REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio – Sez. 1^ bis – ha pronunciato la seguente

Sent. n.

Anno 2006

R.g. n. 13959

anno 2002

 
 

SENTENZA

sul ricorso n. 13959/2002, proposto da ...OMISSIS.... ...OMISSIS...., rappresentato e difeso, per mandato a margine degli atti introduttivi, dagli avv. ti Eduardo Boursier Niutta e Francesco castiello, presso il cui studio è elettivamente domiciliato, in Roma, v. G. Cerbara, n. 64,

contro

il MINISTERO della DIFESA – Comando Generale dei Carabinieri - in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato presso cui è domiciliato ex lege, in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12,

per l’annullamento

del decreto n° 263/III/7/2002 in data 15.10.2002, del Ministero della Difesa – DGPM - col quale è stata disposta “la perdita del grado per rimozione per gravi motivi disciplinari”;

nonchè di tutti gli atti preordinati, connessi e consequenziali, segnatamente, della nota prot. n 551/D/- 181 – 1993 in data 23.10.2002, del Comando Regione Carabinieri Lazio, recante la trasmissione della anzidetta determinazione;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Avvocatura Generale dello Stato per l’Amministrazione della Difesa e dei controinteressati intimati;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Designato relatore alla pubblica udienza del 4 luglio 2005 il Consigliere Donatella Scala;

Uditi l'avv. Castiello per il ricorrente e l’avv. dello Stato Elefante per l’Amministrazione della Difesa;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

FATTO

Espone la parte ricorrente, già Maresciallo Ordinario dell’Arma dei Carabinieri, di essere stato condannato, con sentenza passata in giudicato l’11.12.2001, alla reclusione di un anno e 4 mesi, ed alla multa di £. 10.000.000, con sospensione e non menzione, in relazione al reato di cui all’art. 71, comma 1, legge 685/1975.

Riferisce, ancora, che, all’esito dell’avviata inchiesta formale a proprio carico, è stato deferito alla Commissione di disciplina, la quale, in data 2 settembre 2002, lo riteneva “meritevole di mantenere il grado”

Con il ricorso in epigrafe impugna, ora, il provvedimento con cui, in difformità dal parere di cui sopra, è stata disposta la rimozione del grado per gravi motivi disciplinari, ai sensi dell’art. 60, legge 31 luglio 1954, n. 599.

Ha al riguardo dedotto con i motivi di ricorso:

  1. Illegittimità costituzionale della legge 31 luglio 1954, n. 599, art. 75;
  2. Violazione e falsa applicazione dell’art. 75, legge 31 luglio 1954, n. 599; violazione dell’art. 3, legge 241/1990; violazione dell’art. 4, D.M. 16.09.1993, n. 603; violazione dell’auto vincolo regolamentare; violazione dell’art. 10, legge 241/1990; eccesso di potere per apoditticità ed incongruenza della motivazione;
  3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 75, legge 31 luglio 1954, n. 599; eccesso di potere per carente istruttoria e per travisamento dei presupposti; contraddittorietà;
  4. Eccesso di potere per carente istruttoria e per travisamento di presupposto sotto altro profilo; violazione del principio di proporzionalità;
  5. Violazione del principio di tipicità procedimentale; eccesso di potere per perplessità.    

Lamenta, in primis, il ricorrente, la violazione del termine di novanta giorni, quale temine perentorio per concludere il procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 19, legge 7 febbraio 1990, in assenza di ulteriori accertamenti istruttori, denunciando la tardività del provvedimento sanzionatorio gravato.

Introduce poi, preliminarmente, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, legge 599/1954, a norma del quale: “Il Ministero della Difesa può discostarsi dal giudizio della Commissione di disciplina a favore del sottufficiale e, soltanto in casi di particolare gravità, anche a sfavore.”, siccome in contrasto con quanto previsto nell’ambito del pubblico impiego, ove la corrispondente previsione normativa consente all’Amministrazione di discostarsi dal parere solo “in bonam partem”, sollecitando, pertanto, una interpretazione della norma in esame nel senso di consentire la riforma “in malam partem” solo in casi del tutto straordinari. Deduce, sotto detto profilo, che nel caso controverso la Commissione di disciplina avrebbe assunto un giudizio congruo, mentre con l’impugnata determinazione si sarebbe di fatto sovrapposto arbitrariamente un nuovo giudizio a quello originariamente assunto.

Il provvedimento espulsivo sarebbe censurabile, altresì, in quanto assunto in carenza di adeguato supporto motivazionale, in assenza di particolari circostanze che sole avrebbero consentito la reformatio in pejus, non essendo stato tenuto conto delle aggettivazioni interne riportate nei documenti caratteristici alle voci “senso del dovere” e “senso della disciplina”, in assenza di istruttoria, non essendo stata svolta autonoma valutazione dei fatti accertati nel processo penale, e con l’intervento non previsto da alcuna norma del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri.         

Conclude la parte ricorrente per l’accoglimento del proposto gravame, con annullamento del provvedimento sanzionatorio.

L’Avvocatura Generale dello Stato si è ritualmente costituita in giudizio in difesa dell’intimata Amministrazione, e con memoria difensiva ha puntualmente eccepito l’infondatezza delle dedotte censure.

Alla pubblica udienza del 4 luglio 2005, le difese delle parti hanno insistito nelle rispettive conclusioni, ed il Collegio ha ritenuto la causa a decisione.

DIRITTO

Con il gravame in esame è proposta impugnativa del provvedimento con cui è stata disposta la perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari del Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri ...OMISSIS...., ai sensi dell’art. 60. n. 6, legge 31 luglio 1954, n. 599.

Deve essere esaminata, preliminarmente, la censura con cui è dedotta la decadenza del potere sanzionatorio per superamento del termine di novanta giorni di cui alla legge 19/1990.  

Come noto, la legge 31 luglio 1954. n. 599, in tema di stato giuridico dei sottufficiali delle Forze Armate, all’art. 60 indica le ipotesi in cui è applicabile la perdita del grado ed ai successivi artt. 64, 65, 67, 72 e 74 regolamenta il procedimento disciplinare in genere.

La richiamata normativa descrive uno sviluppo procedimentale articolato in distinte fasi, con descrizione esaustiva dei contenuti delle stesse, ma non ne cadenza i tempi.

E’ priva, infatti, di riferimenti temporali la previsione di un'iniziale inchiesta formale con l'obbligo per l'Autorità procedente (variamente individuata dall'art. 65 cit. secondo i criteri di competenza ivi indicati) di contestare gli addebiti al sottufficiale inquisito, che ha facoltà di presentare sue discolpe (art. 64, primo comma, cit.); conclusasi l'inchiesta formale con la raccolta degli elementi di prova dell'addebito contestato, l'autorità procedente, ove ritenga il sottufficiale passibile della sanzione della perdita del grado (cui consegue, ex art. 26, lett. o, della stessa legge n. 599 del 1954, la cessazione dal servizio permanente e quindi la perdita del posto di lavoro) ne ordina il deferimento alla Commissione di disciplina (art. 66 cit.) e della convocazione di questa stessa da comunicazione all'inquisito (art. 72, terzo comma, cit.).

La seduta della Commissione di disciplina è celebrata in contraddittorio con il sottufficiale inquisito, assistito da un ufficiale difensore e si conclude con il giudizio, espresso dalla Commissione in ordine al quesito se il sottufficiale meriti, o meno, di conservare il grado. Peraltro i tempi del procedimento disciplinare possono ulteriormente dilatarsi nell'ipotesi in cui ci sia un ritorno alla fase dell'inchiesta ove la Commissione ritenga di non poter esprimere il proprio giudizio senza un supplemento di istruttoria; in tal caso il presidente rinvia gli atti all'autorità che ha disposto la convocazione del sottufficiale a chiusura dell'inchiesta formale perchè provveda alle ulteriori indagini (art. 74, ottavo comma,cit.).

Esaurito, infine, il procedimento innanzi alla Commissione di disciplina, gli atti sono trasmessi al Ministro della difesa (oggi al Dirigente generale) che provvede con decreto.

Sulla assenza di indicazione dei termini del procedimento disciplinare si pronunciò, come noto, la Corte Costituzionale che, con sentenza n. 104 del 1991, ne ha statuito l’illegittimità, per violazione dei parametri discendenti dall’art. 3 della Costituzione, rilevando la lesione dei canoni di eguaglianza e ragionevolezza rispetto alla parallela fattispecie del procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti civili dello Stato, essendo previsti solo per costoro, ma non anche per i militari, i termini acceleratori e dilatori dettati dagli artt. 97, 111 e 120 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, per gli impiegati civili dello Stato.

II riequilibrio delle posizioni  è stato dunque assicurato parificando le garanzie dei militari sottufficiali delle Forze Armate a quelle dei dipendenti civili dello Stato sia sotto il profilo del termine iniziale che di quello finale.

E’ intervenuta, poi, la legge 7 febbraio 1990, n. 19, che, nell’introdurre modifiche in tema, tra l’altro, di destituzione di pubblici dipendenti, ha indicato quali termini per la prosecuzione o promozione del procedimento in detta materia “centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni.”

Nel caso in esame, l'Amministrazione ha avuto notizia della sentenza della Corte di Appello di Roma , il 19 febbraio 2002; ha contestato l'addebito al militare in data 20 aprile 2002; ha concluso il procedimento, dopo pronuncia della commissione di disciplina del 2 settembre 2002, con il provvedimento di destituzione nella data del 15 ottobre 2002.

Dunque, come anche rilevato dalla difesa erariale, è stato osservato il termine complessivo di duecentosettanta giorni, derivante dalla norma di cui s'è detto, ma non il termine di novanta giorni dalla contestazione degli addebiti.

Sul punto ha avuto modo di pronunciarsi il Consiglio di Stato che con numerose plenarie, tra cui la più recente è la n. 1/2004, ha enunciato il principio, da cui il Collegio non ha motivo per discostarsi con riferimento al caso de quo, che il termine di novanta giorni stabilito dall' art. 9, comma 2, legge 7 febbraio 1990, n. 19, per la conclusione del procedimento disciplinare nei confronti del dipendente pubblico, con irrogazione della destituzione dall'impiego inizia a decorrere, non già dalla data dell'effettivo avvio del procedimento stesso, ma dalla scadenza dei centottanta giorni, sempre previsti dall' art. 9, comma 2, che costituiscono il periodo temporale massimo entro il quale - avuta conoscenza della sentenza penale di condanna - deve avere inizio (o proseguire) il procedimento, sicché il tempo che non può essere superato, a pena di violazione della perentorietà del termine, è quello totale di duecentosettanta giorni.

Il procedimento in esame è dunque tempestivo essendo intercorsi tra la avvenuta conoscenza di sentenza penale di condanna irrevocabile e l’emissione del provvedimento conclusivo 237 giorni.

Deve essere ora esaminata la lamentata esorbitanza del potere previsto dalla legge 599/1954, attribuito al Dirigente generale a mente dell’art. 75, di scostamento dalla proposta della Commissione di disciplina in senso sfavorevole all’inquisito.

Prevede, infatti, il richiamato art. 75 della legge 31 luglio 1954, n. 599, che, all’esito del procedimento disciplinare “Il Ministro può discostarsi dal giudizio della Commissione di disciplina a favore del sottufficiale e, soltanto in casi di particolare gravità, anche a sfavore”.

Come è noto, analoga previsione risultava fino al 1957 contenuta nell’ordinamento disciplinare degli impiegati civili dello Stato nonché in quello dei dipendenti degli enti locali, ma con l’entrata in vigore dell’art. 114 del DPR 10.1.1957, n. 3, la facoltà per il l’Autorità decidente di provvedere in malam partem è stata espunta dall’ordinamento dell’impiego civile statale, prevedendosi l’obbligo per il Ministro di conformarsi alla deliberazione della  Commissione di disciplina, salvo i casi in cui non ritenga di disporre in modo più favorevole all'impiegato.

A mente della esaminata normativa, la valutazione in ordine alla rilevanza disciplinare del comportamento tenuto dal dipendente incolpato è riservata all’Organo collegiale appositamente istituito, sulla base del giusto procedimento avanti ad esso espletato, mentre all’Autorità decidente (ora il Dirigente generale, ai sensi del D. lgs. n. 29 del 1993) è consentito di discostarsi dalla relativa proposta solo in bonam partem, evidentemente valorizzando elementi favorevoli al dipendente non adeguatamente tenuti presenti in sede procedimentale.

La disposizione del 1954 riguardante i sottufficiali, assumendo una connotazione di specialità rispetto al principio generale enunciato dalla corrispondente norma del T.U. del 1957, è sospettata di incostituzionalità dalla difesa di parte ricorrente, proprio in ragione  di un ingiustificabile deteriore trattamento riservato il personale militare.

Sul punto, peraltro, è stato condivisibilmente osservato che non sono evidenziabili elementi di incompatibilità col principio costituzionale di uguaglianza e ragionevolezza nella norma de qua, non essendo omologabili le situazioni – status dell’impiegato civile e status del militare – da porre a raffronto. (c. fr. Cons. di Stato, IV Sez., 9 ottobre 2002, n. 5370)

Peraltro, la circostanza che altra norma relativa al personale militare, (art. 42 della legge 18 ottobre 1961, n. 1168, recante norme sullo stato giuridico dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell'Arma dei carabinieri) abbia successivamente recepito nel peculiare ordinamento dell’Arma il principio enunciato dal TU n. 3/57, prevedendo che “Il Ministro può discostarsi dal giudizio della Commissione di disciplina a favore del militare”, ha rappresentato nell’evoluzione della normativa di riferimento, e nei confronti di soggetti tutti caratterizzati dall’identico status militare, una potenziale lesione del principio Costituzionale di uguaglianza e ragionevolezza, atteso che l’Autorità decidente, in questo caso non può più irrogare sanzione diversa (se non più lieve)  di quella proposta dalla Commissione, nel caso degli altri sottufficiali può invece tuttora applicare – e senza limiti -  sanzione più grave.

Tuttavia, l’utilizzo di un consolidato canone ermeneutico consente di verificare – prima di scrutinare la eventuale non manifesta infondatezza della relativa questione di legittimità costituzionale – se la norma di cui all’art. 75, legge n. 599 del 1954 possa essere interpretata in senso conforme a Costituzione, considerando eccezionale  l’ipotesi della inflizione ai sottufficiali di sanzione più grave di quella proposta dall’Organo di disciplina.

In tale prospettiva, la legge del 1954, nella parte in cui prevede che il Ministro - ora Direttore Generale - può discostarsi dal parere della Commissione di disciplina in casi di particolare gravità, non attribuisce un ordinario potere di revisione in peius delle deliberazioni adottate nella precedente istanza collegiale, ma si riferisce ad ipotesi del tutto eccezionali o extra ordinem, nel contesto delle quali la legge consente di valorizzare elementi o presupposti di ordine prospettico generale non tenuti adeguatamente presenti dall’Organo istruttorio.

Ne consegue che allorché l’Autorità deliberante fa uso di tale facoltà non può limitarsi a sostituire la propria all’altra valutazione di merito, ma deve invece concretamente individuare le circostanze “eccezionali” che impongono di disattendere la proposta formulata dall’Organo competente, all’esito del giusto procedimento e con la piena garanzia del contraddittorio. (c. fr. Cons di Stato, IV Sez., ord. 18 maggio 2004, n. 2248)

Tanto premesso, e passando ad esaminare il caso in esame, ritiene il Collegio che il provvedimento impugnato è suffragato da un idoneo apparato motivazionale, dal quale emergono con sufficiente chiarezza le ragioni che hanno indotto l’autorità promanante a fare uso del potere di riforma del giudizio reso dalla Commissione di Disciplina, essendo ivi evidenziati i presupposti abilitanti alla reformatio in peius.

Si legge, infatti, che l’Amministrazione ha ritenuto il giudizio reso dalla Commissione di Disciplina non proporzionato alla gravità dei fatti, avendo il ricorrente, con il suo comportamento altamente lesivo dell’immagine dell’Istituzione, evidenziato gravissime carenze morali e di carattere, incompatibili con l’ulteriore permanenza nell’Arma dei Carabinieri.

Sono stati dunque valorizzati i presupposti ed individuate le circostanze di eccezionale gravità, evidentemente non tenuti in adeguato conto dalla Commissione di disciplina, che hanno imposto all’Autorità amministrativa di modificare la adottata proposta.

Ha, pertanto, decretato l’espulsione del ricorrente dall’Arma dei Carabinieri, siccome resosi protagonista di numerose azioni, tutte riconducibili ad un unico disegno criminoso, connesso alla circolazione di rilevanti quantitativi di sostanze stupefacenti, ed all’acquisto di parte di queste da destinarsi all’uso personale, acclarate in sede penale, non solo grazie alle indagini svolte da agente sotto copertura, ma anche confermate da piena confessione, oltre che dalle reciproche chiamate in correità da parte di tutti i personaggi coinvolti nella detta vicenda.

L’Amministrazione della Difesa ha, pertanto, ritenuto la condotta del militare disciplinarmente biasimevole, siccome contraria ai principi di moralità e rettitudine cui l’azione militare deve essere improntata, ai doveri connessi al giuramento prestato, ed a quelli di correttezza ed esemplarità, nonchè lesiva del prestigio dell’Istituzione, ulteriormente denunciando l’irrimediabile compromissione del collegamento fiduciario che l’Arma dei Carabinieri, notoriamente impegnata in via prioritaria in compiti di prevenzione e repressione di quegli stessi fenomeni criminosi - e di cui il ricorrente è stato, invece, attivo protagonista – deve nutrire nei confronti dei propri operatori.   

In altri termini, l’Autorità non ha operato una diversa valutazione dei fatti, ritenendoli più gravi, siccome univocamente emersi dalla lettura dei procedimenti penali, e pure ribaditi in sede disciplinare, ma, nell’ambito del potere discrezionale di scelta di sanzione adeguata alle violazioni concretizzatesi, ha ritenuto di irrogare quella più grave, non apoditticamente, ma attraverso un percorso argomentativo, in ordine alla congruità del quale questo giudice non può che arrestarsi. 

Come noto, il sindacato giurisdizionale non può estendersi a valutazioni di merito in ordine alla ragionevolezza intrinseca della sanzione espulsiva inflitta al sottufficiale, siccome correlata all’apprezzamento del grado di gravità dei comportamenti o fatti contestati, che rientra nell’ambito di un potere amministrativo, censurabile solo per travisamento dei fatti  o manifesta illogicità.

I detti parametri, sintomatici di illegittimità, peraltro, non ricorrono nel caso de quo.

Intanto, rileva il Collegio che i fatti contestati coincidono con quelli in relazione a cui il ricorrente è stato condannato in sede penale; gli stessi fatti, poi, hanno formato oggetto di autonoma valutazione, tanto che la detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale, capo di imputazione in relazione al quale il giudice di appello aveva assolto il ricorrente, in quanto ritenuto non sanzionabile penalmente, siccome pacificamente accertato nella sua consistenza, è stato ritenuto riprovevole dal punto di vista disciplinare.

Deve, pure, essere rilevato che gli stessi fatti sono stati posti in giusta correlazione alla specifica e delicata funzione assegnata al titolare della qualifica di agente di p.s. e di p.g., che dovrebbe essere impiegato nella repressione degli stessi crimini di cui è stato, invece, protagonista.

Il provvedimento impugnato, resiste, pertanto, anche alle censure dedotte avverso la parte dispositiva dello stesso, siccome idoneamente supportato dai fatti pacificamente ammessi dallo stesso ricorrente, e congruamente motivato con riferimento alle rilevate carenze morali e violazioni degli obblighi assunti col giuramento, in ragione della condivisibile incompatibilità con i requisiti morali e di condotta richiesti ai militari in s.p.e. dell’Arma dei Carabinieri del coinvolgimento di appartenente alla stessa in traffici di sostanze stupefacenti.

Alle suesposte considerazione consegue il rigetto del ricorso.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, Sez. 1^ bis, respinge il ricorso in epigrafe.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore della resistente Amministrazione della Difesa, liquidate nella somma di 2.000, 00 (duemila/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma il 4 luglio 2005, in Camera di consiglio, con l'intervento dei sigg. magistrati:

Dott. Elia Orciuolo - Presidente

Dr.ssa Elena Stanizzi - Consigliere

Dr.ssa Donatella Scala        - Consigliere, est.

IL PRESIDENTE  L’ESTENSORE