REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N.6167/2005

Reg.Dec.

N.  8921  Reg.Ric.

ANNO   2000

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n 8921 del 2000 proposto da (omissis), rappresentato e difeso dagli avv.ti Vincenzo Pignatelli e Giovanni Di Gioia ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, piazza Mazzini n.27;

contro

il  Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., il Capo della Polizia e il Consiglio provinciale di disciplina della Polizia di Stato della provincia di Torino, in persona del Presidente p.t.,  rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono per legge  domiciliati in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

per l'annullamento,

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione I, n. 576/99 in data 21 ottobre 1999, resa tra le parti;

     visto il ricorso con i relativi allegati;

     visto l’atto di costituzione in giudizio e vista la memoria dell’amministrazione appellata;

     visti gli atti tutti della causa;

     alla pubblica udienza del 5 luglio 2005, relatore il Consigliere Domenico Cafini, uditi l’avv. Di Gioia e l’avv. dello Stato Coaccioli;

     ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

     1. Con ricorso proposto dinanzi al TAR per il Piemonte, l’agente scelto della Polizia di Stato (omissis) (omissis) chiedeva l’annullamento, con gli atti ad esso connessi, del decreto  n.33-D/31402 in data 15.6.1994, notificato il 1°.8.1994, con il quale il Capo della Polizia aveva disposto nei suoi confronti l’irrogazione della sanzione della destituzione (avverso la quale egli aveva già interposto, senza alcun esito, istanza di riesame ex art. 25 D.P.R. 25.10.1981, n.737, con conseguente formazione del silenzio rigetto da parte dell’Amministrazione).

     A sostegno del gravame il medesimo deduceva, con tre motivi di diritto, censure di violazione e falsa applicazione di legge (in particolare: per mancata applicazione dell’art. 9, comma 2, L. 7.2.1990 n.19 e dei principi generali in tema di irrogazione della destituzione, così come interpretati dalla sentenza della Corte costituzionale 14.10.1998 n.971) nonché di eccesso di potere sotto vari profili.

     Con successivi motivi aggiunti il ricorrente denunciava, altresì, la violazione dell’art.3, comma 1, L. n. 241/1990  e del principio del contraddittorio e del diritto di difesa e prospettava ulteriori profili di eccesso di potere.

     Nel giudizio si costituiva il Ministero intimato che si opponeva al ricorso chiedendone, con articolata memoria, il rigetto.

     1.1. Con la sentenza indicata in epigrafe il TAR adito in parte dichiarava inammissibile il gravame ed in parte lo respingeva attesa l’infondatezza delle doglianze in esso formulate.

     1.2. Avverso tale pronuncia il ricorrente ha proposto l’odierno appello, deducendo, a sostegno dello stesso, i seguenti motivi di diritto:

     a) erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato l’inammissibilità del primo motivo del ricorso (violazione di legge: mancata applicazione dell’art.9 comma 2, L. n.19/1990);

     b) erroneità della pronuncia stessa nella parte in cui ha ritenuto infondato il secondo motivo del ricorso (violazione di legge per mancata applicazione dei principi generali in tema di inflizione della sanzione della destituzione, così come interpretati dalla sentenza della Corte Cost. n.971/1988; difetto di motivazione);

     c) erroneità della medesima sentenza nel capo in cui ha respinto il terzo mezzo di gravame (eccesso di potere sotto i profili dell’irrazionalità, travisamento, disparità di trattamento, ingiustizia manifesta, difetto di motivazione);

     d) erroneità della decisione in epigrafe nella parte in cui ha respinto i motivi aggiunti come sopra formulati, lamentando soprattutto che il funzionario istruttore prima e il Consiglio di disciplina poi non hanno disposto il confronto reiteratamente richiesto dall’interessato, violando così il diritto fondamentale di difesa dell’inquisito e la garanzia del contraddittorio.

     L’appellante ha concluso, quindi, per l’accoglimento del gravame con conseguente annullamento della sentenza impugnata e del provvedimento censurato nel giudizio di primo grado.

     Anche nell’attuale fase di giudizio si è costituito il Ministero dell’Interno, che ha depositato apposita memoria nella quale ha contestato le  argomentazioni ex adverso svolte, concludendo per la reiezione dell’appello.

     1.3. La causa, infine, è stata spedita in decisione, su concorde richiesta elle parti, alla pubblica udienza del 5 luglio 2005.

DIRITTO

     1. In ordine all’appello in esame va osservato, in limine, che le tesi argomentative e le conclusioni alle quali è pervenuto il giudice di primo grado sono da condividere, non essendo sufficienti, per una soluzione di segno contrario, le censure prospettate nell’atto di appello, e ciò a parte i profili di inammissibilità di alcune di esse sollevati dalla  difesa erariale, dal cui esame può prescindersi attesa l’infondatezza nel merito del gravame stesso.

     2. Con il primo motivo l’appellante ripropone nella sostanza i rilievi volti a sostenere l’estinzione del procedimento disciplinare in questione in quanto concluso oltre i 90 giorni previsti dall’art. 9, comma 2, L. n.19 del 1990; infatti, ad avviso dell’interessato, l’azione disciplinare de qua è stata iniziata con l’adozione dell’atto di contestazione degli addebiti in data 1.2.1994, mentre l’atto conclusivo del procedimento stesso, costituito dall’impugnato decreto di destituzione in data 15.6.1994, sarebbe stato adottato allorquando il procedimento disciplinare era già estinto e, quindi “in carenza assoluta di potere”.

     Nell’atto di appello l’interessato osserva, peraltro, che se la giurisprudenza dominante all’epoca dei fatti contestati riteneva che detto termine avesse natura non perentoria, tale interpretazione sarebbe stata successivamente  smentita dalla pronuncia della Corte Costituzionale n.197 del 1999.

     2.1. La censura non può essere condivisa.

     2.2. In proposito il Collegio deve rilevare che l’art. 9 della L. n.19/1990, poi riformato dalla L. n.97 del 2001, prevedeva che il procedimento disciplinare conseguente a sentenza di condanna doveva essere proseguito o promosso entro 180 giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e doveva essere concluso nei successivi 90 giorni.

     Dopo che un consolidato orientamento giurisprudenziale aveva escluso la natura perentoria di tale termine per la conclusione del procedimento in questione, la successiva elaborazione della giurisprudenza ha portato, come ricordato dall’Avvocatura dello Stato, a considerare le anzidette due scansioni temporali congiuntamente, ritenendosi legittimo il procedimento disciplinare ove fosse iniziato (o proseguito in caso di sua sospensione) e concluso nel termine di 270 giorni a decorrere dalla data di comunicazione della sentenza all’Amministrazione competente per il procedimento disciplinare.

     Sul punto, invero, la giurisprudenza, dopo la menzionata sentenza della Corte Costituzionale, ha chiarito, più particolarmente, che il termine di novanta giorni entro cui, per effetto del citato comma 2 della legge n.19 del 1990  può essere disposta la destituzione del dipendente pubblico a conclusione del procedimento disciplinare, ha natura perentoria e decorre dalla scadenza del periodo di centottanta giorni dalla notizia della sentenza penale di condanna per proseguire o promuovere il procedimento penale stesso (cfr., in tal senso Cons. St., Ad. Pl. 25.1.2000, n.4).

     Ora, sulla base di quanto innanzi precisato - a prescindere dall’eccezione di inammissibilità del profilo in esame, dedotto nel giudizio di prime cure, il procedimento disciplinare in questione appare avviato con la dovuta tempestività e quindi portato a conclusione nei termini, considerato che la pronuncia di condanna della Corte di Cassazione è stata emessa in data 1.12.1993, la contestazione di addebiti è stata notificata all’agente interessato il 2.2.1994 e il decreto di destituzione è stato emesso nei suoi confronti in data 15.6.1994.

     L’iniziativa procedimentale di cui trattasi, conseguentemente, è certamente tempestiva, rispetto al termine stabilito dall’art. 9, comma 2. della legge sopra citata.

     2.3. Non può, peraltro, validamente assumersi in proposito che sia inapplicabile la disposizione predetta al rapporto di impiego degli agenti di P.S., disciplinato dal D.P.R. n. 737/1981 per effetto della specialità di tale normativa che ne determina l’inderogabilità da parte di disposizioni successive di carattere generale, giacché, come chiarito poi dalla giurisprudenza amministrativa, la disciplina dei termini del procedimento disciplinare ex art. 9, comma 2, L. n.19/1990 ha una portata estensiva nei confronti dei vari settori del pubblico impiego ed è quindi applicabile anche al personale appartenente alla Polizia di Stato (cfr. fra le altre Cons. Stato IV, 9.8.1997 n. 787 e 7.10.1998 n. 1298; C.G.A. 11.6.2002 n. 308).

     La portata estensiva della richiamata normativa, per la parte almeno in cui vengono introdotti termini più ampi per l’inizio e la conclusione del procedimento, è stata desunta, in particolare – come evidenziato dalla difesa erariale – dalla rimeditazione generale della disciplina indotta dalla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 971 del 14 ottobre 1988, nell’ottica della garanzia dell’effettività della ponderazione, da parte dell’Amministrazione procedente, del rilievo dei fatti addebitati al dipendente e della importanza degli stessi ai fini di un eventuale procedimento di destituzione del dipendente medesimo; con la conseguenza che l’esigenza di garantire all’Amministrazione un tempo adeguato per ponderare in maniera completa tutti i fatti potenzialmente rilevanti ai fini di una destituzione, (che ha aveva indotto il legislatore del 1990 ad introdurre nuovi termini ed a fissarne la decorrenza non già dalla data di pubblicazione della sentenza, bensì dalla data di avvenuta comunicazione della sentenza irrevocabile all’autorità amministrativa titolare del potere disciplinare e sanzionatorio), è stata ritenuta esigenza comune a tutti i settori del pubblico impiego, ivi compreso il settore della P.S..

     2.4. Il primo mezzo di gravame – sulla base del disposto dell’art. 9 comma 2 della legge n. 19/1990 e delle considerazioni che precedono - deve essere, dunque, respinto.

     3. Con il secondo motivo dell’appello l’istante - deducendo l’erroneità della  sentenza in epigrafe nella parte in cui ha respinto la censura di violazione di legge per la mancata applicazione dei principi generali in tema di inflizione della sanzione della destituzione, così come interpretati dalla sentenza della Corte costituzionale 14.10.1988, n.971 (che ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art.8, lett. a) del D.P.R. 25.10.1981, n.737, nella parte in cui non prevede in luogo della destituzione di diritto, l’apertura del procedimento disciplinare), nonché la censura di difetto di motivazione - sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dal TAR, nel caso di cui trattasi gli organi preposti hanno istruito e concluso l’intero procedimento, violando più volte il diritto fondamentale di difesa dell’inquisito e la garanzia del contraddittorio che ne costituisce applicazione; e ciò in spregio alle raccomandazioni dettate dalla Corte Costituzionale.

     In particolare, l’appellante rileva, con un primo profilo, che già con decreto del 31.1.1994, il Questore di Torino - nel disporre l’apertura del procedimento e l’affidamento dello svolgimento al funzionario istruttore - aveva indicato contestualmente l’articolo ritenuto violato (art.7 nn.1, 2 e 4 D.P.R. n.737/1981), individuando così, arbitrariamente la fattispecie disciplinare da applicare al trasgressore, violando l’autonomia di giudizio del funzionario istruttore.

     Con altro profilo sostiene poi il medesimo appellante che non sarebbero stati osservati nella specie i principi dettati nella citata sentenza della Corte Costituzionale del 1988; che sarebbero state più volte violate le garanzie del contraddittorio e, più in generale, i diritti di difesa; che sarebbero state negate le richieste istruttorie inoltrate; che, nella sostanza, il decreto di destituzione non avrebbe ponderato la rilevanza disciplinare dei fatti, riducendosi, di fatto, in una destituzione “automatica”.

     3.1. Anche tali profili di censura devono essere disattesi.

     3.2. Quanto al primo di essi - in accoglimento della apposita eccezione sollevata nella memoria della difesa erariale - va rilevata la sua inammissibilità, atteso che il rilievo è stato dedotto per la prima volta in appello.

     3.3. Quanto all’altro più sostanziale rilievo, si osserva che la motivazione della deliberazione del Consiglio provinciale di disciplina in data 1°.6.1994, richiamata nell’impugnato decreto, risulta basata sulle “risultanze della sentenza di condanna del (omissis)” e sugli “atti istruttori disciplinari”, dai quali era emerso che l’agente in questione, “sia pure in veste di gregario”, aveva pur tuttavia posto in essere “comportamenti lesivi dei doveri che competono ad un appartenente della Polizia di Stato”, per avere avuto “conoscenza diretta dei fatti”, sicché era suo preciso dovere “di riferire in merito all’episodio di cui aveva avuto diretta conoscenza “, con conseguente suo comportamento “motivato da atti che rivelano mancanza del senso dell’onore e del senso morale”, atti contrastanti “con i doveri assunti con il giuramento” e determinanti così “un grave danno alla immagine della Polizia di Stato”.

     Ora è proprio sulla base di tale motivazione che il Consiglio di disciplina ha nella specie stabilito di avanzare proposta al Capo della Polizia che all’agente in parola – condannato con sentenza definitiva per concorso in corruzione continuata – fosse adottata “ai sensi dell’art.21 del D.P.R. 25.10.1981, n.737” la sanzione disciplinare della “destituzione” con “la seguente motivazione……. Art.7 nn. 1, 2 e 4 del D.P.R. 25.10.1981, n.737”.

     Ciò posto appare corretta la statuizione del Giudice di primo grado, il quale – dopo avere riprodotto il contenuto dell’art.7 cit. – ha ritenuto che il Consiglio provinciale di disciplina avesse tenuto presente nella specie “quanto affermato nella citata sentenza della Corte Costituzionale n.971 del 14 ottobre 1988” nell’adottare la deliberazione di competenza, e ha, conseguentemente, respinto il profilo di gravame dedotto con riguardo all’asserito difetto di motivazione, in quanto, al contrario di quanto prospettato dal ricorrente, sia la delibera del Consiglio provinciale di disciplina sia il decreto del Capo della Polizia, sopra menzionati, sono risultati adottati sulla base di precise affermazioni, contenute sinteticamente nel preambolo dello stesso decreto.

     Per le considerazioni che precedono anche il secondo motivo deve essere disatteso.

     4. Con il terzo motivo dell’appello viene riprodotta la censura, non condivisa dal TAR, con cui era stato denunciato il vizio di eccesso di potere per irrazionalità, disparità di trattamento e ingiustizia manifesta, oltre che per difetto di motivazione, evidenziandosi, in particolare, l’illogica disparità operata dall’Amministrazione nell’applicare i procedimenti disciplinari agli appartenenti alla Polizia di stato coinvolti nella vicenda penale oggetto della sentenza irrevocabile della Corte di Cassazione sopra specificata.

     Anche tale censura – a prescindere dalla sua inammissibilità secondo quanto rilevato nel giudizio di primo grado dall’Avvocatura dello Stato con apposita eccezione accolta poi dai primi giudici – non può essere positivamente valutata.

     Ed invero, nel caso di specie l’Amministrazione avrebbe inflitto nei suoi riguardi, giusta la tesi del ricorrente, una sanzione più rigorosa rispetto a quella della sospensione temporanea dal servizio, comminata invece ad altri agenti, pur essendo i medesimi coinvolti in maniera non dissimile nella vicenda penale da cui era scaturita la pronuncia sopra accennata.

     L’assunto non è condivisibile.

     Emerge, difatti, dal confronto tra le motivazioni addotte dalla Commissione di disciplina nel proporre la destituzione dell’interessato e la proposta di sospensione temporanea dal servizio degli altri agenti condannati a pene analoghe e per gli stessi reati, che le posizioni dell’agente (omissis) e quelle degli altri colleghi, oggetto del procedimento penale definito con la surriferita sentenza, sono in effetti ben diverse.

     In ogni caso va osservato in proposito che il giudice della legittimità non può qualificare e valutare autonomamente il fatto imputato al pubblico dipendente e sanzionato disciplinarmente dall’Amministrazione di appartenenza, giacché la scelta della punibilità del comportamento rientra soltanto nella valutazione discrezionale di quest’ultima e non può essere sindacata giurisdizionalmente se non nel caso di evidenti ragioni di contraddittorietà, illogicità e travisamento dei fatti (cfr. Cons. St., Sez. IV, 16 aprile 1998, n. 636; 8 luglio 1999, n. 1182) e che, quindi,  il sindacato del giudice amministrativo sulla misura della sanzione disciplinare inflitta dall’Amministrazione ad un proprio dipendente, per non sconfinare in un inammissibile sindacato del merito, deve intendersi limitato ai soli casi in cui sussista una evidente abnorme sproporzione fra i fatti contestati ed accertati e la misura medesima, sproporzione che nella specie non sussiste.

     4.2. Si reitera nell’appello, infine, con altro profilo di censura, il vizio di eccesso di potere per carenza di motivazione ed illogicità  per aver omesso l’Amministrazione qualsiasi valutazione in ordine alla gravità dei fatti commessi dal proprio dipendente agli effetti della commisurazione della sanzione disciplinare e per aver fatto riferimento solo alla decisione della Corte di Cassazione senza alcun autonomo apprezzamento dei presupposti di fatto posti a base della sanzione in concreto irrogata.

     Anche tale doglianza è destituita di fondamento.

     Le anzidette argomentazioni appaiono, infatti, smentite dal tenore della deliberazione del Consiglio provinciale di disciplina interamente recepita nel provvedimento ministeriale.

     In proposito deve osservarsi – premesso che, come accennato, la valutazione della condotta del dipendente sottoposto a procedimento disciplinare rientra nella discrezionalità dell’Amministrazione, la quale è sindacabile, sul piano della legittimità, solo per evidenti ragioni di contraddittorietà, illogicità e travisamento dei fatti -  che il giudice di primo grado ha correttamente rilevato come l’organo collegiale, dopo aver riesaminato il comportamento del (omissis), abbia posto in evidenza la tipologia del reato commesso, la qualifica di agente di P.S. da lui rivestita ed, inoltre, il fatto che lo stesso avesse agito in un particolare contesto, sia pure in veste di gregario, tenendo un comportamento chiaramente lesivo dei doveri propri di un appartenente della Polizia di Stato, avendo avuto, peraltro, conoscenza diretta dei fatti oggetto del reato per cui era stato condannato e non avendo riferito in merito all’episodio di cui aveva avuto diretta conoscenza, comportamento questo motivato da atti che rivelavano una mancanza del senso dell’onore e del senso morale e erano, comunque, contrastanti con i doveri assunti in forza del giuramento.

     Tanto appare sufficiente per ritenere la determinazione impugnata in prime cure immune dai vizi di legittimità prospettati, così come correttamente statuito dai primi giudici.

     5. Con il quarto ed ultimo motivo dell’appello, il ricorrente - premesso che nel giudizio di prime cure aveva lamentato, in particolare, la violazione dell’art.3, comma 1, L. n. 241/1990 nonché del principio del contraddittorio e del diritto di difesa - critica la statuizione del TAR che ha ritenuto l’inammissibilità e l’infondatezza della censura stessa, evidenziando l’illegittimità del mancato accoglimento, da parte del funzionario istruttore, dell’istanza di confronto e la mancata osservanza nella specie delle norme che impongono al funzionario istruttore medesimo di evadere le richieste probatorie provenienti dall’inquisito.

     Anche tale motivo va disatteso.

     Come osservato dal TAR, infatti, da nessuna norma si evince che il funzionario predetto avesse l’obbligo di disporre il confronto chiesto dal ricorrente.

     Rientra, infatti, nell’ambito del potere discrezionale dell’autorità preposta allo svolgimento dell’istruttoria di disporre eventuali ulteriori accertamenti ai sensi dell’art..20 del D.P.R. n. 737/1981 ovvero di assumere direttamente  mezzi di prova a norma dell’art. 113 del D.P.R. n. n.3/1957, relativo al “supplemento di istruttoria”, in base al rinvio operato dall’art.31 del citato D.P.R. del 1981.

     Pertanto, non può ritenersi che nella specie il funzionario istruttore prima e il Consiglio di disciplina poi abbiano, come assunto dall’appellante, illegittimamente operato, non avendo disposto il confronto più volte richiesto dall’agente in questione, in violazione del diritto fondamentale di difesa dell’inquisito e del principio della garanzia del contraddittorio.

     6. Per le considerazioni fin qui svolte l’appello deve essere dunque respinto.

     Sussistono giusti motivi per compensare le spese processuali inerenti i due gradi di giudizio tra le parti in causa.

P.Q.M.

     Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, rigetta il ricorso in appello in epigrafe indicato e, per l’effetto, conferma la sentenza gravata..

     Compensa le spese dei due gradi di giudizio.

     Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

     Così deciso in Roma, il 5 luglio 2005 dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

Mario Egidio SCHINAIA    Presidente

Carmine VOLPE     Consigliere

Giuseppe MINICONE                                              Consigliere

Domenico CAFINI               Consigliere Est.

Francesco CARINGELLA                                       Consigliere   
 

Presidente

MARIO EGIDIO SCHINAIA

Consigliere       Segretario

DOMENICO CAFINI    ANNAMARIA RICCI 
 
 
 
 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA 
 

il.....07/11/2005

(Art. 55, L.27/4/1982, n.186) 
 

Il Direttore della Sezione

MARIA RITA OLIVA 
 
 

CONSIGLIO DI STATO

In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta) 
 

Addì...................................copia conforme alla presente è stata trasmessa  
 

al Ministero.............................................................................................. 
 

a norma dell'art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642 
 

                                    Il Direttore della Segreteria

 
 

N.R.G. 8921/2000


 

FF