R  E  P  U  B  B  L  I  C  A     I  T  A  L  I  A  N  A

N.2935/2009

Reg. Dec.

N. 4826 Reg. Ric.

Anno 2003

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

     Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

D E C I S I O N E

     sul ricorso in appello n. 4826 R.G. dell'anno 2003, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso cui ope legis domicilia in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

contro

     @@@@@@@ @@@@@@@, rappresentata e difesa dall’avv.to -

per la riforma

     della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sez. I^, del 24 dicembre 2002 n. 14108;

     Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

     Visto l'atto di costituzione in giudizio della Parte appellata;

     Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive tesi difensive;

     Visti tutti gli atti di causa;

     Relatore alla pubblica udienza del 7 aprile 2009 il Cons. -

     Udito, altresì, l’Avvocato dello Stato -

     Ritenuto in fatto e considerato in diritto:

F A T T O  e  D I R I T T O

     La controversia sulla quale la Sezione deve decidere, riguarda i tempi stabiliti per lo svolgimento del procedimento disciplinare, avviato per la destituzione del dipendente, e successivo a sentenza di condanna adottata a seguito di patteggiamento richiesto dal destituito.

     Ad avviso del giudice di primo grado, che ha così accolto il motivo dedotto dall’odierna appellata, nel procedimento disciplinare in causa, l’Amministrazione non ha osservato il termine endoprocedimentale di 90 giorni che deve intercorrere tra un atto e l’altro, per applicazione dell’art.120 T.U. n.3 del 1957.

     In particolare, sono trascorsi più di novanta giorni tra la contestazione degli addebiti (13 novembre 1996) e l’adozione della deliberazione del Consiglio Centrale di Disciplina (13 maggio 1997) ed tra quest’ultima ed il decreto finale di destituzione (1 settembre 1997).

     Con l’appello in esame, viene chiesta dall’Amministrazione la riforma della sentenza di primo grado, sul rilievo che la decisione impugnata non ha considerato che l’anzidetta disposizione contenuta nell’art. 120 del T.U. citato, è da collegare all’esigenza di celerità del procedimento, di cui è espressione il principio costituzionale del buon andamento (art.97 Cost.) e dunque non sarebbe essa applicabile in tutti i casi, ma soltanto in presenza di inerzia colpevole della P.A; che nel caso di specie non si sarebbe verificata, dovendosi tener conto dei tempi, interni dell’apparato amministrativo, necessari per l’invio degli atti da parte degli uffici centrali e la loro ricezione da parte degli uffici periferici.

     Parte appellata appellandosi alla giurisprudenza costituzionale e del giudice amministrativo formatasi sulla questione in controversia, ha chiesto il rigetto del gravame.

     Ha successivamente  depositato memoria, con la quale ha ulteriormente illustrato le proprie ragioni.

     L’appello dell’Amministrazione è infondato.

     Il tema posto dalla controversia in esame si riferisce, come già anticipato, ai termini da applicare al procedimento disciplinare, a partire dalla contestazione degli addebiti, avviato nei confronti di una dipendente pubblica, nella specie trattasi di agente della Polizia Penitenziaria, per fatti oggetto di un procedimento penale definito con sentenza di patteggiamento ex art. 444 cod proc.pen., a seguito della quale l’Amministrazione l’ha destituita.

     Quando è stata esercitata l’azione disciplinare per la destituzione, sono sorti dubbi in relazione alI’art. 9 legge  7 febbraio 1990, n. 19 (Modìfiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti), a tenore del cui comma 2 “La destituzione può sempre essere inflitta all‘esito del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni”.

     La Corte Costituzionale, con sentenza 28 maggio 1999, n. 197, valutando la congruità del detto termine di novanta giorni per la conclusione del procedimento disciplinare avviato per destituzione per fatti connessi ad un procedimento penale definito con sentenza ex art. 444 Cod. proc. pen., ha rilevato che nel cd. patteggiamento non vi è la esaustività probatoria del rito ordinario, perciò il termine predetto è incongruo.

     “E invero - ha detto la Corte - che l‘applicazione della pena su richiesta delle parti, non presuppone quella compiutezza nella raccolta degli elementi di prova che è tipica del rito ordinario: le parti, infatti, possono chiedere il patteggiamento in qualunque momento delle indagini preliminari e fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (‘art. 446 Cod. proc. pen.).”

     “È quindi evidente che non vale per la conclusione del procedimento disciplinare - che l‘amministrazione potrà instaurare dopo aver preso cognizione della sentenza di patteggiamento - il termine introdotto dall‘art. 9, secondo comma, ma la disciplina generale posta dai testo unico del 1957”.

     Perciò, ha precisato la Corte, “nel caso di patteggiamento non potrà farsi riferimento al detto termine finale di novanta giorni dell’art. 9 1. 7 febbraio 1990, n. 19, e che deve trovare applicazione la disciplina g del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 che alI’art. 120 fissa solo un termine endoprocedimentale, con ciò intendendo riferirsi alla decorrenza di un tempo non inferiore a 90 giorni fra un atto e l’altro del procedimento”.

     Questo indirizzo - poi ribadito dall’ordinanza della stessa Corte costituzionale 2 marzo 2000, n. 67 è stato fatto proprio dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione 26 giugno 2000, n,.15.

     E nello stesso senso si è poi espressa Cons. Stato, Ad. plen., 27 giugno  10, secondo la quale il procedimento penale conclusosi con la dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione è da assimilare al caso del patteggiamento, dove non trova applicazione il termine perentorio imposto dall’art. 9, comma 2, 1. n. 19 del 1990, entro cui il procedimento disciplinare deve essere concluso.

     Infatti le particolari modalità di svolgimento del procedimento penale, comportano la necessità di autonomi accertamenti in sede disciplinare, il cui compimento non può essere irrigidito dall’osservanza del termine finale di novanta giorni deII’art. 91. n. 19 del 1990.

     Ne consegue, quindi, l’applicazione di una disciplina più favorevole all’Amministrazione, per effetto dell’esclusione del termine rigido di 90 giorni previsto dalla legge n. 19 del 1990.

     Quest’ultima è però anche la ragione per la quale non può essere consentita, contrariamente alla prospettazione dell’amministrazione appellante, una dilatazione ulteriore dei tempi del procedimento de quo, in presenza di inerzia, seppure non colpevole, dell’Amministrazione.

     I tempi necessari, interni dell’apparato amministrativo, tra l’invio degli atti da parte degli uffici centrali e la loro ricezione da parte degli uffici periferici, sono, invero, irrilevanti.

     Siffatto riconoscimento si tradurrebbe, infatti, nell’indeterminatezza dei tempi stabiliti per esercitare il potere sanzionatorio attraverso il procedimento disciplinare avviato dall’amministrazione per la destituzione del dipendente, con evidente vulnus per la garanzia non obliterabile, affinché quest’ultimo possa conoscere anticipatamente tutte le condizioni in forza delle quali può ritenersi assoggettato a tale potere.

     Ora, poiché è indubbio che il predetto termine di novanta giorni è stato disatteso dall’amministrazione sia nella fase procedimentale ricompressa tra la contestazione degli addebiti rivolta all’appellata e l’adozione della deliberazione  del Consiglio Centrale di Disciplina(13 novembre 1996-13 maggio 1997) che nella fase tra quest’ultima deliberazione ed il decreto finale di destituzione (1 settembre 1997), è di tutta evidenza che la sentenza impugnata, avendo rilevato, sulla base dell’art. 120 T.U. n.3 del 1957, che l’estinzione del procedimento da tale norma prevista, rappresenta una causa di perenzione automatica del potere sanzionatorio, ha argomentato, ad avviso della Sezione, correttamente.

     Consegue che l’appello deve essere rigettato con conseguente conferma della sentenza impugnata.

     Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese della lite;

P.Q.M.

     Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo respinge con conseguente conferma della sentenza impugnata.

     Spese compensate

     Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

     Così deciso in Roma, addì 7 aprile 2009 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), riunito in Camera di Consiglio con l'intervento dei signori: