REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N.6944/2005

Reg.Dec.

N.9264-9594Reg.Ric.

ANNO   1998

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

1) sul ricorso in appello n. 9264/1998 proposto dal Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici domicilia in Roma via dei Portoghesi n. 12;

contro

(omissis), non costituito;

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale delle Marche n. 863 del 9/7/1998;

2) sul ricorso in appello n. 9594/1998 proposto dal Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici domicilia in Roma via dei Portoghesi n. 12;

contro

(omissis), rappresentato e difeso dall’avv. Claudio Brignocchi e con lui elettivamente domiciliato in Roma, via Sabotino n. 46, presso lo studio dell’avv. Patrizia Propezi;

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio n. 2314 Sez. I ter del 30/7/1998;

     Visti i ricorsi con i relativi allegati;

     Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’appellato;

     Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

     Visti gli atti tutti della causa;

     Alla pubblica udienza del 7 giugno 2005 relatore il Consigliere Lanfranco Balucani. Udito l’avv. dello Stato Tortora;

     Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

     Con decreto del Capo della Polizia 10 dicembre 1993 n. 333 il sig. (omissis), assistente capo della Polizia di Stato veniva destituito dalla Amministrazione della Polizia di Sicurezza con decorrenza dal 24.6.1993, sulla base del verbale della seduta del Consiglio di disciplina  del 23.9.1993 in relazione alla contestazione di una serie di addebiti disciplinari formulata dal funzionario istruttore della Questura di Ascoli Piceno (ove il sig. (omissis) prestava servizio) con atto del 23.5.1993.

     L’anzidetto decreto veniva impugnato dall’interessato – unitamente al silenzio-rigetto formatosi sul ricorso gerarchico proposto avverso il medesimo – dinanzi al TAR Marche, che con sentenza 9 luglio 1998, n. 863 accoglieva il 1° e 4° motivo di gravame, con i quali si lamentava che la notifica del provvedimento di destituzione era stata effettuata oltre la scadenza del termine fissato dall’art. 21 D.P.R. n. 737/1981; nonché la oggettiva sproporzione tra fatti addebitati e sanzione applicata, <<con conseguente violazione dell’art. 7, n. 4 del D.P.R. cit..

     Nei riguardi di detta pronuncia il Ministero dell’Interno ha interposto appello (con ricorso rubricato al n. 9264/1998) sostenendo che il termine di cui all’art. 21 D.P.R. n. 737/1981 non può ritenersi perentorio, e che non sussiste alcuna sproporzione tra i fatti addebitati e la sanzione applicata stante i comportamenti tenuti dal sig. (omissis).

     Nelle more del giudizio di primo grado, questi era stato raggiunto da un secondo provvedimento di destituzione, recante la data del 4.12.1996, che recepiva la proposta formulata dal Consiglio Provinciale di Disciplina di Padova in data 30.10.1996 ove si sottolineava <<la persistente riprovevole condotta dopo che sono stati adottati altri provvedimenti disciplinari>>, e ciò in relazione ad un prestito contratto dal sig. (omissis) con una operaia della ditta appaltatrice del servizio di pulizie all’interno del II° Reparto Mobile (ove lo stesso prestava servizio).

     Anche questo secondo decreto veniva impugnato dall’interessato con ricorso dinanzi al TAR Lazio, Sez. I Ter che con sentenza 7 maggio 1998, n. 2314 lo accoglieva avendo ritenuto che nella fattispecie non si fossero verificate le ipotesi di <<reiterazione delle infrazioni >> e di <<persistente riprovevole condotta>> indicate dalla Commissione di disciplina.

     Tale sentenza è stata gravata con il secondo dei ricorsi in appello all’esame del Collegio (n. 9594/1998) con il quale il Ministero dell’Interno ribadisce la legittimità della propria determinazione.

DIRITTO

     1. Deve essere preliminarmente disposta la riunione dei due atti di appello che si riferiscono alla impugnativa di due distinti provvedimenti di destituzione dal servizio dell’assistente capo della Polizia di Stato, sig. (omissis), stante la connessione soggettiva ed oggettiva che intercorre tra i medesimi.

     2.1. Con il primo degli anzidetti gravami (recante il n. 9264/1998) viene censurata la sentenza del TAR che ha accolto il ricorso proposto dal sig. (omissis) avverso il provvedimento di destituzione adottato con decreto del Capo della Polizia del 10.12.1993.

     L’appello si appalesa fondato per le considerazioni di seguito esposte.

     2.2. Il giudice di prime cure ha accolto il primo motivo di ricorso con il quale si lamentava la violazione degli artt. 19 e 21 D.P.R. n. 737/1981 per avere l’Amministrazione notificato il provvedimento di destituzione oltre il termine fissato nelle anzidette disposizioni.

     Ma siffatta decisione non può essere condivisa.

     Diversamente da quanto sostenuto nella sentenza appellata il termine in questione non riveste natura perentoria. Come è stato già osservato da questo Consiglio, in sede consultiva, il ritardo nella notifica del provvedimento disciplinare nei confronti dell’appartenente alla Polizia di Stato non ha effetti decadenziali sull’atto, atteso che il termine di dieci giorni previsto dall’art. 21 D.P.R. n. 737/1981 ha carattere ordinatorio, non incidendo, a procedimento ormai concluso, sulle esigenze di garanzia connesse al diritto di difesa dell’interessato (così Cons. St., Sez. I, parere n. 2889/2003 del 27 agosto 2003).

     Si aggiunga che la giurisprudenza di questo Consiglio, pronunciandosi sulla analoga disposizione dell’art. 114, ult. comma, T.U. 10 gennaio 1957 n. 3 – ha sempre ritenuto che il termine di dieci giorni entro il quale deve essere comunicato all’“impiegato” il decreto che infligge la sanzione abbia natura ordinatoria (così Cons. St. IV, 21 dicembre 1971, n. 1262; VI, 14 novembre 1972, n. 725; V, 21 novembre 1985, n. 420).

     2.3. Anche il quarto motivo del ricorso introduttivo – che il TAR ha ugualmente ritenuto fondato – non merita di essere condiviso.

     Aderendo alla prospettazione del ricorrente il primo giudice ha sostenuto la illegittimità della destituzione per violazione dell’art. 7, n. 4 del D.P.R. n. 737/1981 dal momento che la motivazione addotta a sostegno della sanzione irrogata sarebbe carente in relazione alla gravità del provvedimento disciplinare, ed anche incongrua non risultando dimostrata la dolosità del comportamento del ricorrente nella violazione dei doveri d’ufficio. Sussisterebbe inoltre una oggettiva sproporzione tra i fatti addebitati e la sanzione applicata anche in considerazione del fatto che i procedimenti penali risultavano soltanto avviati.

     Ma in contrario deve osservarsi che il provvedimento di destituzione appare congruamente motivato con il richiamo degli atti del procedimento disciplinare dai quali si desume che l’(omissis), già raggiunto da una lunga serie di provvedimenti punitivi (quattro richiami scritti, dieci pene pecuniarie e una sospensione dal servizio per mesi uno), ha perseverato nella inosservanza dei propri doveri d’ufficio, essendogli stati contestati i seguenti ulteriori addebiti disciplinari:

     - la inosservanza delle disposizioni concernenti la custodia della pistola d’ordinanza;

     - un tentativo di truffa in danno di una compagnia d’assicurazione;

     - una querela a suo carico per violazione di domicilio e lesioni personali.

     Non può negarsi che i fatti oggetto di contestazione integrino esattamente gli estremi della infrazione disciplinare prevista dall’art. 7, n. 4 del D.P.R. n. 737/1981, dovendosi ritenere sussistente sia la intenzionale violazione dei doveri di ufficio – comprovata dal reiterato atteggiamento trasgressivo -, sia il “grave pregiudizio” in relazione al discredito arrecato all’immagine dalla Polizia di Stato, dai cui membri l’opinione pubblica si attende – come sottolinea la Avvocatura erariale - una condotta particolarmente corretta.

     3.1. Dovendo ritenersi, per quanto precede, la infondatezza dei due motivi di ricorso esaminati dal TAR, vanno esaminati gli ulteriori motivi di censura dedotti in primo grado e dichiarati assorbiti.

     Ma anche tali motivi sono infondati.

     3.2. Quanto al motivo sub 2) del ricorso introduttivo, ove si lamentava che i fatti pregressi per i quali erano state inflitte sanzioni non potevano essere presi nuovamente a base di una nuova sanzione disciplinare, è appena il caso di osservare che costituisce principio generale dell’ordinamento la rilevanza dei precedenti disciplinari, non solo al fine di graduare l’entità della sanzione, ma anche per stabilire se si siano realizzati i presupposti stessi della sanzione.

     3.3. La circostanza che alcuni dei procedimenti penali aperti per i fatti addebitati siano stati poi archiviati – come denunciato con il 3° motivo del ricorso introduttivo – non può incidere sulla legittimità del provvedimento di destituzione dal momento che il decreto di archiviazione racchiude valutazioni che afferiscono specificatamente al profilo penale, e non può pertanto precludere che i medesimi fatti oggetto della “archiviazione” siano considerati rilevanti ai fini disciplinari.

     3.4. Con il 5° motivo del ricorso introduttivo il ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 11 D.P.R. n. 737/1981 per la mancata sospensione di quello penale.

     Al riguardo va però rilevato che ai sensi della anzidetta disposizione presupposto ostativo alla attivazione o alla prosecuzione del procedimento disciplinare è l’esercizio dell’azione penale, che ha inizio nel momento in cui il soggetto indagato acquista la veste di imputato a seguito della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal Pubblico ministero a chiusura delle indagini preliminari (in tal senso Cons. St. IV, 7 maggio 1998, n. 780; cui: IV ord. 28 agosto 2003, n. 3697).

     Senonché nella fattispecie in esame è lo stesso ricorrente ad ammettere che i procedimenti penali a suo carico indicati nell’atto di contestazione degli addebiti non erano << nemmeno giunti alla fase del loro formale esercizio attraverso, perlomeno, la richiesta di rinvio a giudizio o la emissione del decreto di citazione a giudizio>>, essendo solo nello stadio delle <<indagini preliminari>> (così a pag. 2 della memoria finale depositata ….

     Ne consegue che – diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente – non ricorrevano le condizioni impeditive dell’apertura del procedimento disciplinare ex art. 11 D.P.R. cit..

     3.5. Infine non ha ragion d’essere la doglianza relativa alla decorrenza retroattiva attribuita al procedimento di destituzione, giacché, alla stregua di un indirizzo consolidato nella giurisprudenza amministrativa, il procedimento di destituzione dall’impiego legittimamente decorre dalla data di inizio della sospensione cautelare precedentemente disposta, e ciò in quanto la sospensione cautelare per sua natura anticipa quelli che saranno gli effetti propri della sanzione irrogata al termine del procedimento disciplinare.

     4. Per le considerazioni che precedono il ricorso in appello del Ministero concernente il provvedimento di destituzione irrogato al sig. Alesiano con decreto del Capo della Polizia del 10.12.1993 deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, deve essere confermata la legittimità di detto decreto.

     4.1. Passando all’esame del secondo atto di appello (n. 9594/1998), con il quale viene impugnata la sentenza di primo grado che ha annullato l’ulteriore provvedimento di destituzione inflitto all’(omissis) con decreto del 4.12.1996, deve darsi atto della sopravvenuta carenza di interesse in ordine a tale giudizio.

     Invero la ritenuta legittimità del primo provvedimento di destituzione – come sopra esposto – assorbe e rende del tutto improduttivo di effetti l’ulteriore provvedimento che è oggetto del secondo appello, sì che alcuna utilità potrebbe derivare alla Amministrazione appellante da una pronuncia giudiziale che riconoscesse legittimo il decreto del 4.12.1996.

     Deve essere pertanto dichiarata la improcedibilità del secondo dei ricorsi in appello all’esame del Collegio.

     5. Sussistono giusti motivi per compensare integralmente le spese processuali inerenti i due gradi di giudizio tra le parti in causa.

P.Q.M.

     Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, riunisce i due ricorsi in appello in epigrafe indicati e, definitivamente pronunciando sui medesimi accoglie il ric. n. 9264/1998, nei sensi e per gli effetti di cui in motivazione; dichiara improcedibile il ric. n. 9594/1998.

     Compensa integralmente le spese dei due gradi di giudizio.

     Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

     Così deciso in Roma, il 7 giugno 2005 dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

Mario Egidio SCHINAIA  Presidente

Sabino LUCE    Consigliere

Luigi MARUOTTI   Consigliere

Carmine VOLPE   Consigliere

Lanfranco BALUCANI  Consigliere Est. 
 

Presidente

MARIO EGIDIO SCHINAIA

Consigliere       Segretario

LANFRANCO BALUCANI    GIOVANNI CECI 
 
 
 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA 
 

il..05/12/2005

(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)

Il Direttore della Sezione

MARIA RITA OLIVA 
 
 
 
 
 

CONSIGLIO DI STATO

In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta) 
 

Addì...................................copia conforme alla presente è stata trasmessa  
 

al Ministero.............................................................................................. 
 

a norma dell'art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642 
 

                                    Il Direttore della Segreteria

 
 

N.R.G. 9264-9594/1998


 

FF