La novità introdotta con la L. 49 del 2006, pur consistendo nella cd. “centralità dell’arresto domiciliare”, come si potrà armonizzare tale impostazione con il divieto preesistente che vanifica, pertanto, lo svolgimento di un programma di recupero fortemente condzionato dall’accesso alla cattività domestica?



 

ULTERIORI PERPLESSITA’ SUL NUOVO REGIME DI CUI ALL’ART. 89 dpr 309/90 (MODIFICATO DALLA L. 49/2006)

di Carlo Alberto Zaina

 

Si sono già esposti, con il commento globale al nuovo dettato dell’art. 89, gli articolati e plurimi dubbi che il testo in disamina prima facie ha sollevato.

Melius re perpensa, il costante monitoraggio esegetico della norma suscita e provoca altro e diverso profilo di preoccupazione interpretativa.

Non può, infatti, passare sotto silenzio il problema, (che ben presto nella fase attuativa della norma si porrà quotidianamente), concernente il contrasto che insorge fra l’art. 284 comma 5 bis c.p.p. e l’art. 89 novellato.

La prima disposizione, infatti, vieta la concessione degli arresti domiciliari a chi sia stato condannato per il reato di evasione nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede.

Si tratta di una norma introdotta con l’art. 16 comma 4° d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito con modifiche dalla L. 19 Gennaio 2001 n. 4, ed è stata da subito oggetto di sospetti di incostituzionalità, peraltro, fugati dalla Consulta, la quale ha ribadito la piena legittimità del divieto di concessione degli arresti domiciliari, in luogo dell'automatica misura della custodia cautelare in carcere, in caso di precedenti penali per il reato di evasione (Corte cost. (Ord.), 16/04/2003, n.130, Riv. cancellerie, 2003, 566).

Quis iuris, quindi, qualora il soggetto, il quale possa fruire del regime previsto dall’art. 89 citato, versi, peraltro, nella condizione soggettiva ostativa descritta dalla regola codicistica di cui all’art. 284/5° c.p.p. ?

Se è, pertanto, vero che la novità introdotta con la L. 49 del 2006, consiste nella cd. “centralità dell’arresto domiciliare”, come si potrà armonizzare tale impostazione con il divieto preesistente che vanifica, pertanto, lo svolgimento di un programma di recupero fortemente condzionato dall’accesso alla cattività domestica ?

Pare di dovere sottolineare che – stante l’attuale dizione dell’art. 89 ed il mancato coordinamento fra tale previsione ed il comma 5 bis dell’art. 284 c.p.p. – la soluzione da adottare in ipotesi del tipo di quella indicata, debba essere indirizzata in senso negativo e cioè che colui, che si trovi nella situazione di non poter fruire dell’arresto domiciliare per la pregressa violazione dell’art. 385 c.p. (evasione), non possa godere di alcuna deroga al dettato normativo e non possa accedere al regime del novellato art. 89.

In buona sostanza, pare indiscutibile la considerazione che, nel bilanciamento fra l’opzione riabilitativa e di recupero del singolo tossicodipendente (consistente in un programma terapeutico da eseguirsi in regime di arresti domiciliari) e la situazione personale dell’interessato, fondata anche su circostanze contingenti e collegate con quello stato di tossicomania, cui il programma dovrebbe ovviare, la prima è minusvalente rispetto alla seconda.

Si tratta dell’ennesima manchevolezza e dell’ulteriore contraddizione legislativa, se è vero che uno dei fini della riforma portata dalla l. 49/06 avrebbe dovuto essere quello di facilitare il recupero del tossicodipendente, pur attraverso l’adozione di percorsi che postulano necessariamente una evidente, quanto discutibile contrazione dello status libertatis dell’interessato.

In tale ottica, infatti, primaria preoccupazione – nell’elaborazione del dettato normativo – sarebbe dovuta essere quella (una volta deciso l’opinabile assioma fra programma terapeutico ed arresto domiciliare) di eliminare ogni possibile asperità e irrazionalità normativa, inserendo una deroga al divieto posto dall’art. 284/5° c.p.p. .

Ciò non è avvenuto, sicchè si deve, pertanto, ritenere – in colpevole carenza di una minima precisazione legislativa – assolutamente prevalente, nell'ottica di un corretto inquadramento sistematico dell’isituto in questione, ricorrere alle norme generali in tema di misure cautelari personali, contenute nel codice di procedura penale.

Tale impostazione del problema trova, poi, tranquillizzante conferma in una recente pronunzia della Suprema Corte di Cassazione Cass. pen., (sez. II, 11/02/2003, n.20105, Tomasino, Riv. Pen., 2004, 126 Arch. Nuova Proc. Pen., 2004, 127), la quale ha affermato che l’unica deroga, che il t.u. sugli stupefacenti ha previsto in materia cautelare, concerne solamente la valutazione della misura coercitiva in rapporto ad esigenze che vengano considerate come eccezionali[1].

Sicchè, la Corte di legittimità ha affermato che la violazione degli oneri connessi al regime di arresti domiciliari, ricade nell’alveo normativo del codice di rito, potendo il tossicodipendente – inadempiente alle prescrizioni – patire la revoca della misura (ex art. 276 c.p.p) e l’inasprimento del regime interinale, con ripristino della custodia in carcere.

Se, pertanto, la prevalenza della normativa codicistica rispetto ad ogni altra (in assenza di deroghe espressis verbis) concreta il riaffermato e costante orientamento di principio del Collegio, non si vede perché tale regola non debba tovare puntuale ed ineluttabile applicazione anche nel caso di specie.

Né, a parere di chi scrive, si ritiene che sia possibile, in maniera efficace, invocare un difetto di costituzionalità della norma di cui all’art. 284/5 c.p.p. (nel rapporto con l’art. 89 dpr 309/90), sotto il profilo della asserita violazione degli artt. 3 e 27 Costituzione.

Pare, infatti, di potere affermare che, al di là della censura metodologica, relativa alla incoerenza e disarmonicità del substrato normativo in questione, rispetto alle norme vigenti in materia di regolamentazione del regime cautelare, le ragioni in base alle quali la Consulta rigettò illo tempore – come detto in precedenza – ogni questione di legittimità costituzionale, mantengano tuttora la loro inalterata valenza.

Non è, pertanto, affatto irragionevole, che sia prevista ex lege la preclusione all’accesso ad un beneficio od ad un regime intermedio di natura cautelare nei confronti di colui che abbia fornito prove negative, e si dimostri inidoneo a sottoporsi a misure che presuppongono nel soggetto sia la capacità di essere munito di spinte criminorepellenti, sia la volontà di operare una revisione critica delle proprie pregresse condotte, per il tramite dell’assoggettamento incondizionato alle prescrizioni imposte dal giudice.

La persona che aspira ad un’attenuazione della pressione cautelare deve, quale regola generale, (a prescindere, quindi, dalla propria condizione personale), dimostrare sempre e comunque di essere soggetto dotato di capacità di autodeterminazione rispetto ad ipotetiche pulsioni criminogene, nonchè di specifica consapevolezza della portata degli obblighi che una cautela intermedia comporta, di percezione della inderogabile doverosità della condotta processuale che egli assumerebbe in caso di attenuazione della pressione custodiale.


 


 

[1] Poiché la legge speciale in materia di repressione del traffico di stupefacenti, D.P.R. n. 309 del 1990, non contiene alcuna disciplina generale derogatoria del codice di procedura penale al tossicodipendente che ha in corso un programma di recupero, se viola le disposizioni degli arresti domiciliari, può essere ripristinata la misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell'art. 276 c.p.p. Infatti la norma di cui all'art. 97 del D.P.R. n. 309 del 1990 prevede una deroga al codice di procedura penale per il momento in cui deve essere intrapreso il programma di recupero, costituendo ostacolo solo esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, ma non quando si siano violate nel corso del programma le disposizioni della detenzione domiciliare