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Con decisione depositata lo scorso 26 giugno, l'Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato e' intervenuta, su richiesta della Sezione Sesta, per
dirimere alcune questioni relative ai termini del procedimento disciplinare
nei confronti del personale appartenente alla Polizia di Stato.
Occorre premettere che gia' la Sezione Quarta (C.d.S., Sez. IV, 7 ottobre
1998, n. 1298; 9 agosto 1997, n. 785), aveva ritenuto la norma contenuta
nell'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (che fissa per l'avvio del
procedimento disciplinare il termine perentorio di centottanta giorni dalla
data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile
di condanna penale) applicabile a tutto il settore del pubblico impiego, e
quindi anche al personale della polizia di stato.
La Sezione Sesta, nell'ordinanza di rimessione, ha ritenuto tale tesi
condivisibile, ma ha aggiunto che il logico corollario di questa conclusione
dovrebbe comportare l’applicazione della norma nella sua interezza, con
conseguente computo in 270 giorni del termine per la conclusione del
procedimento disciplinare a decorrere dalla notizia della sentenza (senza
dunque dare rilievo allla tempistica fissata dal d.p.r. n. 737/1981).
Di conseguenza, il quale il termine finale di novanta giorni del
procedimento disciplinare, conseguente ad una sentenza penale di condanna,
decorrerebbe allo spirare del termine iniziale di centottanta giorni, entro
i quali la p.a. ha il potere di avviare il procedimento disciplinare (cfr.
Adunanza Plenaria 25 gennaio 2000 n. 7).
L'Adunanza Plenaria ha invece ritenuto che "il richiamo alla giurisprudenza
di questo Consiglio, relativa all’applicabilità dell’art. 9, della legge n.
19/1990 anche al personale della Polizia di Stato, non appare pertinente per
la decisiva considerazione che l’invocato orientamento attiene all’ipotesi
in cui si sia in presenza di sentenza penale di condanna".
"Nel caso in esame, invece, il ricorrente è stato prosciolto dalle relative
imputazioni perché i reati contestati sono stati dichiarati estinti per
intervenuta prescrizione e il relativo procedimento disciplinare conclusosi
con il provvedimento oggetto di impugnazione ha preso l’avvio da una
sentenza di proscioglimento e non, dunque, di condanna".
"Ad avviso di questa Adunanza Plenaria, un procedimento penale conclusosi
con la dichiarazione di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, è
agevolmente assimilabile alla sentenza penale di patteggiamento, per la
quale la stessa Corte costituzionale nella medesima sentenza (28 maggio
1999, n. 197), in cui ha condiviso la tesi della perentorietà del termine di
cui all’art. 9, comma 2, legge n. 19 del 1990, ha, tuttavia, escluso che la
norma trovi applicazione quando il procedimento disciplinare sia instaurato
a seguito di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti (art.
444 del Codice di procedura penale), non potendosi escludere, in tal caso,
per le particolari modalità del procedimento penale, la necessità di
autonomi accertamenti in sede disciplinare".
. . . . . .
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
Sentenza 27 giugno 2006 numero 10
(presidente De Roberto, estensore Salvatore)
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, 10
febbraio 2000, n. 144
(...)
Diritto
1. In via prioritaria, va precisato che l’ambito del quesito sottoposto
all’esame dell’ Adunanza plenaria attiene all’applicabilità, o meno, al
personale della Polizia di Stato del termine di 90 giorni previsto dall’art.
9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, per la conclusione del
procedimento disciplinare.
La questione del rispetto del termine iniziale, pure sollevata dal ricorso
di primo grado, è stata ritenuta infondata dal primo giudice sul rilievo che
il procedimento disciplinare era stato promosso tempestivamente nel rispetto
del termine di 120 giorni, stabilito dall’art. 9, comma 6 DPR n. 737 del
1981, dalla conoscenza della sentenza della Corte di Cassazione del 23 marzo
1995, e non è stata riproposta in questa sede dall’amministrazione
appellante.
2. Ciò precisato, ritiene questa Adunanza Plenaria che il primo motivo
d’appello, con il quale l’amministrazione contesta la statuizione del
giudice di primo grado ed assume che al personale della polizia di Stato,
contrariamente a quanto affermato dal TAR, non sono applicabili le
disposizioni di cui all’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, sia, con
riferimento al caso in esame, fondato.
Il richiamo alla giurisprudenza di questo Consiglio, relativa
all’applicabilità dell’art. 9, della legge n. 19/1990 anche al personale
della Polizia di Stato, non appare pertinente per la decisiva considerazione
che l’invocato orientamento attiene all’ipotesi in cui si sia in presenza di
sentenza penale di condanna.
Nel caso in esame, invece, il ricorrente è stato prosciolto dalle relative
imputazioni perché i reati contestati sono stati dichiarati estinti per
intervenuta prescrizione e il relativo procedimento disciplinare conclusosi
con il provvedimento oggetto di impugnazione ha preso l’avvio da una
sentenza di proscioglimento e non, dunque, di condanna.
E questo procedimento disciplinare è stato avviato in doverosa applicazione
dell’art., comma del DPR 25 ottobre 1981, n. 737, ai sensi del quale “Quando
da un procedimento penale, comunque definito, emergono fatti e circostanze
che rendano l'appartenente ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica
sicurezza passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto
a procedimento disciplinare entro il termine di giorni 120 dalla data di
pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di
notificazione della sentenza stessa all'Amministrazione”.
Come sottolineato dall’Amministrazione, per il personale della Polizia di
Stato, le specifiche disposizioni, di cui al citato D.P.R. 25 ottobre 1981,
n. 737, prevedono un tipo di procedimento disciplinare, che si sviluppa su
più fasi tutte regolate e disciplinate anche per quanto concerne i tempi di
effettuazione e nell’ambito del quale l’amministrazione procedente deve
ponderare, con le garanzie del contraddittorio, la rilevanza disciplinare
dei fatti accertati nel corso del giudizio penale, tenendo conto, altresì,
della personalità dell’incolpato, del suo rendimento in servizio e di ogni
altro interesse pubblico che possa essere validamente considerato
nell’ambito di tale procedimento.
Del resto la potestà disciplinare, nelle sue forme proprie, opera in sfera
diversa da quella che inerisce al magistero penale, tant'è che di regola
anche le formule assolutorie, fatta eccezione della pronuncia perché il
fatto non sussiste, ovvero l'imputato non lo ha commesso, non precludono
l’ingresso all'azione disciplinare (Corte costituzionale 16-19 dicembre
1986, n. 270) e neanche la sentenza penale istruttoria di proscioglimento
preclude che il medesimo comportamento possa essere qualificato
dall’amministrazione come illecito disciplinare (Sez. V, 3 marzo 1988, n.
114).
Ad avviso di questa Adunanza Plenaria, un procedimento penale conclusosi con
la dichiarazione di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, è
agevolmente assimilabile alla sentenza penale di patteggiamento, per la
quale la stessa Corte costituzionale nella medesima sentenza (28 maggio
1999, n. 197), in cui ha condiviso la tesi della perentorietà del termine di
cui all’art. 9, comma 2, legge n. 19 del 1990, ha, tuttavia, escluso che la
norma trovi applicazione quando il procedimento disciplinare sia instaurato
a seguito di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti (art.
444 del Codice di procedura penale), non potendosi escludere, in tal caso,
per le particolari modalità del procedimento penale, la necessità di
autonomi accertamenti in sede disciplinare.
Anche nel caso in esame, come si evince dalla documentazione allegata,
l’Amministrazione, considerate le peculiarità della vicenda in esame, ha
dovuto svolgere autonomi accertamenti istruttori, che sono stati posti in
essere proprio per rispettare quel principio del contraddittorio, ritenuto
“incomprimibile” e tutelato da varie norme dello stesso DPR n. 737 del 1981;
ha avviato l’inchiesta disciplinare nel rispetto del termine iniziale
stabilito ed ha proseguito l’iter rispettando rigorosamente la tempistica
prevista dalla richiamata normativa, proprio al fine di garantire al
dipendente il pieno e compiuto esercizio del suo diritto di difesa nel pieno
rispetto del principio del contraddittorio; ha, poi, concluso il
procedimento con provvedimento in data 8 novembre 1995, dopo 219 giorni
dalla pronuncia della Corte Suprema di Cassazione intervenuta il 23 marzo
1995 e dopo soli 203 giorni dalla data di contestazione degli addebiti:
dunque, con il pieno rispetto dei termini intermedi e finali indicati dal
menzionato DPR n. 737 del 1981.
Si può, quindi, concludere nel senso che nel caso di specie, contrariamente
a quanto ritenuto dal primo giudice, da un lato, non si applica il termine
finale di cui all’art. 9, comma 2 della legge n. 19 del 1990, e, dall’altro
lato, il provvedimento finale è stato adottato nel pieno rispetto della
tempistica prevista dal DPR n. 737 del 1981.
Vero è che la citata normativa non prevede un termine finale per l’adozione
del procedimento sanzionatorio, ma questa lacuna non assume rilevanza posto
che, ove venga rispettata, come nella specie, la scansione temporale
disciplinata dalle varie disposizioni, il procedimento si conclude in un
arco temporale complessivamente inferiore a quello previsto dal menzionato
art. 9, comma 2 della legge n. 19 del 1990 (complessivamente 270 giorni).
Le conclusioni ora raggiunte rendono superfluo l’esame della questione circa
l’applicabilità, nella sua interezza, del menzionato art. art. 9, comma 2
della legge n. 19 del 1990.
3. Vanno ora esaminate le ulteriori censure dedotte con il ricorso di primo
grado, dichiarate assorbite dal TAR ed espressamente riproposte
dall’appellante in questo grado.
3.1. Esse investono, in primo luogo, i termini intermedi stabiliti per il
compimenti di atti preordinati all’adozione di quello finale.
In tale contesto, ad avviso del ricorrente originario, sarebbe stato violato
l’art. 120 del DPR 10 gennaio 1957, n. 3, che prevede l’estinzione del
procedimento disciplinare quando sia decorso il termine di novanta giorni
dall’ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto: nella
specie, dopo l’atto di contestazione degli addebiti, avvenuta il 21 aprile
1995, la prima convocazione della Commissione di disciplina sarebbe avvenuta
in data 12 settembre 1995, e, quindi, ben oltre i novanta giorni. Sarebbero,
inoltre, stati violati il termine perentorio di 45 giorni previsto dall’art.
19, comma 5 del DPR n. 737 del 1981, per il conclusione dell’inchiesta da
parte del funzionario istruttore, nonché quello stabilito dall’art. 21 del
medesimo decreto presidenziale, per la comunicazione del provvedimento di
destituzione.
Tutte le doglianze sono infondate.
Con riferimento all’asserita violazione dell’art. 120 del TU 10 gennaio
1957, n. 3, è sufficiente rilevare che, come emerge dall’esame della
documentazione esibita, tra la contestazione degli addebiti del 21 aprile
1995, e la prima convocazione del Consiglio di Disciplina, intervenuta in
data 12 settembre 1995, si sono susseguiti tutta una serie di atti quali la
produzione delle giustificazioni da parte dell’inquisito in data 13
settembre 1995, la relazione del funzionario istruttore a conclusione
dell’inchiesta disciplinare in data 14 giugno 1995, e il deferimento da
parte del Questore dell’Altavilla al Consiglio Provinciale di Disciplina:
atti questi, la cui scansione temporale e il cui susseguirsi sono previsti
specificamente dall’art. 19 DPR n. 737 del 1981, quali fasi dell’istruttoria
per l’irrogazione della sospensione del servizio o della destituzione.
Il che esclude che si sia verificata l’ipotesi di estinzione del
procedimento disciplinare di cui all’invocato art. 120 DPR n. 3 del 1957.
Quanto agli altri termini, è facile osservare che, secondo pacifico
orientamento della giurisprudenza amministrativa, hanno carattere
ordinatorio i termini fissati per la nomina del funzionario istruttore, per
il compimento degli incombenti preliminari e per la trasmissione della
delibera della Commissione di Disciplina. In particolare ha carattere
ordinatorio, e non perentorio come erroneamente sostenuto dall’appellato, il
termine di 45 giorni per la conclusione dell’inchiesta disciplinare.
Altrettanto pacifico è l’orientamento giurisprudenziale in ordine al termine
di dieci giorni, previsto dall’art. 21 del DPR n. 737 del 1981, per la
comunicazione all’inquisito del provvedimento finale. L’eventuale ritardo
nella notifica del provvedimento disciplinare, peraltro nella specie di un
solo giorno, non ha effetti decadenziali sull'atto, atteso che il termine di
dieci giorni ha carattere ordinatorio, non incidendo, a procedimento oramai
concluso, con le esigenze di garanzia connesse al diritto di difesa dell'
interessato.
Si deve, pertanto, concludere per l’infondatezza delle censure sollevate dal
ricorrente in ordine al mancato rispetto dei termini nel procedimento
disciplinare de quo.
4. A conclusioni negative deve pervenirsi, infine, con riguardo alla censura
di violazione e falsa applicazione dell’art. 7, nn. 1, 2 e 4 del D.P.R. 25
ottobre 1981, n. 737, nonché di eccesso di potere in tutte le sue figure
sintomatiche, ed, in particolare, sotto i profili del difetto di
istruttoria, del falso presupposto, del travisamento del fatto,
dell’ingiustizia manifesta, dell’illogicità, dell’insufficiente,
contraddittoria ed illogica motivazione.
Il ricorrente assume che il procedimento sarebbe stato concretamente
promosso in relazione ai fatti oggetto della sentenza di assoluzione
pronunciata dal Tribunale di Roma il 6 marzo 1992 ed il richiamo alla
sentenza della Corte di Cassazione del 23 marzo 1995 sarebbe un mero
espediente finalizzato ad eludere la decadenza dell’azione disciplinare.
Inoltre, i fatti addebitati non evidenzierebbero alcuna responsabilità del
ricorrente, né l’amministrazione avrebbe adeguatamente valutato le
giustificazioni da lui presentate.
4.1. Con riferimento alla questione dei fatti contestati, che, secondo il
ricorrente, si riferirebbero a vicenda per la quale era stato assolto e non
ai fatti oggetto del procedimento penale relativo all’associazione a
delinquere per commettere furti, conclusosi con la decisione della
Cassazione, va osservato che questo particolare priflo del secondo motivo
del ricorso originario è stato ritenuto infondato in punto di fatto dal
giudice di primo grado (cfr. punto 3, pag. 6 della motivazione e, in
particolare, gli ultimi due periodi.
Segue da questa precisazione che questa statuizione del primo giudice poteva
essere contestata solo con specifico motivo di ricorso incidentale.
Poiché, però, la doglianza viene riproposta solo con il controricorso, non
notificato, essa deve essere dichiarata inammissibile.
4.2. Quanto alla questione sostanziale della censura, va premesso che
all’Altavilla è stato contestato “un comportamento che rivela mancanza del
senso morale e dell’onore, tenuti in contrasto con i doveri assunti con il
giuramento, risultano gravemente pregiudizievoli per ‘immagine
dell’Amministrazione della P.S.”.
Come emerge dalla documentazione esibita, il procedimento disciplinare si è
svolto attraverso un’adeguata ed approfondita attività istruttoria,
nell’ambito della quale il Consiglio di Disciplina ha tenuto conto dello
svolgimento dei fatti, valutandone la rilevanza disciplinare e pervenendo
alla sanzione espulsiva sul rilievo che l’agente di polizia aveva
perpetrato, insieme ad altri colleghi, furti ai danni di locali e convogli
ferroviari, che, per dovere d’ufficio, era obbligato a sorvegliare.
Nessuna confusione sui fatti contestati è dato scorgere nello svolgimento
del procedimento disciplinare.
Se può convenirsi che il funzionario istruttore ha escluso che l’inquisito
avesse la possibilità di cambiare i turni di servizio, non può sottacersi
che dall’istruttoria, è emerso sia che era consentito effettuare il cambio
dei turni di servizio su semplice richiesta delle parti sia che l’inquisito
era risultato quale punto di riferimento anche per gli altri agenti
coinvolti, per avere notizie sulla data e sulle modalità del furto e per la
consegna delle somme illecitamente ricavate.
Né vale ad attenuare la posizione del ricorrente la circostanza – da lui
pacificamente ammessa - di avere partecipato ad un solo furto, perché anche
soltanto la partecipazione ad un solo furto assume un peculiare rilievo in
sede disciplinare, soprattutto per la gravità del comportamento che non solo
evidenzia mancanza di senso morale, ma si pone in grave contrasto con i
doveri assunti con il giuramento, ove si consideri che un agente di polizia
ha il dovere istituzionale di prevenire e reprimere i comportamenti
illegali, non certo a perpetrarli e agevolarli.
In sostanza la destituzione trova la sua ragion d’essere nella
considerazione che un appartenente della Polizia di Stato - cioè un soggetto
il cui preciso dovere istituzionale è quello di tutelare l’ordine a la
sicurezza pubblica - si è reso responsabile, per sua stessa ammissione, di
partecipazione ad un’organizzazione criminosa dedita a furti, condotta che
ex se rivela mancanza del senso dell’onore, del senso morale e per di più
palesemente contrastante con i doveri assunti con il giuramento.
Un tale comportamento è agevolmente riconducibile, come esattamente afferma
l’amministrazione, alle fattispecie previste dai nn. 1, 2 e 4 dell’art. 7,
DPR n. 737 del 1981, anche per la riscontrata irrilevanza delle
giustificazioni fornite, le quali sono state ritenute non in grado di
scalfire la gravità dei fatti contesati.
Da qui la ritenuta obiettiva impossibilità per l’amministrazione di
continuare ad avvalersi di dipendenti che incorsi in condotte illecite
particolarmente significative sul piano del prestigio e quindi idonee a far
venire meno la fiducia dell’amministrazione e dei cittadini nei loro
confronti.
Quanto poi alla sanzione irrogata, va osservato che le norme relative al
procedimento disciplinare sono necessariamente comprensive di diverse
ipotesi e, pertanto, spetta all'Amministrazione, in sede di formazione del
provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto l'infrazione e fatto, il
quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga
discrezionalità.
Né può disconoscersi che il comportamento dell'inquisito ha procurato un
grave pregiudizio all'Amministrazione, ove si considerino i peculiari e
delicati compiti che le sono propri e che per loro natura la espongono, in
modo particolare all'apprezzamento dell'opinione pubblica, la quale, nel
particolare settore dell’ordine e della sicurezza pubblica, esige efficienza
operativa e correttezza di condotta da parte del personale del1a Polizia di
Stato.
Va, infine, rilevato che le norme relative al procedimento disciplinare sono
necessariamente comprensive di diverse ipotesi ed è, pertanto, compito
dell’Amministrazione stabilire, in sede di formazione della sanzione da
irrogare, il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale necessariamente
assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga
discrezionalità.
L’Amministrazione dispone, difatti, di un ampio potere discrezionale
nell’apprezzare autonomamente le varie ipotesi disciplinari, con una
valutazione insindacabile nel merito da parte del giudice amministrativo.
In conclusione, si può affermare che il provvedimento impugnato si sottrae
alle varie censure sollevate sia di violazione di legge sia di eccesso di
potere per difetto di motivazione (il provvedimento è adeguatamente motivato
per relationem al parere del Consiglio di Disciplina) e per le altre figure
sintomatiche enunciate nell’epigrafe del motivo in esame.
5. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va accolto e, per
l’effetto in riforma della sentenza appellata, il ricorso di primo grado va
respinto.
Le spese del doppio grado possono essere compensate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria),
definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe specificato, lo
accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il
ricorso di primo grado. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la
presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in
Roma, il 27 marzo 2006 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Adunanza Plenaria), riunito in Camera di Consiglio. Depositata in
segreteria il 27 giugno 2006.
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