Pubblica insicurezza
Altro che scontro con i magistrati: il malessere sta dentro la polizia. I funzionari protestano, manifesta persino la Celere, la categoria è frantumata in 25 sindacati che badano al sodo e spesso chiudono gli occhi sulla «deontologia»

di Goffredo De Pascale e Mario Portanova

MILANO.

 

Questo testo. La polizia è sotto accusa per le violenze di Napoli, di Genova e non solo. Agenti e funzionari scoperchiano la pentola del malessere, e i magistrati non c’entrano. I loro problemi sono la militarizzazione strisciante, la formazione sbagliata, lo svuotamento professionale. E gli abusi dell’amministrazione. .

Polizia sotto accusa per le violenze di piazza. Polizia in rotta con la magistratura di Napoli per l’arresto di otto colleghi, ma non per i 200 messi sotto inchiesta nei dieci anni della gestione Cordova. Polizia divisa in 25 sindacati che si contendono oltre 60 mila iscritti, su una forza di 110 mila persone. Polizia che nel 1994 gridava a Roma «Maroni, Maroni, arresta Berlusconi» e oggi è coltivata abilmente dal centrodestra. Blandita dalla politica, poi spesso tradita. Al di là delle fiaccolate, però, molti sindacalisti, funzionari e semplici agenti denunciano un malessere che con le carte dei pm non c’entra nulla. Parlano di appiattimento dei ruoli e delle professionalità, di tensioni e abusi tutti interni all’amministrazione, per i quali nessuno accende fiaccole né si ammanetta. A cominciare proprio da Napoli dove, dietro i bagliori dello scontro con la Procura, si svelano problemi tutti interni alla Pubblica sicurezza. Il questore Nicola Izzo lascerà probabilmente la città con una promozione. Presto per lui i fatti del 17 marzo 2001 – i violenti scontri con i no global in una piazza del Municipio presidiata senza alcuna via d’uscita, i soprusi ai manifestanti che si sarebbero verificati nella caserma Raniero – saranno archiviati. Eppure nella «sua» Questura c’è tensione, accumulata in due anni di gestione segnati da continui e improvvisi trasferimenti. Tra Izzo, uomo di scrivania con una lunga carriera sindacale nel Sap, e molti dei funzionari non c’è dialogo. Nemmeno con il capo della Digos Paolo Tarantino che, fra l’altro, con le sue note e le sue verifiche fornisce materiale ritenuto importante dalla Procura per l’andamento dell’inchiesta. Non è il Viminale a far partire l’ordine di un trasferimento al commissariato di Nola che nemmeno era previsto. È il questore in persona a firmare il provvedimento il 26 aprile scorso (documento n. 2002/13464), lo stesso giorno in cui i pm Marco Del Gaudio e Francesco Cascini, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Mancuso, fanno arrestare gli otto poliziotti. «Quanto meno», commenta Giovanni Aliquò, segretario dell’Associazione nazionale funzionari di polizia (Anfp), «denota la mancanza di senso di opportunità da parte di un così alto funzionario, poiché dinanzi al trasferimento di Tarantino chiunque può essere indotto a pensare che la polizia non voglia fare chiarezza».
I funzionari (cioè dai commissari ai vicequestori) sono in agitazione. È la stessa Anfp che il 10 luglio dello scorso anno ha indirizzato al capo della polizia Gianni De Gennaro una durissima lettera in cui si denuncia che «in poco più di un anno di nuova gestione circa l’80 per cento dei funzionari è stato avvicendato e ben otto divisioni su dieci hanno cambiato dirigente». E ancora: «È sintomatico poi che, in una serie di importanti occasioni, si siano ripetuti gravi turbamenti dell’ordine pubblico con esiti mai registrati nelle due precedenti gestioni. Una concausa certa dei disordini è stata anche l’irrazionale sottovalutazione dei rischi e la mancata predisposizione di misure, mezzi e uomini idonei e sufficienti a fronteggiarli», scrive il sindacato di Aliquò, che pure dopo il G8 di Genova si schierò nettamente con il governo e contro i manifestanti. Si punta tutto, insomma, per esempio sulla Squadra mobile, senza però far sì che le informazioni raccolte trovino «in alcun modo supporto in un efficiente servizio di intelligence, evidentemente ritenuto inutile».
Aliquò critica i magistrati napoletani, soprattutto perché nell’ordinanza usano «categorie logiche offensive e ingiuste che fanno dei poliziotti inquisiti una sorta di associazione a delinquere, anziché delle singole persone accusate di reati». Però afferma anche che la manifestazione del 17 marzo non è stata gestita, come era opportuno che fosse, assieme alla Digos, l’ufficio competente per le manifestazioni politiche, e «al di là di eventuali reati commessi, perfino le perquisizioni», aggiunge Aliquò, «andavano condotte in un altro modo: gli agenti della Mobile sono abituati a far fare le flessioni agli spacciatori fermati per verificare se sono in possesso di ovuli con sostanze stupefacenti; ma a Napoli la situazione era completamente diversa. In questi anni», continua, «i capi della polizia, da Ferdinando Masone a Giovanni De Gennaro, hanno privilegiato nelle promozioni e nelle assegnazioni degli incarichi coloro che provenivano dal circuito delle Squadre mobili, spesso giovani e brillanti funzionari rampanti privi però di grosse esperienze. Tranne una breve parentesi con Ansoino Andreassi, la Digos è stata abbandonata a se stessa: perfino nel pool che sta indagando sull’uccisione del professor Marco Biagi gli uomini di quell’ufficio svolgono soltanto un ruolo residuale». Lo sfogo del rappresentante dei funzionari non si ferma qui: «Ci troviamo di fronte a problemi di metodo che vanno dal reclutamento alla formazione, fino all’avanzamento di carriera. Nella precedente legislatura è stato modificato il concorso per funzionari direttivi e mentre prima si assumevano 2.900 laureati esterni all’amministrazione, oggi sono soltanto 1.900, a cui si affiancano però 1.300 unità interne prive di cultura universitaria. Anche l’addestramento lascia a desiderare: funzionano quelli per le Squadre mobili, anche se poi gli uomini deputati all’ordine e al soccorso pubblico vengono spesso impiegati in tutt’altre attività; invece da una decina d’anni non organizza un corso la Polgai, la scuola di polizia giudiziaria, amministrativa, investigativa. Non si parla più di Digos e nemmeno di Dia (la Direzione investigativa antimafia, ndr), si invoca invece la polizia di prossimità: in uniforme, presente in ogni quartiere, pronta – si pensa – a entrare in azione in flagranza di reato; di fatto un controllo militare del territorio che, privo come sarà di strumenti necessari per la conoscenza e la prevenzione, abbasserà il livello di attenzione sulla criminalità». A proposito di formazione Rita Parisi, funzionaria bolognese del Siulp, racconta che «alla scuola di polizia di Spoleto fanno marciare anche i tecnici informatici e i periti chimici, l’anno scorso li anno pure mandati d’ufficio alla messa di Pasqua. Le scuole sono in mano a ex militari, e l’impronta è quella».

UOMINI IN FUGA. Nel gennaio 2002 la rivista Polizia e democrazia, fondata da Franco Fedeli, lo scomparso alfiere della democratizzazione della polizia italiana, ha pubblicato in copertina la foto di un dirigente schizzato dagli escrementi sparsi dai Cobas del latte durante le proteste del 1997. Titolo: «2002, fuga dalla polizia?». «Si parlava di 6-700 funzionari che avevano fatto domanda di trasferimento ad altra amministrazione», spiega il direttore Paolo Andruccioli. «C’è una sensazione di abbandono, il centrosinistra ha privilegiato i carabinieri con la riforma dell’Arma, ora si parla anche di polizia locale. Non si fa formazione, e così magari succede che l’agente veda nell’immigrato il nemico, il delinquente. Ed è un peccato, perché le professionalità ci sono». Sul caso Napoli, Andruccioli rileva «molte stranezze, come se fosse stata la prova generale per Genova. Molti poliziotti mi confermano l’assenza di vie di fuga in piazza, e poi erano anni che non si facevano retate negli ospedali per fermare i feriti. È grave che il compito sia stato dato non alla Digos ma alle Volanti e alla Squadra mobile, con molti equipaggi allertati a fine turno».
Le cronache sulle violenze poliziesche spesso riportano foto di Mussolini nei portafogli, cellulari che trillano con «Faccetta nera», manifestanti apostrofati con «sporco comunista» e così via. Molti si preoccupano, ma secondo gli esperti il problema ideologico è limitato e non spiega molto. «Non è che la polizia possa diventare di destra da un momento all’altro, come se ci fosse un Grande Fratello», sostiene Salvatore Palidda, sociologo dell’Università di Genova e studioso dell’argomento (ha scritto per esempio Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, 2000). «C’è un processo in corso da anni, dalla riforma dell’81, quella della smilitarizzazione, dell’ingresso delle donne, della sindacalizzazione. Una riforma spinta dalla componente democratica della polizia, che poi è stata trascurata dalla Cgil e dalla sinistra di partito. Risultato, ora ci sono 25 sindacati di polizia, che puntano soltanto alla cogestione totale delle carriere, dei trasferimenti, delle indennità, con dirigenti che arrivano a posti di responsabilità per “meriti” sindacali e non professionali». Un «tradimento» confermato da molti poliziotti progressisti, oggi divisi fra Siulp (confederale a maggioranza Cisl) e Silp (Cgil). Al governo il centrosinistra si è occupato solo dei vertici, lamentano molti, ma ha lasciato la rappresentanza della base ad An, che ha portato in Parlamento poliziotti e carabinieri di ogni grado. Negli anni Settanta molti poliziotti votavano Pci per spinta ideale, oggi i sindacati agiscono per lo più con logiche corporative e non c’è spazio per denunce deontologiche. Dei circa 110 mila poliziotti italiani, oltre la metà è iscritta a un sindacato. Tredici sigle hanno una vera rappresentatività perché, da sole o federate tra loro, superano la soglia del 5 per cento degli iscritti totali (quindi circa 3.500 adesioni). Un’altra dozzina sono al di sotto della soglia. Il meccanismo porta a una vera e propria gara per accaparrarsi gli iscritti, dove la rincorsa di benefici economici e professionali vale molto di più degli scrupoli «democratici». Il Siulp conta circa 28 mila iscritti, il Sap (vicino ad An) 19 mila. A parte il Silp-Cgil e il Coisp (indipendente), quasi tutte le altre sigle autonome gravitano a destra.

IL MOBBING IN DIVISA. I sindacati si sono mostrati abbastanza compatti nella reazione agli arresti di Napoli, anche se le reazioni più decise si sono avute da destra, Sap in testa. Con minor clamore, però, denunciano una valanga di abusi compiuti in silenzio dell’«amministrazione». Nell’ottobre scorso l’Anfp ha pubblicato i risultati di sondaggio sul mobbing fra i propri membri, così commentato dal segretario del Lazio Enzo Marco Letizia: «Il metodo odioso è quello di sempre: spingere il malcapitato in condizioni di isolamento o di prostrazione interiore per cercare, anche da un punto di vista formale, i presupposti del suo allontanamento o accantonamento». Le vessazioni più comuni sono «minacce di trasferimento, pretestuosi procedimenti disciplinari, molestie di varia natura, esautorazione di fatto, piccoli arbitri quotidiani».
Recentemente anche il Siulp ha distribuito un documento dove si denuncia per esempio che «un ispettore di polizia, dopo aver partecipato attivamente a complesse indagini sulla criminalità camorristica, concluse con ordinanza di rinvio a giudizio per decine di affiliati, di ritorno dall’aspettativa obbligatoria per maternità viene messa in mobilità ad altro ufficio». A Bologna, una donna che confida a un collega violenze subite da piccola in famiglia si ritrova «indagata per simulazione di reato e l’amministrazione ha attivato il procedimento disciplinare per la sospensione del servizio». A Piazza Armerina, in provincia di Enna, il Siulp ha seguito il caso di un poliziotto di colore che riceveva insulti razzisti per telefono. Le indagini hanno accertato che arrivavano dai suoi stessi colleghi, che sono rimasti tutti al loro posto. L’«amministrazione» ha metri di giudizio piuttosto curiosi.
Poi c’è l’immagine esterna. Dai primi anni Ottanta in poi solo gli ultras da stadio e alcune aree antagoniste molto limitate hanno avuto a che fare con manganelli e lacrimogeni. Fra i trentenni di oggi era più diffusa la simpatia per chi rischiava la pelle contro la mafia che non l’astio per il celerino. Oggi per molti non è più così. La frattura ha un simbolo preciso, un posto, un giorno, un’ora: alle 15.19 di venerdì 20 luglio 2001 un gruppo misto di un centinaio di celerini di Bologna e Firenze, agli ordini del funzionario Salvatore Pagliuzzo Bonanno, attacca con lacrimogeni e manganelli un gruppo di manifestanti anti G8 riuniti in piazza Manin a Genova. Non è un corteo ma una piazza tematica (ampiamente annunciata e autorizzata dalla Questura, con regolare licenza dei vigili urbani per i banchetti) su pace, non violenza, commercio equo e solidale. Ci sono la Rete di Lilliput, fondata da padre Alex Zanotelli, la Comunità Giovanni XXIII di don Oreste Benzi, il Ctm (commercio equo), Mani Tese, Wwf, Legambiente, la Rete contro G8. In prevalenza cattolici, molti alla loro prima esperienza in piazza. Filmati e foto documentano la violenza di quelle cariche contro persone inermi con le mani alzate dipinte di bianco. L’avvocato Emanuele Tambuscio, del Genoa Legal Forum, rappresenta 25 persone coinvolte in quell’azione, «ferite soprattutto alla testa e alle mani, per lo più donne, gente di mezza età, il più anziano ha 65 anni», spiega. I poliziotti stavano inseguendo un gruppo di black bloc reduce dall’assalto al carcere di Marassi. Secondo le testimonianze raccolte da Tambuscio, circa 150 «lillipuziani» si sono schierati per impedire loro di imboccare via Assarotti, verso la zona rossa, dove c’erano altri manifestanti, così i neri hanno deviato in corso Solferino, sfasciando macchine e creando barricate dietro di loro. A quel punto i poliziotti hanno lanciato i lacrimogeni e caricato i pacifisti «senza alcun avviso», concordano le testimonianze. Molti manifestanti sono stati picchiati mentre stavano con le spalle al muro e con le mani alzate. Qualcuno, poi, ha detto all’avvocato Tambuscio: «Pensi che quando ho visto la polizia ero contento, pensavo avrebbero fermato i black bloc». Fra i tanti casi genovesi, piazza Manin è simbolico perché ha coinvolto persone che fino a quel momento della polizia si fidavano pure. Hanno cambiato idea.
I fatti del G8 sono stati letti in modo molto diverso fra gli stessi poliziotti. Nel numero di ottobre del 2001 di Polizia e democrazia, il segretario nazionale del Silp-Cgil Claudio Giardullo ha affermato che «sicuramente ambienti politici della maggioranza di governo hanno voluto far segnare con Genova una svolta nel modo di fare ordine pubblico in questo Paese… un ordine pubblico che ha un modello più repressivo». Mentre il presidente del Sap, Giorgio De Biasi, ha invocato «l’efficacia degli idranti», perché i lacrimogeni «si prestano a essere rimandati verso le forze dell’ordine»; e ha affermato che l’unico errore di Genova è stato «quello di ritirare i carabinieri dalla piazza il giorno successivo a quello della morte di Carlo Giuliani».
Secondo Paolo Cento, deputato verde vicino al movimento antiglobalizzazione, «da Napoli in poi c’è stata la rottura del metodo del gruppo di contatto, che permetteva di regolare il conflitto di piazza. La Digos è stata relegata a un ruolo secondario, con effetti devastanti. Il cambiamento è cominciato con il centrosinistra e non credo che la responsabilità sia tutta della polizia. Spesso ci sono spaccature tra i funzionari, la Celere è solo l’ultimo anello. Temo anche ci sia una certa concorrenza tra polizia e carabinieri, perché la prima teme di perdere la gestione dell’ordine pubblico. E oggi la politica chiede un atteggiamento duro».

ADDESTRAMENTO CELERE. Giuseppe Boccuzzi è un agente del Settimo reparto mobile di Bologna e membro della segreteria provinciale del Siulp. A Genova non ce l’hanno mandato ma ha partecipato all’addestramento pre G8 a Ponte Galeria, una specie di corso segreto di cui i sindacati non riuscirono a sapere nulla. Qui furono introdotti i nuovi manganelli tonfa e le marcette ritmate a colpi di manganello sugli scudi. «Il corso è nato sull’onda dell’emergenza G8, mi è sembrato improvvisato», racconta Boccuzzi. «Ci insegnavano soltanto a reprimere e non a prevenire, il movimento no global ci veniva presentato come il nemico, non c’è stata nessuna formazione sulle varie componenti del movimento, nessuna distinzione fra gruppi violenti e pacifici. Ci siamo preparati ai grandi lanci di molotov, a camminare tra le fiamme, a scendere dai mezzi in corsa. Il secondo ciclo di formazione, però, ha tenuto conto degli errori di Genova, ed è stato l’opposto: molta deontologia, preparazione professionale e psicologica, l’idea che il vero poliziotto non è quello che picchia ma quello che evita il contatto, che non accetta provocazioni, che non prende iniziative solitarie». Il corso di Ponte Galeria, a cui partecipano a scaglioni tutti i 5.650 celerini dei 13 reparti mobili italiani, prevede altri due cicli e dovrebbe formare i nuovi reparti speciali antisommossa, meno numerosi ma più professionali. Un esperimento in questo senso è stato il VII nucleo del Reparto mobile di Roma, comandato da Vincenzo Canterini, sotto inchiesta a Genova per l’irruzione alla scuola Diaz-Pertini. «Erano i più forti e addestrati, dovevano muoversi sul campo e intervenire come jolly, erano preparati al confronto con i black bloc, ma purtroppo non li hanno mai incontrati», spiega Boccuzzi. «Invece li hanno mandati in quella scuola». L’esperimento è fallito, il nucleo a quanto si sa è stato sciolto, ma resta l’idea di trasformare la Celere «da serbatoio di puniti a corpo di élite», afferma il sindacalista. «Bisogna far capire che nell’ordine pubblico il compito della polizia è di individuare sul posto i colpevoli di reati, invece finisce che vengono sempre colpiti quelli in prima fila con le mani alzate. Se un manifestatnte violento cade a terra si dovrebbe prendere e arrestare, non scalciarlo in dieci. Se no poi per forza che si vanno a cercare i colpevoli negli ospedali e nelle scuole».
La violenza «inedita» esercitata a Napoli e Genova anche su chi non aveva nulla a che fare con gli scontri è anche il frutto di un clima politico: secondo Boccuzzi, «qualcuno ha lavorato sui poliziotti, in campagna elettorale ci hanno promesso mari e monti, c’è stato un matrimonio fra una precisa forza politica e una parte della polizia, rappresentata dai sindacati autonomi, e si è lasciato intendere un senso di impunità per chi violava le regole. A Napoli non c’era più un governo, si aspettava quello nuovo e intanto comandavano i burocrati dei ministeri. Si è lavorato sulle teste dei poliziotti, si è individuato nel movimento il nemico per eccellenza. Invece», continua, «i veri nemici sono i teppisti organizzati delle tifoserie, che io incontro ogni domenica, non i black bloc che spuntano solo in momenti precisi. I poliziotti tornano dallo stadio con occhi cavati, dita amputate, per colpa di gente che cerca lo scontro per finire sui giornali. Altro che Genova e Napoli».
Una manifestazione di celerini non capita tutti i giorni, ma è capitata la mattina di venerdì 3 maggio a Castro Pretorio, sede del Primo reparto mobile di Roma, per protestare – con taavolini, striscioni, volantini – contro la decisione del ministero dell’Interno di trasferire il reparto nella nuova sede di Ponte Galeria. Tante sigle sindacali, tutte concordi nell’obiettare che a 25 chilometri dal centro di Roma con una sola strada percorribile, gli interventi del reparto non potranno essere poi tanto celeri. La loro caserma è destinata a ospitare gli uffici concorsi del Viminale. Gli oltre 900 uomini del contingente si sentono incompresi, ancora una volta bistrattati da un’amministrazione che per far fronte alle emergenze li costringe a ore di straordinari, spesso retribuite con mesi di ritardo, a sospendere i giorni di riposo (ne devono recuperare 2.000) e a sottoporsi a turni giornalieri stabiliti soltanto la sera precedente. Sono stati al G8 di Genova e alcuni di loro sono finiti sotto inchiesta. Non hanno molta voglia di parlare di quei fatti. Solidarizzano con i colleghi, dicono che da loro in nove anni soltanto due teste calde sono state allontanate prima che facessero qualche sciocchezza; raccontano che ormai il contingente è invecchiato: sono pochi quelli di leva e i più giovani hanno ormai una trentina d’anni, il che significa maggiore esperienza, ma anche più stanchezza accumulata in anni di servizio. Si dicono fiduciosi nell’operato della magistratura anche perché, spiega il segretario provinciale del Silp, Nicodemo De Franco, «se un poliziotto viene denunciato, il capo della polizia, ancor prima di un rinvio a giudizio, può decidere di spostarlo o destituirlo. In quest’ultimo caso per essere riammessi in servizio non basta l’archiviazione, occorre l’assoluzione. Oppure bisogna rivolgersi al Tar e restare discoccupati per almeno cinque anni. Perciò, nel nostro caso, sono proprio i magistrati che ci possono maggiormente tutelare».
Le celere agisce spesso sotto gli occhi delle telecamere, ma il sociologo Salvatore Palidda invita a guardare anche altrove: «Negli ultimi due anni si registra una continua sequenza di episodi di violenza durante i controlli sulle strade, nelle Questure, nelle caserme dei carabinieri, nelle carceri, dove sono tornate in azione le “squadrette punitive” notturne. La destra cresce nel Paese e questo si riflette nei comportamenti violenti della polizia, quando per esempio fa le “bonifiche” di certi quartieri e se la prende con immigrati, zingari, prostitute, tossicodipendenti, tutta gente che non potrà mai denunciare nulla». Diverse associazioni impegnate su questi fronti confermano il fenomeno. Un’operatrice romana che si occupa di immigrati racconta l’ultimo caso: una nigeriana convocata alla Questura di Roma per l’espulsione è arrivata al Centro di permanenza temporanea di Ponte Galeria con lo sterno rotto, e ha raccontato di essere stata picchiata da quattro poliziotti perché non voleva salire in macchina. «Molti agenti non parlano né inglese né francese, interrogano gli immigrati e loro non capiscono, poi perdono la pazienza, anche perché spesso lavorano sotto stress», spiega l’operatrice. «Però in genere con i funzionari di livello superiore c’è maggiore comprensione e collaborazione». A Milano la Lila (Lega italiana lotta all’Aids) fa prevenzione sanitaria per le prostitute con un’unità mobile che gira di notte a distribuire preservativi e dispensare consigli. «Abbiamo ricevuto molte segnalazioni di abusi da parte delle forze dell’ordine», afferma Lucia Portis, responsabile del servizio della Lila, soprattutto verso le prostitute nigeriane, che non possono fare alcuna denuncia perché da clandestine sarebbero subito espulse. Gli abusi possono arrivare fino alla richiesta di prestazioni sessuali, e ora ci stiamo occupando di una denuncia per violenza».
I poliziotti che smascherano questi episodi spesso si ritrovano contro i colleghi. A Bologna brucia ancora la storia della Uno bianca, i 23 morti ammazzati per mano della banda composta da 5 poliziotti diretti da Roberto Savi, assistente capo della sala operativa della Questura, arrestato nell’ottobre 1994: «All’epoca denunciammo i metodi “ruvidi” della Squadra volante dove Roberto Savi prestava servizio, avevamo riscontrato abusi», racconta Gigio Notari, segretario provinciale del Siulp a Bologna. «Questo ci causò problemi con i colleghi, tanto più che quelle Volanti facevano un numero record di arresti. Furono perciò ritenute un modello di efficacia ed efficienza e così Roberto Savi si ritrovò ad addestrare colleghi di tutta Italia. Vedo le polemiche di questi giorni, ma i poliziotti subiscono più abusi dall’amministrazione che non dalla magistratura. Ricordo il caso di un collega denunciato per insubordinazione dopo una discussione su qualifica e mansioni. La magistratura lo ha prosciolto, ma per l’amministrazione è ancora sospeso».