REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 
 
N.        Reg. Sent.

Anno 2006

 
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DEL LAZIO
N. 12114 Reg. Ric.

Anno 2002

 
Sezione I-bis
 
 
 

ha pronunciato la seguente

Sentenza

sul ricorso n. 12114 del 2002, proposto da ...OMISSIS.... ...OMISSIS...., rappresentato e difeso dall'avv. Francesco Del Vecchio, per il presente giudizio elettivamente domiciliato in Roma, viale Parioli n. 76 , presso lo studio dell'avv. Alfredo Del Vecchio (studio Liberati e D’Amore)

contro

il Ministero della Difesa, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è elettivamente domiciliato, in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12

per l'annullamento

Visto il ricorso con la relativa documentazione;

Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Amministrazione intimata e della predetta parte controinteressata;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 22 dicembre 2006 il dr. Roberto POLITI; uditi altresì i procuratori delle parti come da verbale d’udienza.

Ritenuto in fatto ed in diritto quanto segue:

Fatto

Espone preliminarmente il ricorrente – appartenente all’Arma dei Carabinieri – di aver subito un procedimento penale, conclusosi con una sentenza di primo grado di condanna per i reati di cui agli artt. 319, 321, 378, in concorso con altri soggetti ex art. 110 c.p., confermata in appello (con riduzione della pena e del periodo di interdizione dai pubblici uffici).

Citato dinanzi alla Commissione di disciplina, l’odierno ricorrente subiva l’inflizione della sanzione della sospensione dall’impiego per mesi due.

Il 10 giugno 2002, il sig. ...OMISSIS.... riceveva comunicazione dell’avvio di un’inchiesta formale a cura della Compagnia CC di ...OMISSIS...., alla quale faceva seguito il deferimento dinanzi alla Commissione di disciplina.

Avverso il provvedimento conclusivo di tale ulteriore procedimento disciplinare (perdita del grado per rimozione) deduce ora il ricorrente i seguenti argomenti di censura:

1) Violazione dei termini di cui alla legge 27/2001. Violazione della legge 19/1990.

Assume il ricorrente che, per i fatti commessi anteriormente alla 6 aprile 2001, il procedimento disciplinare, secondo quanto disposto dalla legge 97/2001, debba essere avviato entro 120 giorni dalla data di irrevocabilità della sentenza penale.

Atteso che, nella fattispecie, l’anzidetto dies a quo viene a coincidere con la data del 20 giugno 2001 e che il procedimento in esame è stato avviato con contestazione di addebiti del 28 maggio 2002 (atto ricevuto il successivo 10 giugno), assume parte ricorrente la violazione del termine anzidetto (anche con riferimento alla tempistica stabilita dalla legge 19/1990).

2) Violazione del principio del ne bis in idem. Nullità ed illegittimità del provvedimento impugnato.

Nel sottolineare di essere già stato sottoposto a procedimento disciplinare (conclusosi con l’irrogazione della sanzione della sospensione dal servizio per mesi due) rileva il ricorrente che l’ulteriore procedimento sostanziatosi con l’adozione della determinazione gravata con il presente ricorso si porrebbe in violazione del principio del ne bis in idem.

3) Eccesso di potere. Contraddittorietà. Sviamento

L’Amministrazione, lungi dall’operare un mero riferimento alle risultanze del procedimento penale, avrebbe dovuto procedere ad una necessaria – quanto congrua – valutazione della posizione dell’inquisito, nonché all’approfondimento della presenza di eventuali ragioni preclusive al mantenimento in servizio di quest’ultimo.

4) Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 10 della legge 241/1990. Violazione del giusto procedimento

L’atto gravato sarebbe, inoltre, inficiato per inadeguatezza motivazionale, segnatamente con riferimento all’assenza di indicazioni circa il pregiudizio arrecato all’Amministrazione dalla permanenza in servizio dell’impiegato.

5) Violazione dell’art. 60 della legge 559/1954 e degli artt. 12 e 34 della legge 1168/1961. Violazione del giusto procedimento. Eccesso di potere

Il rinvio operato nel provvedimento impugnato al complesso degli atti del procedimento disciplinare non si rivelerebbe sufficiente ai fini di dimostrare la gravità della condotta del ricorrente ed i relativi profili di responsabilità.

Conclude parte ricorrente insistendo per l'accoglimento del gravame, con conseguente annullamento degli atti oggetto di censura.

L'Amministrazione intimata, costituitasi in giudizio, ha eccepito l'infondatezza delle esposte doglianze, invocando la reiezione dell'impugnativa.

La domanda di sospensione dell'esecuzione dell'atto impugnato, dalla parte ricorrente proposta in via incidentale, è stata da questo Tribunale respinta con ordinanza n. 454, pronunziata nella Camera di Consiglio del 27 gennaio 2003.

Il ricorso viene ritenuto per la decisione alla pubblica udienza del 22 dicembre 2006.

Diritto

1. Va innanzi tutto osservato – ad integrazione di quanto esposto in narrativa – che a carico dell’odierno ricorrente risulta essere stata pronunziata sentenza penale di condanna alla pena di anni due e mesi sei di reclusione, ad opera della Corte d’Appello di Napoli, per i reati di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e di favoreggiamento personale.

I fatti accertati in sede penale hanno consentito di appurare che il ricorrente ha informato un esponente di un sodalizio camorristico in ordine all’emissione, nei confronti di quest’ultimo, di un ordine di custodia cautelare; a fronte di tale condotta il ...OMISSIS.... riceveva un compenso di dieci milioni di lire.

Ciò posto, con il primo argomento di censura parte ricorrente lamenta la violazione dei termini per la conclusione del procedimento disciplinare, assumendo che nella fattispecie venga in applicazione la disciplina di cui alla legge 97/2001.

Tale assunto è, invero, incondivisibile atteso che, come risulta dalla documentazione acquisita agli atti del giudizio, il procedimento conclusosi poi con l’irrogazione della contestata sanzione espulsiva (rimozione per perdita del grado) è stato attivato a fronte della fattispecie delittuosa (ascritta e riscontrata in sede penale a carico del ricorrente) del “favoreggiamento personale”; la quale, non rientrando nel novero delle ipotesi di reato contemplate dalla citata legge 97/2001, rende applicabili i termini procedimentali previsti dalla legge 19/1990.

Se tale circostanza, contestata dal ricorrente nell’atto introduttivo del presente giudizio, trova più sfumati argomenti di critica nella memoria difensiva dalla parte stessa depositata l’11 dicembre 2006, deve decisamente confutarsi l’assunto per cui anche i termini previsti dalla citata legge 19/1990 sarebbero inutilmente spirati; per l’effetto non ravvisandosi fondati elementi di condivisione in ordine alla prospettazione di parte ricorrente secondo cui si sarebbe in presenza di una vicenda di esercizio del potere disciplinare inficiata da effetti decadenziali.

Infatti, dal momento che la presente vicenda viene ad essere regolata – quanto alla disciplina temporale di svolgimento del procedimento disciplinare – dall’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990 n. 19, in base al quale “la destituzione può sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni”, allora il procedimento de quo (iniziato in data 10 giugno 2002 e conclusosi con l’adozione del provvedimento di perdita del grado per rimozione, comunicato all’interessato il 14 settembre 2002) indenne dalla censura all’esame.

Il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 9, comma 2, della legge 19/1990 per la conclusione del procedimento disciplinare nei confronti del dipendente pubblico, con irrogazione della destituzione dall’impiego inizia a decorrere (non già dalla data dell’effettivo avvio del procedimento stesso, ma) dalla scadenza dei centottanta giorni, sempre previsti dall' art. 9 comma 2 citato, che costituiscono il periodo temporale massimo entro il quale – avuta conoscenza della sentenza penale di condanna – deve avere inizio (o proseguire) il procedimento: sicché il tempo che non può essere superato, a pena di violazione della perentorietà del termine, è quello totale di duecentosettanta giorni (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 14 gennaio 2004 n. 1).

Nell’osservare come tale complessivo arco temporale – ragguagliato, si ripete, a giorni duecentosettanta – non sia stato superato:

deve conseguentemente escludersi la fondatezza della censura all’esame.

2. Assume, poi, parte ricorrente che il provvedimento gravato sia inficiato per violazione del principio del “ne bis in idem”: al riguardo osservando che nei propri confronti già fosse stato attivato un procedimento disciplinare conclusosi con l’irrogazione della sanzione della sospensione dall’impiego per mesi sei.

Tale sanzione è stata, nei confronti dell’odierno ricorrente, comminata dalla Commissione disciplinare per gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria presso la Corte d’Appello di Napoli con provvedimento in data 13 maggio 2002.

Viene, al riguardo, contestata la possibilità per l’Amministrazione di appartenenza di aprire un nuovo procedimento disciplinare, avente ad oggetto i medesimi fatti (oggetto di accertamento in sede giudiziaria; e di condanna alla reclusione per anni due e mesi sei), in quanto l’esercizio del relativo potere integrerebbe una violazione dell’indicato principio vieta il bis in idem: precludendo, cioè, che possa essere legittimamente esercitato, per più di una volta, il potere disciplinare a fronte della riscontrata identità della condotta e della materialità delle conseguenze da essa scaturenti.

Tale assunto è, con riferimento alla dedotta vicenda contenziosa, infondato.

Va infatti rammentato come il personale incaricato – come appunto l’odierno ricorrente – dello svolgimento di funzioni di polizia giudiziaria dipende dagli ordinamenti:

con la conseguente duplice soggezione alle sanzioni disciplinari stabilite dall’ordinamento proprio ed a quelle specificamente previste per le trasgressioni relative alle mansioni di polizia giudiziaria, comminate da appositi organi, ai sensi dell’art. 16 delle disposizioni di attuazione del c.p.p. (Corte Costituzionale, 4 dicembre 1998 n. 394).

Consegue a tale rilievo che il procedimento attivato dalla competente Commissione presso la Corte d’Appello non precludeva, in ragione della divisata duplice dipendenza del militare investito di funzioni di polizia giudiziaria:

3. Sotto altro profilo, si duole parte ricorrente che l’irrogazione della contestata sanzione espulsiva sia intervenuta:

L’articolata serie di obiezioni dal ricorrente come sopra mosse alla sostanza del potere sanzionatorio nei propri confronti esercitato non si rivela, invero, suscettibile di favorevole considerazione.

3.1 È noto che il principio di autonomia che permea l’accertamento e la valutazione, in sede disciplinare, dei fatti contestati in sede penale, non preclude all’Amministrazione di utilizzare le risultanze acquisite dal giudice penale quali elementi fattuali della fattispecie comportamentale, idonei a supportare un giudizio di responsabilità dell’inquisito a fini disciplinari.

Nello svolgimento di tale attività istruttoria – è opportuno soggiungere – l’Autorità procedente gode di un ampio margine di apprezzamento discrezionale, che non può essere sindacato dal giudice amministrativo se non sotto il profilo del travisamento dei fatti assunti a presupposto della determinazione adottata (T.A.R. Lazio, sez. II, 2 ottobre 2001 n. 8011).

Escluso, conseguentemente, che in sede di giudizio disciplinare instaurato a carico del pubblico dipendente, sia sufficiente, per affermarne la responsabilità, la circostanza che nei confronti dello stesso sia stata pronunciata una sentenza penale di condanna (dovendo l'organo disciplinare procedere ad un'autonoma valutazione della rilevanza dei fatti), è tuttavia consentito all’Autorità fare riferimento a tale pronuncia penale per ritenere accertati quei fatti emersi nel corso del procedimento penale, che o non siano contestati o che, in base a un ragionevole apprezzamento delle risultanze processuali, appaiono fondatamente ascrivibili all'interessato.

Quanto sopra puntualizzato, deve escludersi che nella vicenda in esame sia mancato un autonomo accertamento dei fatti che hanno dato luogo ad accertamento disciplinare.

Come evidenziato dagli atti di causa, infatti, un’analitica e puntuale ricostruzione della vicenda risulta essere stata operata nel corso dello svolgimento del procedimento conclusosi con il giudizio, espresso dalla Commissione di disciplina nella seduta del 17 agosto 2002, di “non meritevolezza” del ricorrente ...OMISSIS.... ai fini della conservazione del grado.

Escluso che, nel corso dell’anzidetto procedimento, l’inquisito non sia stato posto in grado di esercitare il diritto di difesa riconosciuto dall’ordinamento – o che, altrimenti, il procedimento stesso sia inficiato per ragioni di carattere procedimentale, attesa la (peraltro non contestata) linearità e correttezza nello svolgimento di quest’ultimo, deve escludersi che l’irrogata sanzione sia stata disposta in difetto dei necessari approfondimenti volti ad evidenziare le circostanze che hanno dato luogo ad una condotta, da parte del militare, che è stata correttamente considerata suscettibile di avvio di procedimento disciplinare.

3.2 Né, sotto altro profilo, può convenirsi in ordine alla lamentata “incongruità” della sanzione irrogata.

Viene in considerazione, in ragione del profilo di ricorso in esame, l’applicazione del principio di “proporzionalità” e/o “adeguatezza” della sanzione disciplinare rispetto alla consistenza dei fatti addebitati ed accertati in sede di svolgimento del preordinato iter procedimentale.

Va in primo luogo osservato, al riguardo, che la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ormai da tempo precisato che il principio di gradualità della sanzione trova applicazione non solo nel procedimento penale, ma anche in quello disciplinare, per cui le sanzioni destitutive, sia nel campo del pubblico impiego che in quello delle professioni inquadrate in ordini o collegi professionali, non possono essere disposte in modo automatico, ma debbono seguire un procedimento disciplinare che in modo autonomo consenta di adeguare la sanzione al caso concreto secondo il principio di proporzione, dandone specifica e puntuale ragione nella relativa determinazione finale (cfr. le pronunzie della Corte Costituzionale nn. 971 del 1988, 40 del 1990, 197 del 1993, 239 del 1996, 363 del 1996 e 2 del 1999).

Ne consegue che l’Amministrazione, nell’adottare i relativi provvedimenti disciplinari, deve necessariamente tenere conto, a pena di illegittimità, del principio di proporzionalità delle sanzioni anzidetto, in relazione ai profili soggettivi ed oggettivi della vicenda.

Non vi è quindi dubbio che nella ipotesi di irrogazione della sanzione massima, l’Amministrazione debba specificatamente ed adeguatamente valutare non tanto l’astratta natura del reato ascritto al dipendente, quanto la sua obiettiva gravità, nel senso dell’incidenza che ha avuto nel tessuto sociale e degli indizi di pericolosità che lo hanno caratterizzato, nonché la complessiva personalità e la condotta precedente e successiva del dipendente medesimo, lo stato di servizio, il suo recupero morale ed il tempo trascorso dal fatto, dando espressa e puntuale ragione nel relativo provvedimento della effettiva corrispondenza della sanzione stessa, a quanto obiettivamente accertato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30 maggio 1996 n. 695 e 29 novembre 1995 n. 1656; nonché T.A.R. Liguria, sez. I, 19 gennaio 2001 n. 48 e 30 ottobre 1997 n. 394).

Se è vero che il criterio di proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione comminata va considerato come una proiezione del generale principio di ragionevolezza, che deve improntare in ogni materia l'azione dell’Amministrazione e che costituisce un limite invalicabile per la libertà di apprezzamento di cui la stessa Amministrazione dispone, va tuttavia escluso che il Giudice amministrativo possa valutare autonomamente il fatto addebitato all'impiegato quale illecito disciplinare.

Ciò in quanto la valutazione della punibilità di un comportamento rientra nella sfera di apprezzamento discrezionale dell'Amministrazione e non può essere sindacata se non per evidenti ragioni di contraddittorietà e di travisamento dei fatti (Cons. Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004 n. 7964).

Valgono, insomma, le considerazioni di principio, più volte ribadite in sede giurisdizionale (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 28 gennaio 2002 n. 449), che la determinazione relativa alla entità della sanzione disciplinare è espressione di una tipica valutazione discrezionale della Pubblica Amministrazione datrice di lavoro, di per sé insindacabile dal giudice amministrativo (tranne che nei casi in cui essa appaia manifestamente anomala o sproporzionata o particolarmente severa in quanto determinata nel massimo consentito) e che il Giudice non può sostituire la propria valutazione a quella dell’Amministrazione, ma può soltanto verificare che l'atto sia sorretto da adeguata motivazione e basato su fatti manifestamente gravi e tali da indurla a considerarli incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro (Cons. Stato, sez. IV, 5 ottobre 2004 n. 6490).

Al Collegio, in ogni caso e con specifico riferimento al caso di specie, non pare che sia illogico, né sostanzialmente ingiusto, l'apprezzamento dell’Amministrazione, che, sulla base di fatti risultanti da processo penale conclusosi con sentenza di condanna in relazione a reati di incontroversa gravità, sottoponendo tali fatti ad autonoma valutazione, abbia adottato il pur grave provvedimento della perdita del grado per rimozione, ritenendo incompatibile tale comportamento con la prosecuzione del servizio.

Né, d’altro canto, può fondatamente escludersi che la condotta tenuta dal ricorrente si sia posta in chiaro contrasto con i doveri attinenti al giuramento prestato ed al grado rivestito; ed abbia, altresì, compromesso la figura morale del militare, arrecando indubbio nocumento all’immagine ed al prestigio dell’Istituzione.

3.3 Sotto tale aspetto, la motivazione del gravato decreto che ha disposto la perdita del grado per rimozione, nel dare atto che il ricorrente, “vicebrigadiere dell’Arma dei Carabinieri, forniva all’esponente di un sodalizio camorristico la notizia, acquisita nell’ambito delle funzioni d’ufficio, che nei suoi confronti era stato emesso un ordine di custodia cautelare e che per tale servigio otteneva un lauto compenso economico”, ha ritenuto “tale condotta, relativamente al reato di favoreggiamento personale, già sanzionata penalmente, … biasimevole sotto l’aspetto disciplinare, in quanto contraria ai principi di moralità e rettitudine che devono improntare l’agire di un militare, ai doveri attinenti al giuramento prestato ed ai doveri di correttezza ed esemplarità propri dello status di militare e di un graduato dell’Arma dei Carabinieri, nonché lesiva del prestigio dell’Istituzione”.

Tale motivazione si rivela, invero, adeguatamente articolata e pienamente in grado di dar sufficiente contezza dell’iter logico seguito dall’Autorità emanante e dell’operata valutazione della gravità della condotta posta in essere dal sig. ...OMISSIS.... comparativamente con la possibilità di ulteriore permanenza dell’interessato nell’Arma dei Carabinieri.

Non è chi non veda come siffatto apparato motivazionale, lungi dal risolversi nell’impiego di formule di stile, ovvero di stereotipate espressioni inidonee a dare contezza dell’iter valutativo che ha condotto l’Autorità emanante a correlare la condotta del militare alla tipologie di sanzione suscettibile di essere applicata nei confronti di quest’ultimo, soddisfi invece, con carattere di apprezzabile congruità, quell’esigenza “giustificativa” dalla giurisprudenza reiteratamente sottolineata, segnatamente con riferimento ai profili di legittima adottabilità della sanzione espulsiva.

4. La constatata infondatezza delle doglianze dedotte con il presente gravame ne impone la reiezione.

Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio – Sezione I-bis – respinge il ricorso indicato in epigrafe.

Condanna il ricorrente sig. ...OMISSIS.... ...OMISSIS.... al pagamento delle spese di giudizio in favore della resistente Amministrazione della Difesa per complessivi 2.000,00 (Euro duemila/00).

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 22 dicembre 2006, con l’intervento dei seguenti magistrati:

Elia ORCIUOLO – Presidente

Roberto POLITI – Consigliere, relatore, estensore

Donatella SCALA – Consigliere 

IL PRESIDENTE  IL MAGISTRATO ESTENSORE


 

Ric. n. 12114/2002