CONTRIBUTI

Reparti Voli in crisi

 

Che l’atavico deficit della nostra Amministrazione fosse all’ordine del giorno è da tutti ben conosciuto, ma da qui a mettere in serio pericolo sia la vita degli operatori sia l’incolumità della cittadinanza ce ne corre

Al I° Reparto Volo della Polizia di Stato, è accaduto l’ennesimo episodio che può essere catalogato tra quelli che “anche questa volta la possiamo raccontare”. Perché?

Perché il giorno 3 aprile 2001 un aereo leggero della Polizia di Stato in volo di ricognizione, improvvisamente è entrato in stallo per una avaria contemporanea di entrambi i motori, e soltanto grazie all’alta professionalità e sangue freddo dei piloti è stato possibile evitare un disastro, effettuando così un atterraggio d’emergenza sulla spiaggia di Baia Domizia, senza gravi conseguenze per i colleghi e soltanto lievi danni al velivolo.

Ci domandiamo e domandiamo: perché è potuto succedere? Se un inconveniente del genere accadeva su un centro abitato quali conseguenze ne sarebbero derivate? Qualche perplessità ci sentiamo di sollevarla

La manutenzione degli elicotteri ed aerei è meticolosa, come si spera che sia? I pezzi di ricambio sostituiti sono nuovi o riciclati da altri elicotteri o aerei fermi da anni negli hangar del Iº Reparto Volo di Pratica di Mare?

Visto che ci siamo proviamo anche ad avanzare qualche suggerimento.

Perché non si stornano i costi occorrenti per acquistare nuove autovetture per la dirigenza o per il rifacimento di appartamenti a Questori e ai baroni della Polizia di Stato, investendo poi le risorse recuperate verso la manutenzione ed il rinnovo di mezzi ed uffici che per loro natura dovrebbero essere a disposizione di tutta la collettività?

Noi abbiamo visitato il Iº Reparto Volo della Polizia di Stato raccogliendo, da parte di tutto il personale, segnali veramente propositivi e da parte dell’Amministrazione segnali inversamente proporzionali di un assordante silenzio e di totale latitanza, pertanto torniamo a denunciare con forza la scarsa attenzione sugli 11 Reparti Volo della Polizia di Stato per via degli hangar fuori norma, per la completa violazione del d.lgs 626/94, per la manutenzione di tutti i velivoli lasciata soltanto alla professionalità, inventiva e genialità dei colleghi.

Chiediamo con sempre più fermezza investimenti su persone e mezzi al servizio della collettività e non soltanto a favore delle baronie della Polizia

Luigi Notari

Segretario Nazionale Siulp

 
 
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CONTRIBUTI

La realtà è diversa

 

In quest’anno sono ricorsi sia l’anniversario della morte di Carlo Beccari, che quello di Massimiliano Valenti, barbaramente uccisi.

È questa, solo questa, la memoria di chi la “Uno Bianca” non l’ha vista in un film. Un film che ha forzatamente violentato la realtà, trasformandola in qualcosa di completamente diverso ed ha fatto riaffiorare alla mia mente, momenti di un’indagine che ho cercato di dimenticare.

Alla notizia della fiction, ho pensato che potesse trattarsi di un film-verità. Il buon senso e il rispetto per le vittime, alla fine doveva prevalere sulla possibilità di tramutare una tragedia in una “farsa poliziesca”.

E invece no. Tutto è stato stravolto.

Il film non ha reso giustizia a nessuno, anche se questo, probabilmente, non era tra gli obiettivi degli autori.

La realtà è diventata un’invisibile comparsa, lasciando il suo posto alla fantasia.

La storia di sette anni di terrore e morte, le difficoltà investigative di un’indagine così complessa, gli sforzi di tanti poliziotti, carabinieri e magistrati per porre fine a quella scia di sangue, non può essere sostituita da quella farsa-fiction.

Agli spettatori che l’hanno seguita, non è stata data alcuna possibilità di distinguere la realtà dalla fantasia e quest’ultima é diventata “verità” per milioni di persone.

Gli autori hanno preferito far risaltare l’aspetto investigativo di questa vicenda, che, sinceramente, non meritava alcuna santificazione.

Una scelta che non ha reso alcuna giustizia agli unici, veri eroi di questa dolorosa e assurda vicenda: le vittime.

Eroi che avrebbero meritato una maggiore considerazione, in un film che si è ispirato alla loro storia, a momenti di puro coraggio che dovrebbero rimanere nella memoria di tutti.

Eroi veri che si sono opposti alla violenza e all’ingiustizia, con fiero coraggio, coscienti di quello che stavano rischiando.

Da Valenti a Stefanini, Mitilini, Moneta, Stasi, Erriu, Zecchi, Pasqui, Pedini, Bonfiglioli, Ansaloni, Capolungo, Ndiay, Cheka, Alessandri, Mosca, Armorati, Bellinati, Della Santina, Picello, Poli, Beccari, Mirri, Merendi per finire a Paci e continuare con tanti altri che forse, sono vivi solo per miracolo.

Altri eroi, a pensarci proprio bene, non ne ho visti.

Il film é un’altra storia, forse era il caso di intitolarla “La Barca Azzurra”.

Altro aspetto, sicuramente secondario, è l’indagine che, dopo dieci mesi, ha portato all’arresto di tutti i componenti della banda.

Nella fiction, senza alcuno scrupolo, sono stati ridicolizzati magistrati, poliziotti e carabinieri. Da Bologna a Pesaro, solo idioti, incapaci e codardi.

Ricordo, invece, momenti diversi, tanti altri colleghi che hanno lavorato senza riserve, senza orari, arrivando a rischiare consapevolmente anche la vita.

Una ricostruzione che ha deluso tutti, poliziotti e carabinieri, magistrati e cittadini che in qualche modo sono stati sfiorati da questa vicenda.

Dietro questa farsa televisiva sembra quasi che ci sia un grande burattinaio, quello che scioccamente con questo film pensa di recuperare un’immagine che era stata compromessa.

Eppure, ricordo perfettamente la determinazione del Prefetto Masone e dell’attuale Capo della Polizia De Gennaro, nel ricercare la verità e porre fine ad una vicenda drammatica. In quell’estate del 1994, fu inviato in Romagna, per coordinare l’attività investigativa, uno dei pochi e veri eroi nella lotta alla criminalità, Rino Germanà.

In questa dolorosa vicenda, è doveroso sottolineare che il Capo della Polizia riconobbe alcuni meriti (encomio solenne) al gruppo (sei persone Capocasa, Ghetti, Baglioni, Peruzzini, Costanza, Di Giorgio) che, da febbraio a novembre sono arrivati a chiudere la partita insieme a tanti altri colleghi che non hanno ricevuto encomi e nemmeno una stretta di mano, ma che hanno comunque meriti non inferiori ad altri.

In una vicenda così assurda, che lascia ancora oggi, il campo aperto a dubbi e interpretazioni, corre l’obbligo, per chi come me oltre che Poliziotto è anche un rappresentante sindacale, di fare chiarezza nel rispetto delle vittime e di quei colleghi che in questa vicenda hanno pensato a lavorare con professionalità ed umiltà, senza farsi abbagliare dalla luce dei flash.

Mario Peruzzini

Segr. Gen. Prov. Siulp Forlì-Cesena

 
 
 
 
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VENTENNALE

Massimiliano Valdannini: è questione di tempo

 

Il primo aprile, per quelli della mia generazione, ricorda l’arruolamento periodico che avveniva nel disciolto Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza e quindi, oltre a rammentare la gioventù, tale data rappresenta anche un giorno epocale allorquando il 1 aprile del 1981 si raggiunse il traguardo della completa democratizzazione della Polizia restituendo alla collettività un’istituzione più vicina alle istanze dei cittadini.

Da quel mio 1° aprile sono trascorsi quasi trent’anni mentre dal secondo si è appena girata la boa dei vent’anni, e quindi credo sia d’obbligo fornire un tracciato di quanto è stato fatto dall’allora “Movimento unitario dei poliziotti democratici” agli attuali 24 sindacati esistenti.

La nascita di tutti questi sindacati sta a significare che non tutto ha funzionato per il giusto verso.

Queste divisioni e diaspore a chi sono servite? Chi le ha orchestrate? Che interesse avevano coloro che le hanno condotte in porto? È stato fatto solo per opinioni divergenti all’interno delle varie sigle nate di volta in volta, oppure c’è stato sempre qualcuno o qualcosa dietro ad ogni defezione?

Come vediamo, 20 anni sembrano trascorsi inutilmente in quanto ci troviamo sempre a combattere contro i muri di gomma e i “grandi vecchi”!

La natura del sospetto è insita in me, avendo già vissuto la stagione dell’ostracismo da parte dei poteri forti sull’allora nascente legge di Riforma della Polizia.

La legge 121/81 tra tutte le leggi varate dal Parlamento, fu definita “epocale” sia per i contenuti sia per le innovazioni che avrebbe dovuto apportare per una maggiore sicurezza della collettività e di coordinamento tra le Forze dell’ordine.

Ancora prima di essere approvata, dietro le quinte c’era già chi remava contro, preferendo una Polizia militarizzata alla pari dei Carabinieri perché, ieri come oggi, c’è più di qualcuno che è convinto che l’essere militare sia sinonimo di fedeltà e di cieca ubbidienza!

In questi vent’anni i tentativi di smantellare l’impianto della legge 121/81 si sono susseguiti all’ordine del giorno, e guarda caso dove la destra ha sempre fallito c’è riuscito un governo di centro sinistra approvando la legge 78/2000, affossando di fatto l’impianto originale della legge 121/81 che prevedeva un coordinamento reale nella nazione dalle tante Polizie!

La legge di Riforma della Polizia si incuneò verso il traguardo finale in un esatto periodo storico, che vide il calar della cosiddetta fase del “tintinnar di sciabole” e la nascita contestuale del piano di rinascita nazionale che aveva già posto gli uomini giusti nei gangli vitali della cosiddetta prima Repubblica.

Mentre nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza si lottava per organizzare il “Movimento democratico dei poliziotti” tendente a democratizzare e smilitarizzare la Polizia parallelamente, nel 1966, due uomini come Freda e Ventura inviavano lettere anonime a 2000 militari, senza che i vertici militari né quelli politici obiettassero, annunciando la creazione di una struttura clandestina denominata “nuclei difesa dello Stato” costituita “in seno alle Forze armate” e da “militari di grande prestigio e autentica fedeltà” con il compito “di stroncare l’infezione prima che essa divenga mortale” partecipando a “una lotta vittoriosa contro la sovversione”.

Ecco forse una risposta all’ostracismo per il varo della legge di Riforma della Pubblica Sicurezza e la continua diffidenza verso una futura Polizia civile e anche la spiegazione per cui molti poliziotti della prima ora vennero definiti “inaffidabili” e “sovversivi” dall’allora gerarchia militare e oserei dire sino ad oggi benché le stellette siano scomparse dai nostri baveri.

Forse è vero, o forse no, che rispetto a vent’anni fa ci sia più libertà di espressione e di parola, ma per quanto mi consta vedo notevoli passi indietro con una paurosa involuzione e una tremenda gerarchizzazione degli apparati tendente alla rimilitarizzazione latente della Polizia.

Si potrebbe continuare a lungo su questa analisi ma alla fine non vorrei che da ciò si traesse una chiave di lettura tutta negativa di ciò che è stata la legge 121/81 e trarne consequenzialmente un necrologio.

Quindi vorrei concludere con alcuni spunti dell’intervento fatto da Riccardo Ambrosini in occasione del II° Congresso Nazionale del Siulp del 1987 , che furono valutati con molta sufficienza da chi era intento solo a salire i gradini della scalata alla somma vetta non curandosi, ieri come oggi, della categoria che avrebbero dovuto rappresentare.

Dal momento che li ritengo ancora validi li ripropongo come spunto di riflessione per le giovani leve invitandole a meditare e a rivedere la nostra storia al fine di non concedere mai deleghe in bianco a chicchessia: “Dobbiamo camminare sulla via maestra della costruzione dal basso di un sindacato capace di esprimere le sue scelte; il sindacato si trova in una situazione pericolosa di stallo politico e ideale, foriera di sconfitte politiche e tracolli organizzativi; quattro punti sui quali si dovrebbe operare urgentemente e contemporaneamente per bloccare ed invertire questa tendenza negativa; individuazione di riferimenti ideali e dei passaggi pratici per realizzarli; la piena applicazione della democrazia nel sindacato; la ridefinizione dei rapporti con i sindacati confederali; il cambiamento del gruppo dirigente del Siulp. Più libertà vuol dire più stato! Errore gravissimo, compagni ed amici di Cgil-Cisl-Uil, è stato quello che ha consentito che il movimento operaio fosse scacciato dalla sua centralità e costretto all’angolo della pura difesa economico-sociale, errore fatale non certo solo vostro ma anche vostro, che ha fatto subire alla classe operaia italiana la più grave sconfitta dopo quella degli anni 20.

Oggi la riforma è saldamente nelle mani dell’Amministrazione, e il Siulp oscilla tra l’accomodamento e la puntata di piedi talvolta velleitaria; fino ad oggi la filosofia della riforma imposta dall’Amministrazione non ha incontrato seri ostacoli, perché anche il Siulp, di fatto, l’ha condivisa. Il sindacato ha contestato singole iniziative, agendo sempre di rimessa, sempre in modo subalterno.

L’attuale gruppo dirigente del nostro sindacato, al di là delle singole persone che lo compongono, si è rivelato complessivamente incapace di tenere una gestione ‘alta’, strategica, dinamica del sindacato, ha assimilato la parte peggiore della cultura politica del sindacalismo confederale, ha mantenuto un atteggiamento al tempo stesso subalterno e velleitario nei confronti dell’Amministrazione, ha insomma in larga parte sprecato e dissipato le energie del Movimento.

Se si vuole potere perché dividerlo con gli altri? Perché non averlo tutto portando dalla propria parte coloro che si oppongono? Perché per convincere gli altri che non fanno parte della ‘parrocchia’ bisogna mettersi in gioco, avere idee, e le idee non nascono dal cervello di Giove, ma dal confronto pieno e concreto con le cose!

Questa crisi sta conducendo alla frantumazione dei soggetti sociali, alla atomizzazione delle spinte e, perciò, allo stallo politico, ed è la premessa del caos e della svolta autoritaria.

È più comodo certo agire secondo copioni prestabiliti, senza imprevisti e sorprese, ma se continuiamo su questa strada, quello che non paghiamo in termini di fatica e di rischio, giorno dopo giorno, lo pagheremo tutto insieme, con gli interessi, prima o poi”

Ben sappiamo che ogni stagione produce i suoi frutti, e per certi aspetti la legge 121/81 non è null’altro che un frutto di una determinata stagione che allo stato attuale sta attraversando il suo periodo autunnale con la perdita di foglie qua e là e si sta, forse, avvicinando anche al momento invernale, ma non sarà oggi, e forse neanche domani, ma prima o poi arriverà la primavera.

La natura con tutte le sue manifestazioni è ciclica e chi ha gioito durante i periodi autunnali ed invernali sappia che prima o poi una nuova primavera esploderà con tutta la sua magnificenza di colori, di germogli, di profumi ed il risveglio di tutto il creato. È solo una questione di tempo ma la nuova primavera arriverà!

 

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VENTENNALE

Valter Vecellio: Quell'incontro del maggio 1977

 

Il primo incontro con Franco Fedeli lo devo ad uno scontro, una polemica. Franco da qualche mese aveva abbandonato Ordine Pubblico, per non dover sottostare ad imposizioni dell’editore che riteneva, non a torto, inaccettabili, e aveva dato vita ad una nuova rivista, Nuova Polizia e Riforma dello Stato. Con lui, perché c’era lui, erano andati tutti i redattori e i collaboratori di Ordine Pubblico. La storia si ripeterà quando, anni dopo, la convivenza con l’editore di Nuova Polizia risulterà impossibile, e Franco si getterà in una nuova avventura editoriale, quella da cui poi è nata Polizia e Democrazia. E già questi due episodi la dicono lunga sul personaggio e sulle sue qualità e capacità.

L’incontro-scontro è legato al 12 maggio del 1977, una di quelle giornate il cui ricordo mi seguirà sempre. Era l’anniversario della grande vittoria dei “Si” al referendum sul divorzio, voluto dal Vaticano, dalla Dc di Amintore Fanfani e dai neofascisti di Giorgio Almirante. Il Partito Radicale inoltre stava raccogliendo le firme per altri referendum, con i quali si chiedeva tra l’altro di abrogare le norme fasciste allora contenute nel Codice penale, i Tribunali e i Codici militari. L’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga aveva pretestuosamente vietato, per motivi di ordine pubblico, tutte le manifestazioni, per un mese. Anche il concerto del 12 maggio a piazza Navona, per festeggiare la vittoria divorzista e raccogliere le firme per i referendum. Un divieto ingiusto, e i radicali annunciarono che avrebbero pubblicamente disobbedito.

Reparti di Carabinieri e Polizia furono mobilitati per impedire che si potesse accedere a piazza Navona. Ci furono violente cariche, aggressioni, fermi, arresti. Ricordo come fosse oggi il vice questore in borghese del primo distretto che mi massacrò di cazzotti, e poi mi fece rinchiudere in cella di sicurezza per ore. Al processo che ne seguì, il Tribunale riconobbe le mie buone ragioni, e non vi fu alcun seguito. Si era molto risentito, quel vice questore, per un epiteto che mi era uscito di bocca, dopo che a freddo mi aveva dato un pugno allo stomaco (come neppure Mike Tyson), che mi aveva letteralmente piegato in due. E quello fu il meno. Dalle tre del pomeriggio fino alle sei il centro storico di Roma, da piazza Navona fino a Trastevere, divenne terreno di battaglia. C’erano squadre di agenti di Polizia in borghese, travestiti da autonomi, che si incaricavano di provocare i manifestanti; in alcuni casi si sparò, anche ad altezza d’uomo. È tutto documentato, scritto, provato; in un libro bianco sono state raccolte decine di fotografie e di testimonianze di parlamentari e giornalisti del Messaggero, del Corriere della Sera, della Repubblica. Qualcuno quel pomeriggio cercava il morto; e alla fine il morto ci fu: una ragazza, Giorgiana Masi, colpita all’altezza del Ponte Garibaldi, stava andando al concerto con il suo fidanzato. Di quello solo era colpevole. Un’altra ragazza, Elena Ascione, fu ferita gravemente.

In televisione Marco Pannella denunciò l’accaduto, la provocazione, la sua regia, i “mandanti”. Usò parole di fuoco, come solo Pannella sa usare. Parlò, tra l’altro, di agenti di Polizia “travestiti da lupi, che qualcuno voleva fossero lupi”.

Su Nuova Polizia di giugno apparve una breve nota. Le accuse di Pannella erano definite “infami e generalizzate”, il leader radicale “abbaia una farsa d’avanguardia neo qualunquistica”. Non so se quella nota la scrisse di suo pugno Franco o qualche collaboratore della rivista. So che mi fece male leggere quelle cose: io quel pomeriggio avevo visto com’erano andate le cose; ero stato massacrato di botte, denunciato; non avevo neppure fatto il gesto di alzare un dito, eppure mi avevano strappato i vestiti, picchiato, sputato in viso…

Scrissi una nota molto lunga e molto dura, contestando punto per punto i giudizi dati. Franco non batté ciglio; la pubblicò nel numero successivo, accompagnando alla mia, una nota redazionale, in cui si ribadiva con minore durezza nei toni, ma eguale fermezza nei contenuti, la posizione assunta.

Qualche giorno dopo Franco mi telefonò, voleva conoscermi; concordammo un appuntamento; mi invitò a collaborare alla rivista. Accettai perplesso. Cosa mai potevo scrivere, io che da quel mondo ero lontano, non avevo mai indossato una divisa in vita mia? Non era presuntuoso e velleitario da parte mia? “Vedrai che gli argomenti non ti mancheranno”, rispose Franco sorridendo. Aveva ragione lui. Gli argomenti non mancavano, e potei trattarli in piena libertà come raramente accade in altri giornali.

È stata un’esperienza preziosa. Anni dopo Franco decise di raccogliere in volume parte delle lettere che da ogni parte d’Italia gli giungevano; Da sbirro a tutore della legge è il titolo di quel libro, che racconta l’emarginazione, i problemi personali, le tensioni e i pericoli di un mestiere difficile come quello del poliziotto. La prefazione è di Leonardo Sciascia: “Per quanto possa sembrare paradossale, sono stati i buoni cittadini a fare le cattive Polizie, più o meno consapevolmente operando come Bernard Shaw diceva facessero i bianchi nei confronti dei negri: prima li costringono a fare i lustrascarpe, poi dicono che sono soltanto capaci di fare i lustrascarpe. Prima i buoni cittadini li hanno fatti poliziotti in un dato modo, poi li hanno considerati incapaci di essere poliziotti in un modo diverso”.

Ecco: Franco non era, da questo punto di vista, un “buon cittadino”; lui sapeva perfettamente che i poliziotti qualcuno li voleva fatti in un certo modo, ma a lui quel “certo modo” non piaceva. E sapeva che potevano essere capaci di esserlo anche in un modo diverso. E oggi si può dire che molti lo sono, poliziotti in “modo diverso”; e provo amarezza: perché troppi mostrano di aver dimenticato l’impegno di Franco, e che a lui siamo un po’ tutti debitori.

“Tra le tante cose nostre di cui abbiamo poco o nulla da rallegrarci”, scriveva Sciascia, “questa è una delle poche che ci dà una certa fiducia nell’avvenire: che dalla scorza dello sbirro - di quello che i buoni cittadini chiamano lo sbirro - stia per venir fuori il tutore della legge, della legge che è uguale per tutti, della legge che a tutti garantisce libertà e giustizia”.

Se è così - e io credo che sia così - buona parte del merito va a Franco. Di cui sono onorato d’essere stato collaboratore e amico. E le parole riescono a esprimere solo in minima parte il sentimento di gratitudine che ho per una persona cui tanti, tanto devono.

 

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VENTENNALE

Massimo Buggea: fronte sindacale disgregato

 

Il ventesimo compleanno della legge 121 lascia ancora insolute molte questioni, sia di carattere storico che socio-politico.

Un primo interrogativo si pone ancor prima della Riforma della Polizia e consiste nel chiedersi come mai un’istituzione tipicamente civile sia stata mantenuta per lungo tempo sotto l’organizzazione militare.

Non appare sufficiente considerare unicamente le difficoltà della società italiana del secondo dopoguerra, anche se hanno influito in modo diretto su alcune scelte. Similmente non sembra sostenibile la teoria di chi giustifica la militarizzazione delle Forze di polizia con la loro scarsa affidabilità politica; secondo i fautori di tale interpretazione una Polizia “con le stellette” costituirebbe una garanzia sia per l’imparzialità operativa, sia come argine di protezione in funzione anti-democratica.

Se si riconosce il ruolo delle Forze dell’ordine nel funzionamento dell’apparato statale non si può che evidenziare come tra il 1943 ed il 1981 lo stesso Stato abbia attuato un controllo rigoroso su questo settore attraverso le gerarchie militari. Questo tipo di gestione ha precluso i miglioramenti organizzativi interni ma soprattutto ha reso impermeabile l’organizzazione “Polizia” rispetto alle istanze di sicurezza dei cittadini. A ciò si deve, in parte, il divario attualmente esistente tra richiesta di sicurezza ed impegno di adeguamento da parte delle Forze dell’ordine.

La situazione in cui si viene a trovare la Polizia italiana sul finire degli anni sessanta è frutto anche di una concezione della politica che tende a separare la sicurezza dal contesto sociale di riferimento.

L’aver individuato questa collocazione storica e l’impegno per creare condizioni migliori di vita e lavoro costituiscono un patrimonio ed un merito indiscusso dei poliziotti “riformatori” ispirati e guidati da Franco Fedeli.

Ma oltre questi indiscutibili aspetti storici il percorso che ha condotto all’attuazione della legge di riforma risulta costellato di interventi esterni che non sono univocamente riconducibili alla volontà degli appartenenti al Corpo: in questo senso la Riforma è frutto di compromessi e mediazioni. Ed è emblematico in questo senso il ruolo giocato, al tempo, da governo ed opposizione, con il primo proteso a difendere fino all’ultimo gli assetti esistenti, la seconda impegnata nel collegare il “Movimento per la smilitarizzazione e la sindacalizzazione” al mondo operaio.

Sono trascorsi venti anni, ma parlandone sembra di evocare un mondo la cui memoria si perde nel tempo, anche se sappiamo che l’approvazione della 121 fu il frutto di un compromesso come lo furono centinaia di altre leggi, nella coerenza con la logica che sorreggeva la politica di quegli anni.

Anche dal punto di vista linguistico molti degli elementi innovativi proposti dal Movimento risultano impoveriti se non stravolti nel loro significato: è l’effetto di una costante opera di adeguamento lessicale certo giustificata dalla formalizzazione ma su cui sarebbe opportuna un’analisi specifica.

Tra il 1981 ed il presente c’è una lunga serie di modifiche alla legge 121 che non si sono collegate allo spirito innovatore della norma; anzi a questo proposito si può affermare che una delle più gravi lacune della legge 121 è evidenziata dalla discontinuità delle leggi integrative rispetto alla norma di riferimento.

La legge di riforma, come tutte le leggi, non poteva avere poteri taumaturgici: per altro la smilitarizzazione era un atto dovuto e qualsiasi ulteriore ritardo avrebbe avuto ripercussioni politiche non indifferenti. È sulla sindacalizzazione che si focalizzano le aspettative dall’aprile del 1981; anche per analizzare i comportamenti sindacali venti anni rappresentano un periodo di riferimento significativo.

Personalmente sono convinto che il sindacalismo nella Polizia sia rappresentato attualmente in linea di continuità rispetto agli ideali dei “carbonari” solo ed esclusivamente da chi vive con passione questo impegno.

Parlare di sigle, parlare del diverso approccio rispetto ai problemi o argomentare sui referenti politici o sindacali è del tutto di secondaria importanza: nella scala di valori prima viene quel gruppo di sindacalisti che, in Polizia come altrove, svolge il suo lavoro con onestà, coraggio e tenacia, cercando di ascoltare gli altri senza proporre soluzioni preconfezionate, ammettendo gli errori ed impegnandosi contro qualsiasi forma di ingiustizia.

La grande discriminante contemporanea tra i sindacati di Polizia non potrebbe essere ricercata nel valore aggiunto di una compagine rispetto ad un’altra: quando in un settore si concentrano molte sigle di organizzazioni di lavoratori non risulta possibile (nemmeno tecnicamente) differenziare le posizioni sulla base delle reali esigenze o delle idee condivise.

L’articolo 95 della legge 121 ha gettato le basi per la proliferazione dei sindacati: il momento contrattuale ha attirato l’attenzione di tutti a tal punto da divenire il fulcro dell’attivismo.

La mancanza di una cultura delle relazioni sindacali ed una forte tendenza alla conflittualità interna hanno contribuito a disgregare il fronte sindacale in mille rivoli. Nelle strutture organizzative sindacali si sono esportati modelli di riferimento antidemocratici che hanno reso ancor più complesso ed articolato lo scenario.

Gli “eredi” del Movimento dei poliziotti sono un gruppo trasversale, che approccia la realtà quotidiana con l’occhio curioso tipico di chi si interroga sulle cose di tutti i giorni; spesso c’è un impegno politico, religioso o laico che sottende la proiezione nel sindacato, ma non è un requisito indispensabile.

In questo gruppo di sconosciuti, del quale non conosciamo la consistenza numerica pur conoscendone personalmente molti, riponiamo le residue speranze di un recupero dei valori affermati durante l’assemblea di Empoli del febbraio 1975 e di un’attività sindacale basata su valori piuttosto che su schemi: altrimenti la legge 121/81 resterà una pagina storica da consultare negli archivi ma non da attuare.

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VENTENNALE

Quanta nostalgia

Luigi Duca
 

Mi dispiace di essere troppo vecchio e malato di cuore, tuttavia ho nell’anima tanta nostalgia della mia giovinezza; perché vorrei lottare ancora per dare sempre più prestigio alla Polizia italiana. Ricordo con tanta commozione Franco Fedeli: non finirò mai di ringraziarlo perché ci ha difeso sempre con tenacia, lottando a fianco di noi “carbonari”, sempre presente ovunque fosse necessaria la sua presenza, al fine di conseguire la nostra Riforma, superando ostacoli d’ogni tipo. Quanto vorrei vedere, magari in un piccolo paesino d’Italia, un ricordo marmoreo del nostro Fedeli (anche se so perfettamente che lui queste cose non le vorrebbe).

Sono contento di aver lottato, insieme a tanti altri colleghi, per la Riforma dell’Amministrazione della pubblica sicurezza e la nascita della Polizia di Stato. E questa Riforma indubbiamente, ci ha portato grandi benefici, sia a noi che ormai non siamo più in servizio, sia per i colleghi di oggi che, tra l’altro, possono anche godere di una libertà di espressione che una volta avevano solo i nostri “superiori”, sia quando avevano ragione, ma soprattutto quando non l’avevano. Non voglio aggiungere altro, se non che nella Polizia italiana finalmente è entrata una ventata di libertà, elemento indispensabile per tutti i componenti della società.

Forse questo mio contributo di vecchio “carbonaro” è troppo sintetico, ma non so fare di più.

Luigi Duca - Brescia

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VENTENNALE

La nostra volontà di ferro

Pasquale Sambuco
 

Desidero far giungere un mio pensiero, nell’occasione del ventennale della Riforma della Polizia. Vorrei tanto sbagliarmi, ma ho fondati dubbi, che oggi, pochissimi sanno che la Riforma fu conquistata duramente, dico molto duramente, perché allora, non si doveva superare solo la resistenza del ministero dell’Interno, i suoi dualismi, ma soprattutto quella delle forze politiche, le quali tutto pensavano, tranne che all’aggiornamento democratico della Polizia.

Le forze politiche di allora, restarono traumatizzate alla richiesta di smilitarizzazione e sindacalizzazione; ricordo che la stampa dell’epoca titolava “Vogliono disarmare la Polizia”. Purtroppo i cittadini ci credevano.

L’allora “Movimento per la smilitarizzazione e sindacalizzazione della Polizia” intensificava gli sforzi, facendo riunioni per coinvolgere la maggior parte dei poliziotti e questo, ricordo, fu il passo facile direi, perché in tutte le province la percentuale dei  firmatari aderenti era del 90/93%. Fu questa la risposta più incoraggiante, anche se era nelle previsioni scontata.

Ricordo che i poliziotti più coraggiosi avevano una unica possibilità: tormentati e martoriati dai metodi di servizio, dai “moduli”, erano esasperati e trovavano coraggio scrivendo al compianto Franco Fedeli esprimendo le doglianze delle ingiustificate illogiche vessazioni che andavano subendo. Fedeli scrisse un libretto dal titolo “Eroi senza medaglie”.

Ma il desiderio, la volontà ferrea dei poliziotti era tanta, che pur dovendo sottostare a quei modelli di servizio illogici, senza scopi, cercavano in ogni modo di arrivare ad una riforma.

Ricordo che tanto più era viva la forza dei poliziotti riformisti, quanto più era dura la resistenza ministeriale e parlamentare; nonostante gli sforzi, non riuscivano mai a dire si, ma sempre il classico ni.

Ricordo che la proposta di riforma subì  11 o 12 rinvii, con altrettante correzioni. Chi proponeva il “Comitato dei bussolotti”, chi le Commissioni paritetiche, chi sceglieva di non smilitarizzare la Polizia stradale, e tante tante altre simili proposte che non stavano né in cielo né in terra.

Un ultimo colpo finale lo dette, mi pare l’on. Piccoli, che volle presentare una riforma tutta del suo gruppo, che non poteva essere accettata da noi.

Qui, ricordo i suggerimenti di Fedeli, Ambrosini, Lama, Marini e i tanti poliziotti della Capitale, fra essi sempre l’anima della Riforma, il generale Felsani: di accettare la riforma comunque essa fosse, anche la più strampalata. Angela Cammarano sindacalista abruzzese, consorte di un poliziotto che aveva trovato la fortuna di lasciare la Polizia per un impiego civile, ma che aveva lasciato nell’animo della consorte la realtà dolente della nostra vita, cercava di convincerci, dicendo “con i contratti tutto si può raddrizzare; il necessario è ottenere di sedersi allo stesso tavolo”. Che donna coraggiosa, quanto coraggio dimostrò per aiutarci in ogni modo!

Contemporaneamente occorreva tenere fermo l’irrequieto D’Alberto, che con 2 processi al Tribunale militare della Capitale, era disponibile a tutto, spericolato com’era (direi com’è tuttora) incurante di tutto, sosteneva riunioni a destra e a manca, ricordo i numerosi suoi articoli sulla stampa dove definì un colonnello della Polizia come Pinochet.

Che dire poi della riunione a Vico Equense? Voci circolavano che il Ministro dell’Interno aveva disposto 600 carabinieri per farci arrestare, se noi avessimo deliberato il tesseramento.

Noi eravamo più di mille e ci domandavamo: sarà attendibile la minaccia? Perché sì, eravamo poliziotti dai metodi arretrati, ma la nostra mente non era altrettanto. Alla pausa del pranzo tutti eravamo presi dalla soluzione non remissiva e legittima contemporaneamente. Ci dicemmo: ma dove troverà mai il Ministro lo spazio per contenere in carcere i poliziotti riformisti?

Decidemmo il tesseramento; poi seppi che v’erano state telefonate interlocutorie fra il Ministro ed i nostri vertici del Movimento.

Un fatto mi preme ricordare, per l’amore della verità. Il generale Enzo Felsani, il più quotato per essere nominato tenente generale della Polizia, quindi in pectore, non fu mai promosso, proprio perché era riformista. A lui fu preferito altro che non aveva la stessa capacità e soprattutto la sua cultura democratica dell’essere cittadino e voler essere cittadino poliziotto.

Quante mortificazioni quest’uomo andava subendo! Ma, dall’altra parte c’eravamo e ci siamo noi, che come contrappeso, gli dobbiamo eterna riconoscenza.

Ripensando alle sofferenza di altri riformisti, ricordo quanti di essi, oggi, non sono più tra noi. Ma lo sono e resteranno nei nostri cuori, nelle nostre menti.

Una sera, sentivo parlare di Forleo alla televisione: quanti travagli ha subìto, Ciccio carissimo; il tuo carattere non abbisogma di incoraggiamenti perché sei razionale, consapevole dei tuoi legittimi comportamenti, quindi vai avanti. Tu sei sempre nella nostra mente, ti guardiamo come guida nel servizio della Polizia di oggi.

I riformisti della Polizia, non hanno mai pensato alla propria utilità, convenienza, promozione, ma solo a rendere un servizio più preparato, più capace di rispondere alle crescenti quotidiane richieste dei cittadini. Nessuno ha pensato di fare la Riforma per ottenere qualche cosa. Importante è aver ottenuto che anche l’Agente avesse la possibilità di percorrere tutti gli scalini dell’Amministrazione, che fosse remunerato come cittadino non di serie B, che possa dire la propria opinione anche attraverso i sindacati di Polizia (che sono tanti).

Pasquale Sambuco - Teramo

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VENTENNALE

Sandro Canestrini: lo spirito della democrazia

 

Vengo affettuosamente richiesto di dare un contributo nell’occasione del Ventennale della istituzione della Polizia di Stato. Sia pure ben modestamente ritengo di non potermi sottrarre a tale richiesta formulata da un direttore di “Polizia e Democrazia” che è ben degno di essere subentrato a Franco Fedeli. Dico subito che quando io scrivo o penso di Franco Fedeli, un moto di commozione mi invade. Era un uomo preparato e disinteressato, in cui la forza dell’ideale prevaleva su ogni altra spinta emotiva e morale. Davvero egli è morto esausto per il lavoro tremendo che ha dovuto svolgere per portare a termine la battaglia per portare, nell’istituto allora ancora chiuso della Polizia, lo spirito della democrazia.

Si affollano alla memoria tanti e tanti episodi”: le tumultuose assemblee iniziali dove, piano piano emergevano gli uomini che avevano capito l’impegno di Franco e che si schieravano apertamente per esso. Assemblee dove, con il massimo della libertà, vi era anche un concreto pericolo, che più volte colpì. Un tipo di assemblee di questa natura, uno sciopero di questa natura, una sfilata pubblica di questa natura, qualunque articolo che in materia venisse scritto, veniva passato alla vigilanza dei “superiori” tesa individuare forme di violazioni penali.

È il caso di sottolineare un aspetto che forse altri non riterranno di riprendere e cioè che se oggi viviamo in uno stato in cui la Polizia non è un Corpo militare, se viviamo in una organizzazione politica dove la Polizia è un prezioso aiuto per gli accertamenti della verità e fa ben più leva su questi che sullo sfilare in pompa magna e su carri armati, dobbiamo guardarci indietro e sapere che cosa era l’organizzazione della Polizia qualche decennio fa. La drastica scure di Scelba e dei suoi amici aveva tentato di tagliare in un modo netto ogni filo di collegamento democratico delle Forze di polizia con la Resistenza e con la Costituzione.

Licenziamenti, potere di ferro dei questori, rigida disciplina erano le armi con cui si volevano allevare non degli uomini partecipi del grande lavoro che la nazione intera stava facendo per crescere e per prosperare, ma solo dei rabbiosi esecutori di ordini. Ancora oggi certi ricordi non sono del tutto passati, ma è certo che allora più che la ragione valevano i colpi di manganello e più che la discussione valevano le cariche della Celere: e talvolta anche le denuncie penali nelle quali siamo sempre stati, anche come difensori, fianco a fianco, nelle aule dei tribunali, ai poliziotti ingiustamente accusati.

Siamo a buon punto con le modifiche passando anche attraverso momenti drammatici, come tutto il quesito se la nuova Polizia doveva essere o meno alleata alle grandi organizzazioni sindacali; se le spettava o meno il diritto di sciopero; se le spettava o meno l’esercizio dei diritti concessi a tutti i cittadini. Battaglie compiute con senso della giustizia e della misura, ma alle quali bisogna rivolgersi per appunto ripercorrere il cammino fino ad oggi.

“Polizia e Democrazia” è il giornale che dice di ispirarsi a principi di attualità, ma è molto di più perché è il legame tra la Polizia e il mondo esterno e il modo con cui poliziotto e cittadino possono intendersi.

Io auspico vivamente che questo legame sia sempre più stretto e quell’accordo sempre più frequente, in nome di Franco Fedeli.

 
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PENSIONI

Il nuovo calcolo

Giuseppe Chiola
 

Pubblichiamo, qui di seguito, un esempio di calcolo della pensione di un primo Dirigente della Polizia di Stato (trattamento economico di Dirigente Superiore a norma dell’art. 43, comma 23, della legge 121/81), dispensato dal servizio per fisica-inabilità a decorrere dal 19 febbraio 2001 e con anzianità utile a pensione pari a 36 anni e 6 mesi, eseguito con il criterio delle doppie quote di cui agli articoli 7 e 13 del d.lgs 503/92 e successive modificazioni ed integrazioni.

Questo nuovo metodo di calcolo determina, per l’interessato, una differenza in meno di sole 48.693 lire mensili nette, rispetto al vecchio sistema. Infatti, se la pensione fosse stata calcolata sulla sola quota “A” sarebbe risultata: (105.361.223 X 73,70%) + (52.941.803 X 15% X 73,70%), diviso 12 meno Irpef = 5.096.083 lire mensili nette. Va precisato che lo stesso funzionario, avendo trascorso gli ultimi 15 mesi in aspettativa per infermità, non ha potuto usufruire della retribuzione accessoria sulla quota “B”, in alternativa alla maggiorazione del 18% di cui alla legge 177/76, altrimenti non avrebbe avuto alcuna decurtazione.

Diverso è il discorso per i lavoratori che alla data del 31 dicembre 1995 non avevano raggiunto un’anzianità contributiva pari o superiore ai 18 anni, per i quali trova applicazione il cosiddetto sistema misto (retributivo fino al 31.12.95 e contributivo dal 1° gennaio 1996 in poi), con conseguente sensibile diminuzione del trattamento pensionistico.

Risulterà penalizzato, in misura più modesta, anche il personale con più di 18 anni di servizio utile al 31 dicembre 1996, ma con meno di 15 al 31 dicembre 1992 (vale solo per i lavoratori del Comparto Sicurezza e per quelli addetti alle cosiddette attività usuranti, per i quali sono previsti aumenti di anzianità figurative). Questo personale, infatti, pur conservando il sistema interamente retributivo, è soggetto al disposto di cui al 1° comma dell’art. 7 del d.lgs 503/92, che stabilisce di considerare l’intero periodo intercorrente dal 1° gennaio 1993 alla data del pensionamento, ai fini della determinazione della retribuzione media pensionabile (quota B).

 
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LABORATORIO

Un grido di dolore

 

Ecco il testo di una lettera che il Coordinamento Donne del Siulp ha inviato, l’8 marzo di quest’anno, al Ministro delle Pari Opportunità.

“Da tempo il Coordinamento Donne Siulp è impegnato su tutto il territorio nazionale nel raccogliere elementi utili alla elaborazione di proposte che rendano il difficile quadro organizzativo della Polizia di Stato più compatibile con una società che, sempre più, è orientata verso una maggiore affermazione dei diritti dell’individuo e della famiglia, diritti che troppo spesso sono stati riconosciuti sulla carta ma ignorati proprio nei rapporti con le Istituzioni.

E mentre molto è stato fatto per attribuire maggiore valenza ai bisogni del cittadino nel suo rapporto con le Istituzioni, riconoscendo una centralità della sfera soggettiva dei diritti, l’apparato da cui dipende la Polizia di Stato, si è reso protagonista in questi anni, di un’involuzione culturale che ne ha appiattito i connotati essenziali sul modello militare provocando, come era prevedibile, un rafforzamento delle logiche burocratiche, che oggi di fatto soffocano quel naturale respiro che in uno stato di diritto deve essere riconosciuto alla sfera individuale e personale della vita di un lavoratore.

Vorremmo dare alla giornata dell’8 marzo un positivo senso di concretezza allargandone la portata al concetto di Pari Opportunità non solo tra uomo e donna ma tra cittadini/e e poliziotti/e, sottoponendo alla Sua autorevole attenzione alcune proposte di modifiche del quadro normativo che disciplina il rapporto di lavoro, consapevoli che una società che si prepara a tutelare le differenze non può avvalersi di apparati che riconoscono solo l’omogeneità.

Mobilità - Nel corso dell’incontro svoltosi presso gli Uffici del Ministero da Lei diretto, l’8 novembre 2000, una delegazione del Coordinamento Donne consegnò un elenco di situazioni personali relative ad alcuni lavoratori di Polizia, padri e madri, che a causa di un sistema di mobilità vetusto e anacronistico, sono costretti a lavorare ‘per legge’ lontano dai figli e dal proprio nucleo familiare.

Come noto, il bando di concorso per Agenti effettivi contiene il divieto di chiedere come sede di prima assegnazione la provincia di residenza e quelle confinanti, mentre il bando di concorso per l’accesso al ruolo Ispettori è ancora più penalizzante in quanto il limite di cui sopra è esteso non solo alla regione di residenza ma anche a quella di nascita. Quest’ultimo limite viene imposto anche a coloro che partecipano alla quota di posti riservata a chi è già appartenente alla Polizia di Stato. Da notare, innanzitutto, l’anomalia di un limite che non è previsto nel bando di concorso per Commissari, i quali possono prestare servizio tranquillamente nella loro città di provenienza. Da poco è stata emanata una circolare ministeriale contenente rigorosi criteri cui il Ministero si atterrà nel gestire le domande di trasferimento che verranno accolte nel rispetto di una graduatoria in base ad elementi nel complesso condivisibili. Tuttavia, grande perplessità suscita la circostanza che dette istanze non verranno neanche prese in considerazione laddove il dipendente non abbia maturato almeno quattro anni di servizio in sede. Da questo quadro normativo, pur sinteticamente esposto, emergono con chiarezza alcune gravi devianze rispetto ad un processo di valorizzazione della famiglia intesa, non solo come luogo primario di crescita e formazione, ma anche come espressione dell’intimità e della sfera affettiva di ciascuno. Infatti, il combinato disposto esposto dai precedenti dettami, fa sì che il lavoratore o la lavoratrice di Polizia che hanno già un bambino, per legge staranno lontano dalla prole per almeno quattro anni, non solo: in tale periodo può accadere, come già verificatosi in tante province, che nella città che il lavoratore non potrà richiedere come sede, vi potrà essere paradossalmente assegnato d’ufficio personale appena uscito dalle scuole e che nella migliore delle ipotesi avrebbe preferito lavorare in altra città. Oltre enormi ‘guasti’ all’integrità della famiglia, questo pregresso sistema di assegnazione e mobilità del personale provoca ‘a cascata’ un’infinita serie di problemi sotto il profilo alloggiativo. Infatti, oltre a non poter tornare nella città di provenienza, il lavoratore di polizia apprenderà solo 48 ore prima dell’inizio dell’attività lavorativa la sede di destinazione. L’attuale congestione delle caserme, che si acutizza puntualmente e drammaticamente ogni volta che arrivano ‘nuove leve’, ne è la prova lampante. Il disagio della vita di caserma impedirà a molti poliziotti un’adeguata integrazione nel tessuto sociale; ciò, inevitabilmente, anziché stimolare l’inserimento nella città di assegnazione, non farà che esasperare la legittima aspettativa di tornare nelle sedi di provenienza, alcune delle quali, peraltro, hanno una limitata capacità recettiva di personale rispetto alle numerose domande di trasferimento, costringendo i lavoratori di Polizia ad attese ultradecennali.

Questo Coordinamento, pertanto, chiede che anche attraverso un adeguato periodo di transizione, si giunga gradualmente ad eliminare qualsiasi limite geografico, sia nell’assegnazione della prima sede, sia nelle assegnazioni conseguenti le progressioni di carriera. I vincitori di concorso, genitori di figli di età inferiore a dodici anni, dopo un periodo di transizione, dovrebbero essere assegnati, automaticamente, preferibilmente nella città dove risiede la famiglia o alla sede di lavoro ad essa più vicina.

Alla luce di quanto esposto, sarebbe auspicabile anche l’abolizione del limite dei quattro anni di servizio in sede, sanando, così le tante contraddittorie situazioni, evitando disagi ai singoli ed alle loro famiglie allo scopo di ‘armonizzare’ i tempi in un’ottica comunitaria.

Aggregazioni - L’aggregazione anche in sovrannumero rispetto all’organico è prevista nel Contratto Nazionale di Lavoro per gravi motivi di famiglia. La genericità del requisito rende la gestione di questo diritto naturalmente fumosa ed ambigua: sarebbe opportuno imporre un termine perentorio all’Amministrazione allo scadere del quale si configuri un silenzio-assenso ed individuare una casistica di patologie a fronte delle quali l’esercizio del diritto funzioni come una sorta di automatismo. Di frequente è accaduto che il lungo silenzio dell’Amministrazione abbia vanificato la stessa richiesta in quanto deceduto il congiunto per il quale la stessa era stata inoltrata.

Applicabilità delle leggi - Il problema è connesso ai lunghi tempi che l’Amministrazione impiega per adeguare la propria azione amministrativa al susseguirsi delle nuove disposizioni normative di fonte legislativa che ne disciplinano l’attività funzionale.

In particolare l’attenzione del Coordinamento viene richiamata sulla prassi circa la ‘mancata attuazione’ - da parte di Funzionari e Dirigenti di Polizia - di leggi ordinarie dello Stato, senza la previa emanazione di circolari esplicative ed interpretative. Tali prassi determina una ‘sospensione’ de facto della vigenza delle norme di legge e dei diritti che le stesse riconoscono e garantiscono, creando nocumento all’attività della Pubblica Amministrazione e un danno a quei soggetti che invece la norma tutela. Un esempio tra gli ultimi riguarda il ritardo dell’applicazione dei ‘diritti’ previsti dalla recente legge sui ‘congedi parentali’; a numerosi dipendenti che richiedevano l’applicazione di quei diritti è stato risposto di attendere la circolare esplicativa che dopo svariati mesi dall’entrata in vigore della legge, non era ancora pervenuta.

In uno stato sociale di diritto retto dal principio democratico non è possibile ammettere la ‘sospensione’ di diritti previsti e garantiti dalle leggi dello Stato. A tal proposito tra i molteplici rilievi di carattere sistematico e tecnico-giuridico che i fatti narrati consentono si ritiene necessario far presente quanto segue:

a) l’art. 10 delle Disposizioni sulla legge in generale prevede - quanto all’inizio dell’obbligatorietà delle leggi - che le medesime, in linea di principio, divengono obbligatorie nel decimoquinto giorno successivo a quello della pubblicazione (vedi anche art. 73 Cost.). La ratio della disposizione è quella di consentire - tra l’altro - l’adeguamento delle amministrazioni alle nuove disposizioni normative. Il termine di 15 giorni - detto anche vocatio legis - è quindi ritenuto dal legislatore congruo per la presunzione di conoscenza da parte di tutti e per l’eventuale emanazione di circolari da parte delle Amministrazioni che le ritengono opportune. Trascorso tale periodo la legge diventa obbligatoria per tutti in conformità con il principio generale ‘ignorantia legis non excusat’;

b) quanto al rifiuto dei Funzionari e Dirigenti di assunzione di responsabilità di applicare le leggi dello Stato in assenza della circolare esplicativa, vale la pena ricordare quanto disposto dall’art. 28 della Costituzione della Repubblica italiana e si richiama l’attenzione sulla previsione degli artt. 323 e 328 del Codice penale che, in generale, sanziona la condotta del pubblico ufficiale, che nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge [...] arreca ad altri un danno ingiusto.

Legge 675/96 - Il secondo problema è connesso alla mancata applicazione delle garanzie previste dalla legge 675/96 sulla Privacy in merito al trattamento dei dati personali con particolare riferimento a quei dati definiti dalla norma stessa ‘dati sensibili’.

Anche in questo caso numerose segnalazioni giunte da tutta Italia, sollevano l’attenzione sulle modalità con le quali vengono trattati i dati relativi alla salute dei dipendenti. La prassi, in numerose questure, prevede l’obbligo - da parte del dipendente che si assenta per malattia - di fornire al proprio ufficio (es. all’Ufficio Personale del commissariato) il certificato medico comprendente sia la diagnosi che la prognosi. Mentre può avere una sua logica il fatto che l’Ufficio periferico debba essere messo a conoscenza della prognosi - ossia al fine di pianificare l’organizzazione del servizio e l’eventuale sostituzione del dipendente - non si comprende la ratio - soprattutto alla luce delle nuove norme - della necessità che l’Ufficio periferico (e quindi non esclusivamente quello sanitario competente) debba conoscere la patologia di cui è affetto il dipendente. Con questa prassi, ormai consolidata, numerosi colleghi e superiori del dipendente malato vengono messi nella condizione di conoscere ‘dati sensibili’ pur non essendo a ciò formalmente preposti.

Per uscir fuor di metafora, un poliziotto affetto da una qualsiasi patologia, prima di vedere trasmesso il proprio certificato medico all’Ufficio sanitario competente, lo deve vedere girare per tutto l’ufficio (Ufficio personale, segreteria, dirigente, vicedirigente o quant’altro), rischiando di subire ingiusti danni d’immagine, alla libertà ed alla dignità.

A questo punto la S. V. ci vorrà perdonare una innocente considerazione di parte, attesa la natura di questo Coordinamento. Non meno grave e lesiva si profila la divulgazione dei dati relativi alla salute dei dipendenti di sesso femminile che, per naturale costituzione fisiologica, sono più soggetti ad assentarsi per patologie fisiche che implicano anche delicati condizionamenti di natura psicologica (interventi all’apparato genitale, interruzioni di gravidanza, ecc.). È in questo caso ancor di più inopportuno, oltre che vietato dalla legge, divulgare nell’ambiente lavorativo questi dati, anche se purtroppo i fatti evidenziano il contrario.

I termini del problema, quindi, da un lato riguardano l’individuazione delle corrette procedure per il trattamento dei dati personali riguardanti lo stato di salute, dall’altro lato la predisposizione di idonee misure organizzative e tecniche per garantire la sicurezza del trattamento medesimo.

Entrambi tali realtà sono regolamentate da una disciplina legale che in questa sede, ci si limita a richiamare.

La normativa di riferimento per trattamento dei dati sensibili da parte dei soggetti pubblici è contenuta del d.lgs 11 maggio 1999, n. 135 e successive modificazioni ed integrazioni (d,lgs 30 luglio 1999, n. 281 e 30 luglio 1999, n. 282), disciplina questa che dà attuazione al disposto dell’art. 27, comma 1, della legge 675/96. Nell’individuare i limiti entro i quali il trattamento di dati personali è consentito ai soggetti pubblici, il d.lgs 135/99 stabilisce la necessità di rispettare durante il trattamento la ‘pertinenza [...], non eccedenza e necessità’ dei dati rispetto ‘alle finalità perseguite nei singoli casi’, rapporto questo che l’Amministrazione è tenuta a verificare specificatamente (art. 3, comma 3), pena l’inutilizzabilità dei dati raccolti.

Il ruolo fondamentale che nell’impianto normativo in esame assume il principio di ‘minima interferenza’, in questo modo codificato dal legislatore, risulta confermato - quanto al trattamento di dati personali idonei a rivelare lo stato di salute - dalla previsione di particolari cautele tecniche da seguirsi per il trattamento (art. 3, comma 4 e 5), nonché dal divieto di diffusione contenuto nell’art. 23, comma 4, legge 675/96, confermato dall’art. 4, comma 4 del d.lgs 135/99. In questa prospettiva sono da richiamarsi, altresì, le disposizioni del D.p.r. 28 luglio 1999, n. 318, che prevede le norme per l’individuazione delle misure minime di sicurezza per il trattamento dei dati personali a norma dell’art. 15, comma 2, della legge 675/96, nonché - quali norme di chiusura del sistema - l’art. 18 legge 675/96, quanto alla disciplina della responsabilità civile per ‘danni’ cagionati per effetto del trattamento di dati personali, nonché l’art. 36 legge 675/96, circa la responsabilità penale per l’inosservanza di misure necessarie alla sicurezza dei dati.

Per concludere è di tutta evidenza che la riferita prassi relativa alla gestione dei dati concernenti lo stato di salute dei dipendenti della Polizia di Stato effettuata dai singoli Uffici del personale istituiti presso i commissariati o altri Uffici decentrati non risponde alle prescrizioni della normativa in materia, e si richiede, pertanto, una verifica dello stato di attuazione della richiamata disciplina anche in attuazione dell’art. 27, comma 4, legge 675/96 il quale dispone che ‘i criteri di organizzazione delle amministrazioni pubbliche [...] sono attuati nel pieno rispetto delle disposizioni della presente legge’.

Questo Coordinamento Pari Opportunità, certo della Sua sensibilità, auspica che questi temi, che sicuramente meritano una trattazione più approfondita, entrino comunque nella sua agenda politica, prima che giunga a compimento quel processo di emarginazione della donna, iniziato forse ancor prima della sua integrazione, in quella che è senza dubbio una delle più delicate istituzioni della Repubblica”.

Il Coordinamento Donne Siulp

 
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