REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N.2041/2009

Reg.Dec.

N. 7248 Reg.Ric.

ANNO   2004

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 7248/04, proposto dal MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato e presso gli uffici della medesima domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

contro

il signor @@@@@@@ @@@@@@@ @@@@@@@, costituitosi in giudizio, r..

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, sez. I,  n. 1547/04 del 19.5.2004;

     Visto il ricorso con i relativi allegati;

     Visto l’atto di costituzione in giudizio della parte appellata;

     Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle proprie difese;

     Visti gli atti tutti della causa;

     Uditi, alla pubblica udienza in data 24 febbraio 2009, il relatore, ..

     Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

     Con atto di appello notificato il 17.7.2004 il Ministero dell’Interno contestava la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, sez. I, n. 1547/04 del 19.5.2004, notificata il 9.6.2004, con la quale veniva accolto il ricorso proposto dall’Ispettore di polizia @@@@@@@ @@@@@@@ @@@@@@@, avverso la reiezione del ricorso gerarchico relativo al provvedimento disciplinare n. 2.8/2270-01 del 17.4.2001 (pena pecuniaria nella misura di 5/30 dello stipendio per una mensilità).

     La sanzione sopra indicata risultava applicata dopo la conclusione – con decreto di archiviazione in data 26.5.2000 – del procedimento penale, avviato nei confronti del citato ispettore per i reati di cui agli articoli 476 e 482 cod. pen. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), per essere stato il medesimo trovato in possesso di fotocopia plastificata del tesserino di riconoscimento, il cui originale risultava precedentemente ritirato (e quindi sostituito – secondo l’ipotesi accusatoria – con un documento contraffatto).

     Nella sentenza appellata si riteneva fondata ed assorbente la censura di violazione dell’art. 9 del D.P.R. 25.10.1981, n. 737, essendo stato superato il termine di 120 giorni per l’avvio del procedimento disciplinare, termine ritenuto perentorio e decorrente dalla data di pubblicazione della sentenza penale (26.5.2000), non da quella di ricevimento della nota di comunicazione da parte della cancelleria (18.1.2001), con conseguente scadenza del termine stesso, nella fattispecie, il 23.9.2000. Inapplicabile sarebbe stato, d’altra parte, il termine più lungo di 180 giorni, di cui all’art. 9 della legge 7.2.1990, n. 19, in quanto riferibile in via esclusiva ai procedimenti disciplinari, avviati in esito a sentenze di condanna.

     In sede di appello, l’Amministrazione sottolineava la non assimilabilità della sentenza, pronunciata a seguito di dibattimento, con il decreto di archiviazione, che rappresenta solo il momento conclusivo della fase delle indagini preliminari, antecedenti all’instaurazione del processo penale, con conseguente inapplicabilità del menzionato art. 9 del D.P.R. n. 737/1981.

     In nessun caso, comunque, la decorrenza del termine per proporre l’azione disciplinare potrebbe prescindere dalla concreta conoscenza della pronuncia da parte del titolare dell’azione disciplinare, come si argomenterebbe anche dalla dichiarata incostituzionalità dell’art. 315 cod. proc. pen., nella parte in cui faceva decorrere il termine per la domanda di riparazione dalla pronuncia del provvedimento di archiviazione, anziché dalla data di notifica del medesimo.

     La parte appellata, costituitasi in giudizio, sottolineava la fondatezza della tesi difensiva, accolta dal Giudice di primo grado,  nonché l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio anche sotto altri profili, con particolare riguardo al difetto di motivazione e di istruttoria, nonché al travisamento dei fatti, tenuto conto della mancata correlazione fra la contestazione degli addebiti (riferita ad un tesserino plastificato non originale) e la sanzione (riguardante mera fotocopia a colori del tesserino).

DIRITTO

     La questione sottoposta all’esame del Collegio è quella della legittimità di una sanzione disciplinare (riduzione dello stipendio), emessa nei confronti di un ispettore della Polizia di Stato, coinvolto in una vicenda penale conclusa con l’archiviazione, ma ritenuta comunque rivelatrice di una condotta censurabile, sotto il profilo dei doveri connessi al rapporto di servizio, intercorrente fra il medesimo soggetto e l’Amministrazione.

     La predetta sanzione (confermata in sede di ricorso gerarchico) veniva  contestata sotto diversi profili – tutti nuovamente dedotti in appello – con accoglimento, in primo grado di giudizio, delle argomentazioni difensive riferite a superamento del termine (ritenuto perentorio) per la contestazione degli addebiti, effettuata con atto notificato in data 22.2.2001, dopo che sulla vicenda era intervenuto in sede penale decreto di archiviazione, depositato il 26.5.2000 e comunicato via fax il 18.1.2001, a fronte di quanto prescritto per l’avvio del procedimento disciplinare dall’art. 9, comma 6 del D.P.R. 25.10.1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti); in base alla predetta norma, infatti, “ quando da un procedimento penale, comunque definito, emergono fatti e circostanze, che rendano l’appartenente ai ruoli dell’Amministrazione di pubblica sicurezza passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di giorni 120 dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all’Amministrazione”.

     Nella situazione descritta – non essendo intervenuta sentenza di condanna – non può ritenersi applicabile la legge 7.2.1990, n. 19, esplicitamente riferita alla valutazione disciplinare del dipendente condannato in sede penale (Cfr. in tal senso, per il principio, Cons. St., sez. VI, 29.11.2004, n. 7796 e 15.4.1996, n. 553); in caso di procedimento penale non seguito da condanna, pertanto, come per ogni altra infrazione disciplinare, non possono che applicarsi le disposizioni normative dettate in materia per tutti i dipendenti pubblici (D.P.R. 10.1.1957, n. 3), ovvero la lex specialis vigente per singoli comparti lavorativi (per quanto qui interessa: D.P.R. 25.10.1981, n. 737). Nella presente sede di appello, l’Amministrazione contesta l’applicabilità, in particolare, dell’art. 9, comma 6 del citato D.P.R. n. 737/1981, in quanto l’intervenuta archiviazione, a chiusura della fase di indagine preliminare, avrebbe escluso l’instaurazione stessa del procedimento penale; non conforme ai principi costituzionali, inoltre, sarebbe la decorrenza di un termine perentorio – per la contestazione di fatti rilevanti a livello disciplinare – da data antecedente alla possibile conoscenza dei fatti stessi da parte dell’Amministrazione.

     Il decreto di archiviazione, in effetti, inibisce l’azione penale, esercitata attraverso la richiesta di rinvio a giudizio, a seguito della quale soltanto il soggetto indagato acquista la veste di imputato (cfr. Cass. pen., sez. V, 5.10.1999, n. 12893 e 10.7.2007, n. 33057; Cass. pen., sez. I, 21.3.2001, n. 17476); tenuto conto di quanto sopra, secondo parte della giurisprudenza solo il rinvio a giudizio – e non anche la sussistenza di mere indagini preliminari non ancora concluse – costituirebbe presupposto ostativo all’attivazione o alla prosecuzione del procedimento disciplinare (cfr. in tal senso Cons. St., sez. VI, 5.12.2005, n. 6944; Cons. St., sez. V, 3.1.2006, n. 7 e 23.5.2006, n. 3069; Cons. St., sez. IV, 12.5.2006, n. 2656; TAR Lazio, Roma, sez. I, 4.1.2008, n. 43).

     Secondo un diverso indirizzo, invece, la nozione di “procedimento penale” sarebbe comprensiva della fase di indagine preliminare, corrispondendo al rinvio a giudizio l’avvio del processo penale vero e proprio, ma ponendosi già in presenza di indagini preliminari l’esigenza di prevenire antinomie fra gli esiti del giudizio penale e di quello disciplinare, tenuto conto del principio di cui all’art. 653 c.p.p., secondo cui la sentenza penale di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio di responsabilità disciplinare, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso. La nozione di “procedimento penale”, come desumibile dal relativo codice di procedura, d’altra parte, appare identificata con l’insorgere del procedimento giudiziario, correlativo ad un’astratta ipotesi di reato, a partire dalla registrazione della “notizia criminis” presso la Procura della Repubblica e – per quanto riguarda il potenziale colpevole – con l’iscrizione della persona indagata, ex art. 335 c.p.p.  (cfr. in tal senso, con specifico riferimento all’art. 11 del D.P.R. n. 737/1981, Cons. St., sez. VI, 19.1.2007, n. 115 e 11.7.2008, n. 3488). Quest’ultimo indirizzo, che il Collegio ritiene condivisibile, non può che fornire il criterio interpretativo anche del citato art. 9, comma 6 del medesimo D.P.R. n. 737, che – nel richiamarsi ad un “procedimento penale, comunque definito” – non potrebbe non comprendere anche situazioni, come quella in esame, in cui la fase di indagini preliminari si sia conclusa con archiviazione della “notizia criminis”, pur essendo effettuata detta archiviazione con decreto e non con sentenza (e dovendosi pertanto ritenere sussistenti in via analogica, per l’avvio del procedimento disciplinare, i medesimi termini di cui alla predetta norma, con decorrenza dalla pubblicazione della decisione, o dalla relativa comunicazione).

     Una volta riconosciuta, però, l’applicabilità alla fattispecie della norma da ultimo citata, il Collegio è chiamato a valutare – sotto il duplice profilo della non manifesta infondatezza e della rilevanza, in ordine alla situazione dedotta in giudizio – la costituzionalità della norma stessa, per irragionevolezza della possibile consumazione di un termine perentorio, non decorrente dalla data di effettiva conoscenza del fatto presupposto, da cui discende l’avvio dell’azione disciplinare.

     A tale riguardo, i parametri di giudizio appaiono delicati e complessi, tali da non escludere – ad avviso del Collegio stesso – la non manifesta infondatezza della questione, la cui rilevanza, tuttavia, richiede una disamina più ampia, in considerazione dell’effetto devolutivo dell’appello e della fondatezza o meno, pertanto, del ricorso originariamente proposto, con riferimento a tutti i motivi di gravame nel medesimo prospettati.

     Appare significativa, sotto il primo profilo, l’evoluzione in corso nella giurisprudenza, circa la rilevanza dei vizi procedurali inerenti ai tempi di attivazione, allo svolgimento ed alla conclusione della procedura disciplinare, dal momento che le norme basilari, operanti in materia a livello legislativo, non comminano alcuna espressa decadenza per il superamento dei termini in questione (che comunque, in rapporto al contesto delle espressioni usate e delle garanzie di difesa coinvolte sono stati – con giurisprudenza a lungo non univoca, ma poi autorevolmente indirizzata in tal senso – definiti perentori: cfr. Cons. Giust. Amm. Sic., 15.4.1981, n. 22; Cons. St., sez. VI, 17.10.1997, ord. N. 1498; Cons. St., sez. VI, 28.11.87, n. 933 e 4.4.98, n. 32; per la perentorietà, ma con possibilità di “deroga o attenuazione” cfr. anche TAR Lazio, Roma, sez. I, 27.3.95, n. 558, fino a Cons. St., Ad. Plen., 25.1.2000, n. 4 e 26.6.2000, n. 15, in cui la perentorietà viene desunta dal quesito – Ad. Plen., 3.9.97, ord. n. 17 – sottoposto alla Corte Costituzionale, circa la congruità del termine di 90 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, e dalla mera valutazione di non irragionevolezza di tale termine, nella sentenza della Suprema Corte n. 197 del 28.5.1999, in fattispecie diverse da quelle di cui all’art. 444 cod. proc. pen. sul cosiddetto patteggiamento); una esigenza di razionalizzazione, in particolare, non può non scaturire dal recente indirizzo interpretativo, secondo cui i diversi termini previsti, in materia di procedimento disciplinare conseguente a condanna penale – ed in particolare quelli per l’avvio del procedimento stesso (180 giorni) e per la successiva conclusione (90 giorni) – sono cumulabili, di modo che l’invalidità della sanzione per superamento del termine perentorio si riconosce solo quando siano trascorsi più di 270 giorni dalla conoscenza della sentenza di condanna (Cons. St., Ad. Plen., 14.1.2004, n. 1 e successiva giurisprudenza pacifica: cfr., fra le tante, Cons. St., sez. IV, 12.3.2007, n. 1213). Appare difficile comprendere, a questo punto, perché i procedimenti disciplinari, successivi a sentenze emesse a seguito di patteggiamento (quanto meno fino all’emanazione della legge 27.3.2001, n. 97 ed alle modifiche apportate all’art. 445 del codice di procedura penale), ovvero da avviare anche in presenza di assoluzione o archiviazione della “notizia criminis”, pur richiedendo indagini più approfondite sui fatti – non già definiti in un giudicato penale, o comunque da valutare sotto diverso profilo, quando ritenuti non penalmente rilevanti – dovrebbero essere avviati non solo entro termini perentori più brevi, ma persino senza che detti termini decorrano dall’effettiva conoscenza, da parte dell’Amministrazione, della decisione assolutoria o di archiviazione, assunta in sede penale (contrariamente a quanto previsto in caso di condanna). Non infondatamente, a quest’ultimo riguardo, l’appellante richiama l’indirizzo della Corte Costituzionale, in materia di disciplina legislativa sul decorso dei termini, da ancorare a situazioni che non lascino margini di incertezza al soggetto, su cui gravi l’onere di assumere iniziative (cfr., per il principio, Corte Cost., 30.12.1997, n. 446 e 25.7.1995, n. 374), con conseguente assenza di ragionevolezza di una disciplina disomogenea sotto il profilo in questione.

     Nei termini sopra precisati la sentenza appellata – pur recependo un indirizzo interpretativo prevalente, nella materia di cui trattasi (cfr. anche, sul punto, Cons. St., sez. IV, 2.9.1992, n. 717, 16.4.1998, n. 636 e 30.4.1999, n. 762; Cons. St., sez. VI, 23.6.2008, n. 3151) – lascia  aperte questioni di razionalizzazione della materia disciplinare, sotto il profilo dell’equo bilanciamento dei contrapposti interessi (quello dell’Amministrazione a ad esercitare il potere disciplinare – in corrispondenza del rilevante interesse della collettività alla repressione di condotte devianti dei pubblici dipendenti – e quello, comunque risarcibile in caso di lesione, di questi ultimi a vedere tempestivamente definita la propria posizione), in termini tali da rendere non manifestamente infondata la questione di costituzionalità, connessa alla perentorietà del termine, di cui al ricordato art. 9, comma 6 del D.P.R. n. 737/1981, in correlazione alla relativa decorrenza.

     Nella situazione in esame, tuttavia, il Collegio non ravvisa l’ulteriore requisito della rilevanza della questione sopra sintetizzata, essendo tale requisito rapportabile al cosiddetto criterio di strumentalità, ovvero all’impossibilità di risoluzione della controversia, sottoposta a giudizio, indipendentemente dalla questione di costituzionalità di una norma, di cui sia stata fatta applicazione (cfr. anche, per il principio, Cons. St., sez. V, 7.10.1998, n. 1419; Cons. St., sez. IV, 30.6.2004, n. 4835; TAR Lazio, Roma, sez. III, 7.4.2005, n. 2571; TAR Lazio, Roma, sez. II, 2.9.2005, n. 6535; Corte Cost., 20.2.2007, n. 49).

     La situazione nella fattispecie controversa, d’altra parte, è stata riproposta in appello nella sua globalità ed il requisito formale dei tempi di attivazione del procedimento disciplinare appare, in tale contesto, recessivo rispetto alla questione sostanziale, cui corrisponde la pienezza dell’interesse – anche morale – a ricorrere avverso la misura disciplinare irrogata.

     Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che dovesse ritenersi fondata ed assorbente, nel caso di specie, la censura di eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria, ribadita dalla parte appellata in relazione alle circostanze, poste a base del provvedimento disciplinare impugnato.

     In assenza di fatti accertati con efficacia di giudicato, a norma del citato art. 653 c.p.p., infatti, la condotta del dipendente di cui trattasi poteva essere autonomamente valutata dall’Amministrazione, con esigenza, tuttavia, di accertamenti particolarmente approfonditi e di congrua motivazione quando – come nella fattispecie avvenuto – le conclusioni dell’Autorità amministrativa si rivelassero di segno opposto, rispetto a quelle (pur non formalizzate in un giudicato) del Giudice penale.

     Nella situazione in esame, la condotta sanzionata sul piano disciplinare è esattamente quella valutata in sede penale, con riferimento al riscontrato possesso, da parte dell’attuale appellato, di una copia fotostatica del tesserino di riconoscimento, il cui originale era stato al medesimo ritirato in pendenza di sospensione cautelare dal servizio per altri fatti (ritenuti poi non sussistenti, come riferito dall’interessato senza contestazioni, sul punto, di controparte).

     Per tale possesso il dipendente era stato indagato per falso in atto pubblico, ma con successiva archiviazione, in quanto la riproduzione fotostatica in questione era stata ritenuta “inidonea a trarre in inganno la fede pubblica”, trattandosi di mera fotocopia, “senza alterazioni” tali da rendere la stessa “maggiormente simile all’originale” e non risultando detta copia esibita dal possessore, ma solo rinvenuta nel portafogli del medesimo, ove era custodita.

     In tale situazione, non appaiono di facile comprensione le ragioni, per cui è stata ritenuta applicabile al predetto dipendente la sanzione, di cui all’art. 4, comma 18 del D.P.R. n. 737/1981, riferito “a qualsiasi…comportamento, anche fuori dal servizio….non conforme al decoro delle funzioni degli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza”.

     Ove infatti – come esposto nel decreto di archiviazione, su conforme richiesta del P.M. (e come sembra plausibile in base ai dati di comune esperienza, di cui all’art. 115 c.p.c.) – al possesso della copia in questione non avesse potuto ricondursi alcun intento di avvalersi della medesima come documento di identificazione (non essendo infrequente che tali documenti vengano fotocopiati, per trattenerne memoria, o per conservarne gli estremi in caso di smarrimento dell’originale), sarebbe stato incongruo ritenere tale comportamento “non conforme al decoro delle funzioni”; qualora invece – con maggiore corrispondenza alla fattispecie sanzionatoria – l’Amministrazione fosse andata in contrario avviso rispetto al Giudice penale, le ragioni di tale diversa valutazione avrebbero richiesto adeguato approfondimento istruttorio, del cui esito la motivazione del provvedimento impugnato – nonché del successivo rigetto del ricorso amministrativo, al riguardo proposto – avrebbero dovuto fornire pieno riscontro, in rapporto all’intento di falsificazione, ritenuto del tutto insussistente dal Giudice penale.

     Non solo, viceversa, non si ravvisano negli atti in questione i contenuti sopra indicati, ma appare indizio di travisamento l’originaria contestazione degli addebiti, riferita al “possesso di fotocopia plastificata del tesserino di riconoscimento”, in rapporto all’avvenuta irrogazione della sanzione per possesso di “copia a colori” del medesimo tesserino, richiamando quest’ultima definizione quella di “mera riproduzione fotostatica”, già ritenuta in sede penale inidonea all’utilizzo come falso documento (mentre a conclusioni opposte poteva ragionevolmente condurre una riproduzione più fedele dell’originale, tramite appunto plastificazione del documento stesso). Alle predette considerazioni, sottolineate dall’appellato, non ha fornito controdeduzioni l’Amministrazione, il cui procedimento disciplinare non appare pertanto, in base agli atti di causa, condotto con adeguata valutazione dei fatti e concluso con esaustiva rappresentazione dell’iter logico seguito, per l’irrogazione della sanzione disciplinare di cui trattasi.

     Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che il ricorso debba essere respinto, dovendosi confermare con diversa motivazione l’accoglimento del ricorso di primo grado; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ne ritiene equa la compensazione, tenuto conto della complessità della vicenda sottoposta a giudizio.

P.Q.M.

     Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, RESPINGE l’appello, nei termini di cui in motivazione; COMPENSA le spese giudiziali.

     Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

     Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2009 dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio del 24 febbraio 2009, con l'intervento dei Signori:

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Presidente

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Consigliere       Segretario 
 

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DEPOSITATA IN SEGRETERIA 
 

il...01/04/2009

(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)

Il Direttore della Sezione


 
 

CONSIGLIO DI STATO

In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta) 
 

Addì...................................copia conforme alla presente è stata trasmessa  
 

al Ministero.............................................................................................. 
 

a norma dell'art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642 
 

                                    Il Direttore della Segreteria

 
 

N.R.G. 7248/2004


 

CA