REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N.2112/2009

Reg.Dec.

N. 145 Reg.Ric.

ANNO   2004

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 145/2004 proposto dal Ministero dell’Interno, Capo della Polizia-Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Questura di Pisa in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato con domicilio in Roma via dei Portoghesi n. 12;

contro

@@@@@@@ @@@@@@@ rappresentato e difeso dall’avv. --

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana sede di Firenze Sez. I, n. 5188/2003 del 29/9/2003.

     Visto il ricorso con i relativi allegati;

     Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’appellato;

     Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

     Visti gli atti tutti della causa;

     Alla pubblica udienza del 3 febbraio 2009 relatore il Consigliere --

     Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

     Il ministero dell’interno chiede la riforma della sentenza con la quale il Tar della Toscana ha accolto il ricorso presentato da @@@@@@@ @@@@@@@ per l’annullamento del provvedimento in data 3 dicembre 2002 di irrogazione della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per sei mesi, in dipendenza del comportamento tenuto in ordine alla fruizione di un periodo di congedo straordinario per cure termali, in relazione al quale è stato sottoposto anche a procedimento penale per il reato di truffa.

     La decisione impugnata ha ritenuto che il procedimento sfociato nel provvedimento sanzionatorio non avesse rispettato il termine previsto dall’art. 9 comma 6 dpr n. 737 del 1981 (120 giorni dalla pubblicazione della sentenza) per l’inizio del procedimento disciplinare, essendo intervenuta la sentenza penale in data 12 marzo 2002, mentre la contestazione degli addebiti è stata notificata il 31 luglio 2002. I primi giudici hanno considerato non applicabile la disciplina introdotta con la legge n. 97 del 2001, che prevede termini diversi per la promozione del procedimento disciplinare a seguito di sentenze penali, avendo tale legge portata generale, rispetto alla quale il dpr 737 del 1981 si pone quale normativa specifica per gli appartenenti all’amministrazione della pubblica sicurezza, alla quale gli atti del procedimento hanno fatto costante riferimento, e perché la legge n. 97 trova applicazione solo per i dipendenti che abbiano riportato sentenza irrevocabile di condanna per specifici delitti, tra i quali non rientra quello che ha interessato il ricorrente.

     Il ministero appellante oppone che la legge n. 97 del 2001, che, all’art. 5,  ha previsto il termine di 90 giorni per avviare il procedimento disciplinare decorrenti dalla comunicazione all’amministrazione della sentenza irrevocabile di condanna, si applica per tutti i casi conseguenti a condanne emesse a carico di dipendenti pubblici e per ogni tipo di reato, mentre la specificazione di particolari delitti riguarda la sospensione dal servizio e il trasferimento dall’incarico del dipendente rinviato a giudizio. Nel caso di specie, la sentenza della Corte d’appello di Firenze è diventata irrevocabile in data 6 maggio 2002 e il procedimento disciplinare è stato iniziato il 31 luglio 2002, quindi entro il termine di legge (mentre l’art. 9 dpr n. 737 del 1981 trova applicazione nell’ipotesi di avvio del procedimento disciplinare a seguito di sentenza di assoluzione).

     A tale tesi si è opposto il ricorrente in primo grado, che ha riproposto in questa sede i motivi avanzati davanti al Tar e dichiarati assorbiti nella sentenza impugnata: violazione artt. 19 e 20 dpr n. 737 del 1981, perché sin dall’avvio della procedura disciplinare l’amministrazione, nella persona del funzionario istruttore, aveva identificato la sanzione applicabile e l’ipotesi di mancanza disciplinare, tra l’altro proponendo la destituzione che successivamente ha ritenuto sanzione eccessiva, ingerendosi in valutazione che spettano esclusivamente al consiglio di disciplina; violazione art. 19 comma 5 dpr n. 737 del 1981 e della procedura, essendo trascorsi 59 giorni tra l’inizio e la conclusione dell’inchiesta, contro i 45 previsti dalla norma; violazione art. 1 legge n. 97 del 2001 e art. 653 comma 1 bis c.p., violazione artt. 4, 6, 19, 20 e 21 dpr n. 737 del 1981, eccesso di potere sotto diversi profili, poiché l’amministrazione non  era vincolata ad attribuire valenza disciplinare ai fatti storici accertati in sede penale, ma avrebbe dovuto valutare autonomamente sia l’elemento soggettivo che quello oggettivo rilevanti; inoltre, il consiglio di disciplina non ha identificato con esattezza il comportamento ritenuto punibile e non lo ha ricondotto ad una specifica fattispecie tra quelle previste dall’art. 6 dpr n. 737, tanto è vero che il capo della polizia, nel decreto impugnato, ha ritenuto di poter sopperire a tale mancanza, con una operazione non consentita, in quanto di stretta spettanza del consiglio provinciale di disciplina; violazione art. 21 dpr n. 737 del 1981 sotto altro aspetto, poiché il decreto impugnato è stato notificato all’interessato oltre il termine previsto dalla norma epigrafata.

     A tali censure replica l’amministrazione appellante, come già in primo grado; l’amministrazione conclude per la riforma della sentenza, previa sospensione della stessa.

     L’istanza cautelare è stata respinta con ordinanza in data 20 aprile 2004.

     All’odierna pubblica udienza l’appello è passato in decisione.

DIRITTO

     L’appello contesta la sentenza con la quale il Tar della Toscana ha accolto il ricorso proposto per l’annullamento del provvedimento disciplinare innanzi indicato.

     I) La sentenza prende in considerazione la violazione del termine previsto dall’art. 9 comma 6 dpr n. 737 del 1981, considerato norma speciale per il procedimento disciplinare degli appartenenti alla pubblica sicurezza: risultando che il procedimento sfociato nella sanzione impugnata è stato iniziato oltre il termine di 120 giorni dalla pubblicazione della sentenza penale che ha riguardato il ricorrente, il Tar ne ha tratto la conclusione della illegittimità del provvedimento stesso.

     Tale decisione non può essere condivisa.

     Come questo Consiglio di Stato ha più volte ribadito (cfr, per tutte Sez. VI, n. 624 del 2008), in presenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna non trova applicazione per gli appartenenti alla polizia di Stato lo speciale regime di cui alla legge n. 737 del 1981, ed in particolare l’art. 9 comma 6 che indica per l’inizio del procedimento disciplinare il termine di 120 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza stessa; la norma appena citata trova invece applicazione nel caso di assoluzione e, nel regime antecedente l’entrata in vigore della legge 27 marzo 2001, n. 97 (che ha modificato gli artt. 653 e 445 del codice di procedura penale, equiparando, per quanto qui interessa, la condanna patteggiata a quella emessa a seguito di dibattimento) di condanna pronunciata a seguito di accordo tra le parti (conformemente a quanto ritenuto dall’ Adunanza Plenaria nella decisione n. 10 del 2006).

     La fattispecie in esame, pertanto, nella quale il ricorrente è stato condannato in sede penale con sentenza della Corte d’appello di Firenze divenuta irrevocabile in data 6 maggio 2002, deve essere valutata, contrariamente a quanto ha ritenuto il Tar, alla luce del parametro normativo valevole per tutto il settore dell’impiego pubblico, parametro costituito, attualmente, della legge 27 marzo 2001, n. 97, il cui art. 5 prescrive l’attivazione del procedimento disciplinare nel termine di 90 giorni dalla comunicazione della sentenza penale all’amministrazione competente per il procedimento medesimo, anche se la sentenza sia stata pronunciata a seguito di patteggiamento.

     Né può essere condiviso l’assunto, pure sostenuto dall’appellato, secondo cui la legge n. 97 del 2001 troverebbe applicazione solamente per i dipendenti pubblici nei cui confronti sia disposto il giudizio per alcuni dei delitti indicati dal primo comma dell’art. 3: il richiamo operato dall’art. 5 comma 4 vale invece ad attrarre nell’ambito di applicazione della nuova disciplina tutto il settore dei dipendenti “di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica”, per dettare, conformemente al titolo della legge, norme comuni sul “rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”, e disporre, all’art. 5 comma 4, che l’estinzione del rapporto di impiego può essere pronunciata solo all’esito del procedimento disciplinare, salvo i casi di condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i delitti indicati dall’art. 32 quinquies del codice penale (art. 5 comma 2). Ma il restringere, come vorrebbe il ricorrente in primo grado, la portata della norma alle ipotesi in cui nei confronti del dipendente sia stato disposto il giudizio per i delitti elencati all’art. 3 comma 1, oppure ai procedimenti disciplinari destinati a sfociare in una misura espulsiva significa ignorare non solo la portata dell’equiparazione, disposta dagli artt. 653 e 445 c.p.p. nel testo modificato dalla legge in esame, tra condanna a seguito del dibattimento e condanna ex art. 444 c.p.p, ma anche dimenticare che solo in specifici articoli la legge in discorso detta una disciplina per i casi in cui vengano in evidenza particolari delitti, e infine compiere una non consentita inversione logica, facendo dipendere la struttura del procedimento dall’esito finale dello stesso, che proprio il procedimento potrà determinare.

     Si deve quindi concludere che, essendo il termine di inizio di quest’ultimo procedimento determinato dall’art. 5 comma 4 della legge n. 97 del 2001 anche per gli appartenenti della polizia di Stato (a prescindere da quanto riportato nelle premesse del provvedimento oggetto del giudizio) di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza penale all’amministrazione che deve procedere, e non essendo contestato il rispetto di tale termine nel caso di specie, la sentenza impugnata ha errato nel ritenere tardivo l’avvio della procedura disciplinare.

     Del resto, ed è considerazione conclusiva e generale, dopo la pronuncia della Corte Costituzionale n. 186 del 2004, che ha ritenuto “irragionevole e contraria al buon andamento” la disposizione transitoria dell'art. 10 comma 3 l. 27 marzo 2001 n. 97, nella parte in cui fa decorrere il termine per l'instaurazione del procedimento disciplinare dal momento della conclusione del giudizio penale, anziché dalla comunicazione della relativa sentenza all'amministrazione, il dies a quo per il computo dei termini che decorrono dalla sentenza penale, da qualunque norma siano previsti, non può che coincidere con la comunicazione della stessa alla amministrazione, essendo una diversa interpretazione del tutto irragionevole e contraria al buon andamento della pubblica amministrazione (Tar Sardegna, sez. I, n. 173 del 2006; Cass. sez. lavoro, n. 6601 del 2005).

     Ne deriva che la pretesa del ricorrente in primo grado, ritenuta fondata dai primi giudici, di considerare rilevante il termine previsto dall’art. 9 comma 6 dpr n. 737 del 1981 e di computarlo dalla pubblicazione della sentenza penale di condanna non è invece condivisibile, sia perché anche nel settore dell’impiego presso la polizia di Stato si applica l’art. 5 comma 4 della legge n. 97 del 2001, sia perché qualsiasi termine che trovi inizio dalla sentenza stessa deve intendersi, con interpretazione costituzionalmente orientata, come  decorrente dalla sua comunicazione all’amministrazione competente per il procedimento disciplinare.

     II) Devono, quindi, essere esaminati i motivi dichiarati assorbiti dal Tar in primo grado e riproposti dall’appellato.

     Essi non sono fondati.

     Con il primo di essi si contesta l’indicazione da parte del funzionario istruttore della sanzione da irrogare: la censura non è condivisibile, dal momento che la contestazione di addebito notificata al ricorrente reca l’indicazione che nei fatti imputati al ricorrente sono ravvisabili gli estremi dell’illecito disciplinare previsto dall’art. 7 comma 2 nn. 1, 2 e 3 del dpr n. 737 del 1981, e tale indicazione corrisponde a quanto dispone l’art. 14 del medesimo dpr, secondo il quale la contestazione deve indicare con chiarezza i fatti e la specifica trasgressione di cui l’incolpato è chiamato a rispondere.

     Il ricorrente eccepisce poi la violazione dell’art. 19 comma 5 dpr n. 737 del 1981, perché l’inchiesta sarebbe terminata oltre i quarantacinque giorni previsti dalla norma: ma il funzionario istruttore ha chiesto la proroga del termine con nota del 5 settembre 2002, come consente l’art. 19 del medesimo dpr: tale circostanza, a prescindere dalla non perentorietà del termine considerato, rende la censura infondata in fatto, poiché la relazione finale è stata resa in data 20 settembre 2002.

     Anche il successivo motivo è privo di fondamento, alla luce della considerazione che l’amministrazione non ha valutato automaticamente rilevante sul piano disciplinare i fatti accertati in sede penale, come pretende il ricorrente, ma ha proceduto ad una autonoma valutazione attraverso il procedimento disciplinare (fermo restando che, ai sensi dell’art. 653 c.p.p., l’accertamento dei fatti compiuto in sede penale non può essere revocato in dubbio nella loro materialità) all’esito del quale il consiglio provinciale di disciplina ha proposto la sospensione dal servizio, poi accolta ed integrata (non sostituita, né modificata) dal Capo della polizia mediante la specificazione della fattispecie che definiva il comportamento dell’incolpato.

     Infine, la lamentata violazione dell’art. 21 dpr n. 737 del 1981, che prescrive il termine di dieci giorni per la notifica del decreto sanzionatorio, di cui all’ultimo mezzo, non comporta illegittimità del decreto stesso, poiché tale adempimento attiene ad una fase successiva al perfezionamento del provvedimento.

     III) In conclusione, l’appello deve essere accolto, con consequenziale riforma della sentenza impugnata e reiezione del ricorso di primo grado, ma le spese del giudizio, comprese quelle liquidate da questo Consiglio di Stato in sede cautelare a carico dell’amministrazione, possono essere compensate tra le parti.

P.Q.M.

     Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.

     Spese compensate.

     Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

     Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2009 dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

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