Il mobbing in concreto.
Come viene valutato e giudicato il mobbing nei Tribunale italiani
1) Premessa
Innanzitutto, il termine “mobbing” deriva dall'inglese “to mob” e significa
assalire, soffocare, vessare o malmenare. Nel linguaggio comune, con il termine
“mobbing” generalmente si indica una forma di vessazione, di aggressione e di
danneggiamento perpetrata nei confronti di uno o più lavoratori.
Più precisamente, la Cassazione ha stabilito che per mobbing si intende
comunemente “un comportamento del datore di lavoro (o del superiore
gerarchico, del lavoratore a pari livello gerarchico o addirittura subordinato),
il quale, con una condotta sistematica e protratta nel tempo e che si risolve in
sistematici e reiterati comportamenti ostili, pone in essere forme di
prevaricazione o di persecuzione psicologica nei confronti del lavoratore
nell'ambiente di lavoro. Da ciò può conseguire la mortificazione morale e
l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio
fisiopsichico e del complesso della sua personalità” (ex
multis: Corte di Cass. 3875 del 2009).
Tali condotte illecite sono finalizzate, direttamente o indirettamente, a far
lasciare il posto di lavoro alla “vittima”, e senz'altro a danneggiarne salute,
tranquillità e reputazione. La suddetta fattispecie, infine, non può non avere
ripercussioni sulla professionalità del lavoratore vittima del mobbing da parte
dei superiori.
2) Elementi costitutivi
Quanto agli elementi costitutivi, vista e considerata anche la indeterminatezza
del come si dispiega in concreto questa figura, a livello meramente teorico è
possibile distinguerne almeno 3:
1) l'ambito lavorativo;
2) la frequenza, la durata, la reiterazione ed la particolare intensità delle
azioni vessatorie intraprese, con relativo parimenti intenso e rilevante danno
patito dalla vittima;
3) l'intento persecutorio e/o discriminatorio posto in essere nei confronti
della vittima.
3) Problematiche concrete e ricorrenti
Ciò premesso, alla luce dei tanti ricorsi posti in essere e degli altrettanti
rigetti, la figura del mobbing sembra essere un qualcosa di mutevole, non bene
definito, inarrivabile. Invero, purtroppo, tale ingente, quasi sistematica
“bocciatura” dei ricorsi in tema di mobbing deriva semplicemente dal fatto per
cui le condotte lamentate non rientrano nella figura del mobbing.
Ciò per una molteplice serie di ragioni (che verranno meglio spiegate di
seguito) ma a grandi linee riconducibili:
a) alla bassa intensità/lesività delle condotte poste in essere;
b) alla relativa esiguità, tenuità del danno patito dallo stesso;
c) alla difficoltà a dimostrare l'intento persecutorio.
a) Bassa intensità/lesività delle condotte poste in essere.
Innanzitutto, come hanno specificato le Sezioni Unite in tema di illeciti posti
in essere nei confronti dei lavoratori, il primo e principale elemento ai fini
di riscontrare il mobbing è quello di valutare l'intensità lesiva, la gravità e
l'offensività delle condotte datoriali illecite. Sul punto, la Suprema Corte ha
infatti statuito che “l'idea di valorizzare l'elemento soggettivo della
condotta lesiva, è non solo incompatibile col diritto vigente ma condizionerebbe
ogni tutela alla difficile prova di tale elemento. Quello che conta,
invece, è la oggettività e offensività della condotta lesiva”
(Cass. Sez. Unite 5295 del 1997).
Quindi, affinchè un'azione legale in tale senso venga accolta, è
necessario, purtroppo, che il lavoratore abbia patito un danno obbiettivamente
grave e di rilevanza indiscutibile.
Quanto al punto in oggetto, sovente i lavoratori lamentano di supposte
discriminazione, demansionamento, disparità di trattamento ecc.....tuttavia
nella gran parte dei casi, le condotte datoriali possono essere considerate si
inopportune, infelici, tali da non valorizzare e tenere in grande considerazione
il valore, la professionalità e la persona del lavoratore ma non sono
obbiettivamente mobbizzanti.
In buona sostanza, molti lavoratori si lamentano per lo scarso impiego in
determinate mansioni, il sotto utilizzo in altre, la scarsa stima professionale,
i continui richiami, rimproveri ecc... Tutto ciò, per spiegarla in parole
semplici, per i Giudici non è per nulla sufficiente ad integrare il mobbing.
Infatti, queste sopra descritte non integrano delle condotte vessatorie o
mobbizzanti. A riprova di ciò, per esempio, vale soprattutto il fatto
che, nonostante un'azione intentata per mobbing, nella stragrande maggioranza
dei casi il lavoratore gode ancora del suo stipendio e del posto di lavoro.
b) Esiguità, tenuità del danno patito dal lavoratore
Identica riflessione deve farsi quanto alla tenuità del danno patito: se si può
contestare tutto quanto connesso al lavoro (modi, orari, tempi, turni, mansioni
ecc..), c'è da dire che nella stragrande maggioranza dei casi il lavoratore non
ha subito un danno obbiettivo e grave.
Infatti, a titolo di esempio, tante volte i lavoratori vengono “richiamati”
informalmente, vengono sgridati per futili motivi, anche incolpevolmente.
Tuttavia, però, tale condotta datoriale, per quanto sgradevole e fonte di
amarezza e risentimento, non porta a nulla: nè a procedimenti disciplinari nè
sanzioni né a nulla di nulla. Sarebbe ben diverso se, a seguito del medesimo
episodio, il lavoratore venisse licenziato o privato dello stipendio per 3 mesi,
per dire. Purtroppo, solo questo vogliono vedere i giudici, cioè un danno grave
e obbiettivo, tipo il licenziamento o il costringimento a cambiare lavoro.
Pertanto, non sono questi i fatti e i danni che possono sorreggere un'azione
legale ove si fa valere il mobbing, la quale verrebbe senz'altro rigettata e la
causa verrebbe persa.
c) Difficoltà a dimostrare l'intento persecutorio.
Quanto all'intento persecutorio del datore di lavoro, questo è di non semplice
dimostrazione in giudizio visto che sovente la condotta mobbizzante viene posta
in essere in un ampio intervallo temporale.
Infatti, data la generale obbiettiva bassa intensità dei fatti che sovente
vengono lamentati dai lavoratori “vittime di mobbing”, per assurdo, in parte
agevolerebbe la sussistenza della dimostrazione del mobbing se tali fatti e
condotte vessatorie fossero racchiuse in un ambito temporale di pochi mesi.
Sarebbe stato molto più agevole, in tale caso, dimostrare lo spirito
persecutorio.
La stessa cosa dicasi nel caso in cui simili condotte vengano poste in essere
nei confronti di altri lavoratori. Invero, dalla copiosa produzione
giurisprudenziale negli ultimi anni, se posti a carico di un solo lavoratore, la
medesima condotta vessatoria avrebbe un maggiore rilievo senz'altro.
Invece, se tali circostanze, come nella gran parte dei casi lamentati,
riguardano ben più di un lavoratore, appare ben difficile fondarli come base di
una qualsivoglia pretesa risarcitoria. Ed infatti così ha sempre statuito il TAR
Lombardia, ad esempio, in linea con la più pacifica giurisprudenza sul punto.
4) Il mobbing in concreto
Quanto detto sopra rileva per contribuire a spiegare “che cosa” è stato
riconosciuto e qualificato come mobbing dalla giurisprudenza: infatti, in tutte
le (peraltro poche) recenti pronunce giudiziali dove è stato accertato il
mobbing, il lavoratore aveva patito un altro e molto differente tipo di danno,
rispetto a quello solitamente lamentato da presunte vittime del mobbing
Cito tre sentenze a titolo di esempio:
1)in poco più di un anno di tempo: posti in essere nei confronti del lavoratore
ben 7 provvedimenti disciplinari illegittimi e del tutto infondati, posta in
essere svariate multe per fatti insussistenti, continui inviti a cambiare
“spontaneamente” lavoro e infine un licenziamento senza causa (Cass.
Sez. lavoro 6907 del 2009);
2)in poco più di un anno: cambio a 360 gradi di settore operativo, ufficio e
mansioni svolte senza reale e concreto motivo. Poi, minacce, telefonate anonime,
calunnie nei confornti del lavoratore, addirittura ben 4 denunce penali, da
parte del datore di lavoro con tanto di incarico formale ad avvocati, risultate
tutte infondate, scritti diffamatori diffusi nell'ufficio affinchè tutti gli
altri lavoratori vedessero, sospensioni immotivate e illecite dal lavoro,
conseguente assenza per molti mesi dal lavoro a causa delle precarie condizioni
di salute cagionate dal mobber, ed infine impossibilità, di fatto, a riprendere
servizio (Trib. Milano 2949 del 2006).
3)in poco più di un anno di tempo: continue avances sessuali nei confronti della
lavoratrice, continue minacce ed ingiurie anche davanti agli altri lavoratori,
trasferimento immotivato e illegittimo in altro ufficio, boicottaggio totale sul
lavoro (nessuna pratica, di nessun tipo, veniva più data alla vittima!), una
malattia prolungata per mesi a causa di ciò ed infine costrizione alle
dimissioni (Cass. Sez. lavoro 22858 del 2008).
5) Conclusione
Alla luce di quanto detto, in forza del concetto di mobbing (in ottica
spiccatamente giurisprudenziale e dei Giudici italiani) e della possibilità di
accoglimento delle numerose domande giudiziale poste in essere, si evince che
gran parte dei fatti ivi indicati non possono essere connotati dalla
qualificazione come “mobbing” né demansionamento. Ciò si spiega non tanto per la
carenza probatoria (cosa che, alla luce della recente giurisprudenza, è peraltro
attuabile anche senza la preziosa testimonianza di compagni di lavoro, quindi
non sarebbe questo il problema), quanto proprio per la obbiettivamente poco
intensa offensività, vessatorietà e capacità di danno delle condotte datoriali.
A rimarcare la obbiettivamente bassa intensità, inoltre, si può, come ho detto,
ricordare la cosa più importante, ovvero che gran parte delle cosiddette
vittime del mobbing, al momento di proposizione della relativa domanda
giudiziale, hanno ancora il posto di lavoro, che è la prima cosa che guardano i
giudici. Quindi, sussistendo di per sè tale presupposto, a
prescindere dal danno effettivamente patito dalle vittime del mobbing, il danno
patito dal lavoratore nelle valutazioni dei Tribunali verrà considerato ben poca
cosa, con ben scarsa possibilità di accoglimento della relativa istanza.