Ufficio sanitario competente, lo deve vedere girare per tutto
l’ufficio (Ufficio personale, segreteria, dirigente, vicedirigente o
quant’altro), rischiando di subire ingiusti danni d’immagine, alla
libertà ed alla dignità.
A
questo punto la S. V. ci vorrà perdonare una innocente considerazione
di parte, attesa la natura di questo Coordinamento. Non meno grave e
lesiva si profila la divulgazione dei dati relativi alla salute dei
dipendenti di sesso femminile che, per naturale costituzione
fisiologica, sono più soggetti ad assentarsi per patologie fisiche che
implicano anche delicati condizionamenti di natura psicologica
(interventi all’apparato genitale, interruzioni di gravidanza, ecc.).
È in questo caso ancor di più inopportuno, oltre che vietato dalla
legge, divulgare nell’ambiente lavorativo questi dati, anche se
purtroppo i fatti evidenziano il contrario.
I
termini del problema, quindi, da un lato riguardano l’individuazione
delle corrette procedure per il trattamento dei dati personali
riguardanti lo stato di salute, dall’altro lato la predisposizione di
idonee misure organizzative e tecniche per garantire la sicurezza del
trattamento medesimo.
Entrambi tali realtà sono regolamentate da una disciplina legale che
in questa sede, ci si limita a richiamare.
La
normativa di riferimento per trattamento dei dati sensibili da parte
dei soggetti pubblici è contenuta del d.lgs 11 maggio 1999, n. 135 e
successive modificazioni ed integrazioni (d,lgs 30 luglio 1999, n. 281
e 30 luglio 1999, n. 282), disciplina questa che dà attuazione al
disposto dell’art. 27, comma 1, della legge 675/96. Nell’individuare i
limiti entro i quali il trattamento di dati personali è consentito ai
soggetti pubblici, il d.lgs 135/99 stabilisce la necessità di
rispettare durante il trattamento la ‘pertinenza [...], non eccedenza
e necessità’ dei dati rispetto ‘alle finalità perseguite nei singoli
casi’, rapporto questo che l’Amministrazione è tenuta a verificare
specificatamente (art. 3, comma 3), pena l’inutilizzabilità dei dati
raccolti.
Il
ruolo fondamentale che nell’impianto normativo in esame assume il
principio di ‘minima interferenza’, in questo modo codificato dal
legislatore, risulta confermato - quanto al trattamento di dati
personali idonei a rivelare lo stato di salute - dalla previsione di
particolari cautele tecniche da seguirsi per il trattamento (art. 3,
comma 4 e 5), nonché dal divieto di diffusione contenuto nell’art. 23,
comma 4, legge 675/96, confermato dall’art. 4, comma 4 del d.lgs
135/99. In questa prospettiva sono da richiamarsi, altresì, le
disposizioni del D.p.r. 28 luglio 1999, n. 318, che prevede le norme
per l’individuazione delle misure minime di sicurezza per il
trattamento dei dati personali a norma dell’art. 15, comma 2, della
legge 675/96, nonché - quali norme di chiusura del sistema - l’art. 18
legge 675/96, quanto alla disciplina della responsabilità civile per
‘danni’ cagionati per effetto del trattamento di dati personali,
nonché l’art. 36 legge 675/96, circa la responsabilità penale per
l’inosservanza di misure necessarie alla sicurezza dei dati.
Per
concludere è di tutta evidenza che la riferita prassi relativa alla
gestione dei dati concernenti lo stato di salute dei dipendenti della
Polizia di Stato effettuata dai singoli Uffici del personale istituiti
presso i commissariati o altri Uffici decentrati non risponde alle
prescrizioni della normativa in materia, e si richiede, pertanto, una
verifica dello stato di attuazione della richiamata disciplina anche
in attuazione dell’art. 27, comma 4, legge 675/96 il quale dispone che
‘i criteri di organizzazione delle amministrazioni pubbliche [...]
sono attuati nel pieno rispetto delle disposizioni della presente
legge’.
Questo
Coordinamento Pari Opportunità, certo della Sua sensibilità, auspica
che questi temi, che sicuramente meritano una trattazione più
approfondita, entrino comunque nella sua agenda politica, prima che
giunga a compimento quel processo di emarginazione della donna,
iniziato forse ancor prima della sua integrazione, in quella che è
senza dubbio una delle più delicate istituzioni della Repubblica”.
Il Coordinamento
Donne Siulp
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