Il trasferimento d'autorità del personale militare e profili di danno esistenziale

 

INDICE

1. Il trasferimento del militare e le diverse forme che può assumere.
2. Natura giuridica del "trasferimento d'autorità" (teorie contrapposte della dottrina e approccio giurisprudenziale).
3. Tutela amministrativa e giurisdizionale (dubbi di legittimità costituzionale per disuguaglianza con il processo del lavoro del personale pubblico "contrattualizzato").
4. Configurabilità del danno esistenziale da illegittimo trasferimento.
5. Conclusioni.

 

1. Il trasferimento del militare e le diverse forme che può assumere.

Le problematiche afferenti alla materia dell'impiego del personale militare hanno da sempre interessato la dottrina e la giurisprudenza in ordine al suo corretto inquadramento. Con la presente trattazione, si intende procedere a focalizzare l'attenzione sulle problematiche di ordine giuridico connesse al cosiddetto trasferimento d'autorità e a tutte quelle fattispecie che ad esso possono essere ricollegate.

Prima di affrontare il tema specifico concernente il trasferimento imposto dall'amministrazione al dipendente, è opportuno esaminare, anche al fine di delimitare il campo di indagine, le più importanti differenze intercorrenti tra il trasferimento d'autorità e l'altra tipologia di mobilità del personale militare, attuabile con il trasferimento a domanda. È di tutta evidenza come quest'ultimo sia caratterizzato da un'iniziativa del dipendente che, in relazione a sue particolari esigenze di natura privata o di natura professionale, avanza alla propria amministrazione una formale istanza di movimentazione. In questa fase si instaura un procedimento amministrativo tipico, su iniziativa del militare, a fronte del quale l'amministrazione, nel valutare l'esigenze rappresentate dal dipendente, dovrà, nel contempo, verificare che le stesse non siano in contrasto con i propri assetti organizzativi. Ciò in quanto una corretta applicazione del generale principio di contemperamento degli interessi in gioco costituisce una puntuale applicazione del principio fissato dall'art. 97 della Costituzione e garantisce la bontà della decisione adottata.

A tal riguardo, con riferimento ad una domanda di trasferimento, non si pone dubbio, diversamente da quanto vedremo per il trasferimento di autorità, sulla applicabilità della normativa che disciplina il procedimento amministrativo e dunque al rispetto dei principi base posti dalla Legge 241/1990 (responsabile del procedimento, obbligo di motivazione, termine, partecipazione, diritto di accesso). In questo procedimento non si evidenziano particolari benefits nei confronti del militare in quanto l'interesse prevalente, seppure si concilia con le esigenze dell'amministrazione, è del dipendente e dunque non trovano spazio quelle forme di protezione, economiche e non, che caratterizzano il trasferimento d'autorità.

Una pronuncia del giudice amministrativo in linea con tale orientamento si è avuta ad esempio da parte del TAR Abruzzo, sez. Pescara 536/2003. Nel caso esaminato il giudice, pur riconoscendo che il trasferimento del militare è un atto che rientra nel genus degli ordini, ciò nonostante puntualizza come ad esso si applichino quegli imprescindibili principi di democrazia amministrativa. Per cui l'amministrazione, a fronte di un ampio potere discrezionale, deve comunque rispettare il diritto ad un trattamento di vita dignitoso dei propri dipendenti e del loro nucleo familiare; il che impone che qualora siano adottati atti incidenti sulla vita familiare, gli stessi siano oggettivamente supportati da un'idonea giustificazione in quanto altrimenti soggetti al sindacato di legittimità con riferimento alla ragionevolezza del provvedimento. Alla luce di questa impostazione, ed è questa la conclusione cui perviene il giudice, il rigetto di una domanda di trasferimento da parte dell'amministrazione impone che il provvedimento evidenzi una chiara motivazione, non essendo sufficiente una mera ponderazione degli interessi in gioco. In buona sostanza il giudice di primo grado sembra operare un freno alla discrezionalità dell'amministrazione e, pur riconoscendo il principio saldamente fissato dal Consiglio di Stato che vede il trasferimento equiparato ad un ordine militare, reputa opportuno che le domande di trasferimento avanzate dal dipendente ricevano un significativo apprezzamento da parte dell'amministrazione, allo scopo di valutare in concreto gli interessi in gioco e di esplicitarli in maniera limpida all'interessato qualora vi sia un diniego.

Come già ampiamente anticipato tutt'altra natura invece presenta il trasferimento d'autorità, ovverosia quel provvedimento mediante il quale l'amministrazione dispone che un militare venga assegnato, d'ufficio e per esigenze di servizio, da una ad altra sede. Le differenze tra il trasferimento a domanda e quello dalla natura impositiva sono significative non solo sul piano concettuale ma anche sul piano pratico per i numerosi benefits che quello d'autorità riserva all'interessato. Oltre a benefits di natura economica, legati al conseguimento di una speciale indennità di trasferimento, ne esistono altri, di non minore rilievo, connessi alla tutela del nucleo familiare inciso da un provvedimento autoritativo: al riguardo si segnala un canale privilegiato riservato al coniuge del militare, che sia dipendente di un'amministrazione statale, di ricongiungersi al marito all'atto del suo trasferimento d'autorità (art. 1, comma 5, Legge 100/1987 e succ. mod.).

Nonostante le differenze tra il trasferimento a domanda e quello d'autorità siano decisamente marcate, anche in relazione ai riflessi pratici che ne derivano per l'interessato in ordine al conseguimento o meno di specifici benefits così come sopra esposto, pur tuttavia non sempre è stata pacifica la natura giuridica di alcuni trasferimenti attesa la difficoltà ad individuare chi, tra l'amministrazione o il dipendente, sia titolare della posizione di maggiore interesse alla movimentazione. Ciò in particolare si è avuto con riferimento a quelle ipotesi in cui emergeva contestualmente sia una manifestazione di volontà del dipendente che un interesse dell'amministrazione, entrambe coincidenti nella scelta della sede: ad esempio è stato chiarito che nell'ipotesi in cui venga disposto il trasferimento di un militare in una sede scelta precedentemente dallo stesso quale "sede di preferenza", qualora venga comunque ravvisata nella disposta mobilità la preminenza dell'interesse istituzionale della P.A., sarà dovuto al militare trasferito l'emolumento di cui alla predetta legge (Cons. St., sez. IV, n. 6279/2000). In buona sostanza, pur presente da parte del dipendente un significativo gradimento alla nuova sede individuata dall'amministrazione, l'emolumento sarà comunque dovuto nel caso in cui emerga un interesse preminente della amministrazione che, da solo, assume valore assorbente di qualsiasi espressione di gradimento del dipendente. La problematica delle sedi di preferenza ha avuto un sensibile contenzioso con riferimento alla soppressione di alcuni enti militari ed alla contestuale movimentazione del personale che vi prestava servizio. In tali contesti l'approccio dell'amministrazione è stato per lo più quello di gestire una tale movimentazione di massa mediante la richiesta a ciascun dipendente delle sedi di preferenza fermo restando che, pur coincidendo l'esigenza dell'amministrazione a coprire determinate posizioni vacanti con il gradimento del dipendente, il provvedimento di trasferimento si sarebbe comunque qualificato quale trasferimento di autorità, alla luce di una esigenza organizzativa dell'amministrazione comunque prevalente.

Una particolare forma di trasferimento che non ha generato dubbi interpretativi si ha con il cd. trasferimento per incompatibilità ambientale. Questo genere di trasferimento è stato dalla giurisprudenza ricondotto nell'ambito dei trasferimenti per esigenze di servizio, non costituendo dunque una fattispecie autonoma ma inquadrandosi quale species del più ampio genus dei trasferimenti di autorità. La finalità del trasferimento di un dipendente pubblico per incompatibilità ambientale è quella di ripristinare il corretto e sereno funzionamento dell'Ufficio restituendo allo stesso il prestigio, l'autorevolezza o l'immagine perduti (da ultimo, Cons. St., sez IV, 1133/2000). Lo stesso non ha carattere sanzionatorio, né postula un comportamento contrario ai doveri d'ufficio e non ha, dunque, natura disciplinare essendo subordinato ad una valutazione ampiamente discrezionale dei fatti che possa far ritenere nociva per il prestigio, il decoro e la funzionalità dell'ufficio l'ulteriore permanenza del dipendente in una determinata sede.

Parte della dottrina, non supportata ancora da casi giurisprudenziali, ritiene possibile che possano sussistere dei profili di responsabilità amministrativa nei casi in cui un militare sia trasferito per incompatibilità ambientale. In particolare, qualora i fatti e gli episodi posti a base della dichiarata incompatibilità siano di estrema gravità e risonanza pubblica, qualora la condotta tenuta risulti causativa del cosiddetto clamor fori e la pubblica amministrazione debba affrontare dei costi finalizzati a ripristinare l'immagine lesa, si potrebbe configurare un'ipotesi di danno all'immagine dell'amministrazione di appartenenza del militare il quale potrebbe dunque essere chiamato in giudizio dinanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei Conti. La lesione all'immagine della p.a. è determinata essenzialmente da comportamenti contrari ai principi fondamentali di organizzazione e di azione costituzionalmente rilevanti. La potenzialità dannosa del comportamento illecito va saggiata in concreto, caso per caso, per cui nessun rilievo assumeranno comportamenti sporadici mentre la pluralità, la gravità ed il conseguente impatto sull'opinione pubblica di tali fatti costituisce un sicuro indice della diffusione della conoscenza da parte dei cittadini dell'esistenza di una distorta organizzazione dei pubblici poteri e, conseguentemente, della presenza di un danno certo per la p.a., danno che può essere quantificato equitativamente (Corte dei Conti - sez. I giur. d'appello - sent. 18 giugno 2004, n. 222).

Infine, nella tipologia di trasferimenti del personale militare, non può omettersi un cenno in ordine al "trasferimento a seguito di rinvio a giudizio" previsto dall'art. 3, comma 1, Legge 27 marzo 2001, n. 97 che regola i rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare. Il suddetto articolo, in particolare, disciplina le conseguenze che si riverberano sul rapporto di servizio in seguito all'emanazione di un decreto di rinvio a giudizio a carico del dipendente pubblico accusato di taluni reati contro la p.a. di particolare gravità (artt. 314, 317, 319, 319 ter e 320 c.p.). In buona sostanza viene imposta all'amministrazione l'adozione di specifici provvedimenti nei confronti del dipendente che possono trovare concreta attuazione nel trasferimento ad "un ufficio diverso", in un "trasferimento di sede", fino al collocamento "in posizione di aspettativa o di disponibilità" quando, per obiettivi motivi organizzativi, non sia possibile attuare il mero trasferimento di ufficio/sede.

 


2. Natura giuridica del "trasferimento d'autorità" (teorie contrapposte della dottrina e approccio giurisprudenziale).

Così delineate le differenze di natura giuridica esistenti tra le varie tipologie di trasferimento ( a domanda, d'autorità, per incompatibilità ambientale, ex art. 3 L. 97/2001) , occorre ora procedere ad esaminare più da vicino la fattispecie oggetto della presente trattazione, ovverosia il trasferimento di autorità.

Sull'argomento si possono delineare nella dottrina tre indirizzi:
 

a) il primo, allo stato attuale maggiormente supportato dalla giurisprudenza amministrativa, vede il trasferimento di autorità qualificato quale "ordine militare", ovverosia quale atto a forma libera, contenente un precetto imperativo tipico della disciplina militare e della connessa organizzazione gerarchica. Un'impostazione che equipara il provvedimento di trasferimento ad una "semplice modalità di svolgimento del servizio" (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 2641/2000). Tale connotazione implica che il provvedimento con il quale si realizza il trasferimento sia caratterizzato dalla più ampia discrezionalità a fronte della quale l'amministrazione non assume alcun obbligo di motivazione né alcuna necessità di comunicazione dell'avvio del procedimento (rispettivamente artt. 4 e 5 della L. 241/1990); vi è in sostanza una assoluta negazione della possibilità che a tali ordini possa essere applicata la normativa di cui alla legge 241/1990.

L'impostazione fornita da questo indirizzo, che come detto trova significativo riscontro nella giurisprudenza, esalta la potestà autoritativa delle Forze Armate che, nella gestione dell'impiego del proprio personale, non può fermarsi di fronte a meri vizi formali che possono interessare un qualsiasi atto amministrativo. L'ordinamento militare, come ha ricordato anche la Corte costituzionale (sentenza 449/1999) riceve una speciale menzione dalla carta fondamentale (art. 52, comma 3) nel senso che, ferma restando la sua collocazione all'interno dell'ordinamento giuridico generale, deve esserne apprezzata la sua assoluta peculiarità, composto come è da un corpus omogeneo e completo di regole, non di rado più dettagliate e garantistiche di quelle relative all'impiego civile. Un'impostazione frutto di una esegesi storica, letterale e sistematica delle norme sancite dalla legge 11 luglio 1978, n. 382 - Norme di principio sulla disciplina militare -, nonché dal D.P.R. 18 luglio 1986, n 545 -Approvazione del regolamento di disciplina militare -, dalle quali "emerge con chiarezza che ineludibili esigenze di organizzazione, coesione interna e massima operatività delle Forze Armate, impongono di sussumere nella categoria dell'ordine del superiore gerarchico questi provvedimenti che attengono, in buona sostanza, ad una semplice modalità di svolgimento del servizio sul territorio (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 1677/2001, n. 2641/2000, n. 85/1996)
 

In questa ottica, favoriti dalla suddetta giurisprudenza, gli stati maggiori delle Forze Armate hanno cercato di predisporre provvedimenti di impiego non più legati alle tradizionali "determinazioni" bensì più intimamente connessi a quella "messaggistica" militare che possa esaltarne l'ampia discrezionalità. Inoltre l'Amministrazione Difesa ha posto in essere le opportune azioni tese a stralciare dal Regolamento attuativo della legge 241/1990 (DM 603/1993) le tabelle che fissano il "tempo massimo" per il procedimento di trasferimento.

b) Un secondo indirizzo, di contrario avviso, ritiene il trasferimento di autorità un atto comunque soggetto alla normativa disciplinante il procedimento amministrativo e, conseguentemente, vincolato a quella serie di guarentigie quali, in particolare, la comunicazione di avvio del procedimento all'interessato e l'obbligo di motivazione che, seppure succinta, evidenzi comunque le ragioni che hanno condotto al provvedimento adottato. Un indirizzo basato sull'impossibilità di equiparare il trasferimento ad un ordine nella considerazione che il primo, l'ordine, ha sostanzialmente ad oggetto la disciplina ed il servizio ed ha come protagonista la figura del superiore gerarchico, mentre il secondo, il trasferimento, si colloca all'interno di un tipico procedimento amministrativo finalizzato ad individuare la nuova sede di servizio ed in tale ottica non è connesso al volere del singolo (superiore gerarchico) bensì è legato ad un tipico provvedimento amministrativo di un autorità centrale.
Un'ulteriore conforto a questo indirizzo viene fornito da chi, argutamente, evidenzia come sia la stessa amministrazione, tramite le proprie strutture centrali e di vertice, a confermare la natura di atto amministrativo del trasferimento mediante l'adozione di numerose circolari e direttive con le quali, in un ottica di trasparenza, efficacia ed efficienza, viene ad essere disciplinato e dunque "procedimentalizzato" l'atto di impiego del personale militare. Tra i vari basti il già citato D.M. 603/1993 che configura espressamente come procedimento amministrativo quello volto al trasferimento di sede e ne fissa i relativi termini procedimentali.

c) Infine un terzo orientamento che tende a mediare i due precedenti opposti indirizzi senza assumere posizioni rigide in ordine alla classificazione di tale atto, mirando, piuttosto, a effettuare un distinguo all'interno dei provvedimenti autoritativi di impiego. Il trasferimento d'autorità viene scorporato in differenti fattispecie concrete tra le quali alcune appaiono essere dettate da situazioni contingenti ed operative che impongono alla amministrazione difesa di avvalersi di quegli speciali strumenti di cui è in possesso e che la connotano quale amministrazione diversa rispetto alle altre per la peculiarità della attività svolta. Si tratta di casi non isolati ma piuttosto frequenti e che, appunto, in determinate situazioni, esonerano la stessa amministrazione dalla applicazione della normativa generale sul procedimento amministrativo esaltando la teoria che avvicina il trasferimento d'autorità ad un ordine militare del superiore gerarchico.
 

Tuttavia queste vicende non sono idonee a fissare una regola valida in qualsiasi momento. Difatti, a fronte di numerose situazioni in cui la natura del trasferimento può in effetti essere associata alla figura dell'ordine militare, ciononostante ve ne sono altre, probabilmente la maggior parte, in cui la movimentazione del militare non evidenzia i tratti tipici dell'urgenza e dell'operatività, bensì si inserisce in un procedimento amministrativo di più ampio respiro, in cui l'amministrazione istruisce e decide mediante una pianificazione generale una pluralità di movimentazioni; è evidente che i singoli provvedimenti di autorità che seguiranno al termine dell'iter istruttorio non sono altro che il risultato coordinato di un unico ed ordinario procedimento in cui l'amministrazione è obbligata a rispettare tutte quelle norme di carattere generale che sono alla base di una corretta e puntuale azione amministrativa, con particolare riferimento ai precetti contenuti nella L. 241/1990. Sussistono infatti tutte le condizioni perché l'amministrazione informi l'interessato dell'avvio del procedimento di trasferimento, individui un responsabile del procedimento, fissi dei termini, consenta al militare di partecipare al procedimento stesso e di accedere alla documentazione di suo interesse. Vi è in sostanza una normale regolazione del rapporto di impiego tra la pubblica amministrazione ed un suo dipendente. Del resto ciò trova conferma nelle modalità di gestione della stessa amministrazione che, come già sopra esposto, con direttive e circolari non fa altro che avallare l'indirizzo di chi è a favore di una procedimentalizzazione del trasferimento di autorità. Basti ricordare la Direttiva DIPMA 001/2001 che con precisione fissa nel dettaglio tutti i passaggi in materia di trasferimento del personale dell'Aeronautica militare, con particolare riferimento proprio a quelli di autorità in campo nazionale ed estero.

 

3. Tutela amministrativa e giurisdizionale (dubbi di legittimità costituzionale per disuguaglianza con il processo del lavoro del personale pubblico "contrattualizzato").
 

Con riferimento alla tutela accordata al destinatario di un provvedimento di trasferimento, occorre distinguere tra una tutela di carattere amministrativo ed una tutela giurisdizionale così come disciplinata dalla Legge n. 205/2000 e succ. mod., recante "Disposizioni in materia di giustizia amministrativa".
 

Per quanto riguarda la tutela amministrativa, va precisato innanzitutto l'impossibilità di avanzare ricorso gerarchico avverso un atto di trasferimento, in quanto si tratta di provvedimenti definitivi, come tali sottratti alla possibilità di ricorrere ad una autorità gerarchicamente sovraordinata ("Gli atti e i provvedimenti adottati dai dirigenti preposti al vertice dell'amministrazione e dai dirigenti di Uffici dirigenziali …..non sono suscettibili di ricorso gerarchico" -art. 16, comma 4 del D.Lgs. 165 /2001-).
 

Ammissibile di contro il Ricorso straordinario al Capo dello Stato che, come noto, si pone in una condizione di alternatività nella interazione con i rimedi di carattere giurisdizionale. Non va sottaciuta la sostanziale inutilità, nel caso di specie, di un tale rimedio in quanto i lunghi tempi istruttori impiegati prima di addivenire alla pronuncia del Capo dello Stato mal si conciliano con l'esigenza del ricorrente di fermare con tempestività il provvedimento di trasferimento ad altra sede; è evidente che una pronuncia nel merito dopo due/tre anni si rivelerebbe, prescindendo dalla natura dell'esito, non più attuale venendo meno l'interesse del ricorrente che, a distanza di tempo, si è ormai forzatamente adattato alla nuova sede di servizio ed al nuovo incarico. Tali circostanze rendono dunque per l'interessato preferibile il ricorso giurisdizionale che consente di conseguire, su richiesta, l'adozione da parte del giudice di provvedimenti cautelari con efficacia immediata.
 

Ma in aggiunta alle ordinarie forme di ricorsi amministrativi, il personale militare può avvalersi anche di un altro istituto di particolare rilievo e specifico della struttura militare, ovverosia il "Conferimento con le Superiori Autorità". Tale istituto, che trova un'apprezzabile riscontro nella pratica per la generalità delle fattispecie tutelabili, ha la sua fonte normativa nel D.P.R. 545/1986 (Regolamento di disciplina militare). In particolare l'art. 39 disciplina le relazioni con i superiori e consente a ciascun militare di chiedere, per la via gerarchica, di conferire con il Ministro della Difesa o con un superiore, precisando il motivo della richiesta. Dunque, nel caso in argomento, accanto alle normali forme di tutela se ne aggiunge una ulteriore, inserita all'interno del regolamento di disciplina militare, che consente al militare insoddisfatto di un provvedimento di trasferimento di avere un contatto diretto con superiori autorità al fine di rappresentare le problematiche di natura professionale o di natura familiare che, a suo giudizio, contrastino con il provvedimento adottato dall'amministrazione. Spesso il ricorso a tale strumento raggiunge gli effetti sperati dal richiedente in quanto l'amministrazione, attraverso un più ponderato esame del caso specifico, può rivedere, attraverso lo strumento dell'autotutela, la posizione inizialmente assunta e renderla conforme, oltre che alle proprie, anche alle esigenze del militare. Non può inoltre sottacersi come il ricorso a tale istituto realizzi un ulteriore effetto di deflazione del contenzioso in materia di impiego del personale militare.
 

Per ciò che concerne invece la tutela in via giurisdizionale occorre ricordare la particolare qualifica del personale militare che, ai sensi dell'art. 3 del D.Lgs. 165/2001, rientra insieme ad altre speciali categorie di lavoratori (magistrati, avvocati dello stato, personale della carriera diplomatica e prefettizia) tra il personale cosiddetto "non contrattualizzato", che continua ad operare in regime di diritto pubblico dai propri rispettivi ordinamenti. Pur rimanendo seri dubbi sulla concreta efficacia realizzata dal D.Lgs 165/2001 in ordine alla ipotizzata "privatizzazione" del pubblico impiego, resta la circostanza che a seguito del suddetto intervento normativo le controversie relative a rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti, ad eccezione dei militari e delle categorie sopra riportate, sono state devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro.
 

Di contro, sempre per effetto di tale norma, per tutto il comparto non contrattualizzato, le controversie di lavoro continuano ad essere devolute al giudice amministrativo. Dunque per il personale militare, che sommato alle forze di polizia rappresenta una sostanziale fetta del comparto pubblico, nulla è cambiato in materia di tutela in sede giurisdizionale la cui competenza è rimasta ai giudici amministrativi.
 

Ciò costituisce una anomalia del sistema delle competenze processuali dal quale scaturiscono non pochi dubbi di legittimità costituzionale che potrebbero prima o poi essere oggetto di esame da parte della Consulta. Non può infatti non evidenziarsi come le garanzie e la tipicità proprie del processo del lavoro, all'interno del quale vengono decise le cause di lavoro concernenti il pubblico impiego (cd. contrattualizzato), non trovino analogo riscontro nel processo amministrativo, all'interno del quale, invece, vengono decise le cause di lavoro del personale militare e delle altre categorie sottratte (cd. non contrattualizzato). Non è un caso se la disciplina del processo del lavoro ha avuto una particolare attenzione da parte del legislatore avendo a cura determinati obiettivi quali, a titolo di esempio, la piena attuazione del principio dell'oralità, la concentrazione delle udienze entro le quali addivenire ad un corretto convincimento del giudice ed infine la immediatezza della decisione: un processo dunque a disposizione dei lavoratori estremamente semplice, poco costoso e molto breve. A tutto ciò si aggiunga l'altro significativo e specifico istituto, "il tentativo di conciliazione" che si inserisce all'interno del processo del lavoro, del quale ne costituisce vera e propria condizione di procedibilità, e che inopportunamente non trova spazio nel processo amministrativo.
 

Addirittura prima della legge n. 205/2000 era pacifico in giurisprudenza il principio per cui il pubblico dipendente inciso da un provvedimento di trasferimento illegittimo, poteva soltanto chiederne l'annullamento non potendo, nel caso di accoglimento del ricorso volto alla caducazione dell'atto impugnato, avanzare alcuna pretesa di natura risarcitoria ex art. 2043 c.c. per gli eventuali pregiudizi sofferti. Si affermava in sostanza che la posizione soggettiva del pubblico dipendente, a fronte di un provvedimento che ne disponeva il trasferimento ad altra sede, aveva natura e consistenza di mero interesse legittimo; pertanto, non essendo il dipendente titolare di una situazione giuridica qualificabile come diritto soggettivo, veniva esclusa la tutela risarcitoria, con conseguente difetto di giurisdizione del giudice ordinario investito della relativa controversia. La conseguenza ineluttabile era che, ottenuto l'annullamento del provvedimento avanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, ci si rivolgeva in un secondo momento al giudice ordinario per avanzare la pretesa risarcitoria ex art. 2043 c.c. ( "pregiudiziale amministrativa").
 

Fortunatamente quanto sopra esposto, ovverosia l'irrisarcibilità del danno ingiusto derivante da illegittimo provvedimento di trasferimento, rappresenta solo il passato, attesa l'entrata in vigore della citata legge di riforma del processo amministrativo, con la quale, come noto, si è ammessa, all'esito di una profonda evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, la piena risarcibilità anche degli interessi legittimi di fronte al giudice amministrativo, sia in sede di giurisdizione esclusiva che di legittimità (art. 7, Legge 205/2000). Vi è dunque stato un ampliamento degli strumenti processuali di tutela offerti al dipendente, ma rimane comunque ferma la necessità di un previo annullamento del provvedimento impugnato: è questo il contenuto della pronuncia del Consiglio di Stato che, nell'Adunanza Plenaria n. 4 del 2003, ha chiarito che la pronuncia di annullamento è pregiudiziale rispetto a quella di risarcimento. Pertanto l'azione di risarcimento danni risulta ammissibile solo a condizione che sia stato impugnato tempestivamente il provvedimento ritenuto illegittimo e che sia stato ottenuto un giudizio di annullamento. L'orientamento del Consiglio di Stato, inizialmente non univoco in giurisprudenza, è stato successivamente condiviso anche dalla Cassazione (sentenza 4538/2003) che ha confermato "l'impossibilità per il cittadino di poter rinunciare ad avvalersi della tutela specifica finalizzata alla demolizione dell'atto, per optare per una tutela risarcitoria, soggetta al termine non di decadenza ma prescrizionale".
 

Insomma, pur in presenza di una recente normativa (L. 205/2000) che ha ampliato la tutela accordata al ricorrente, rimane comunque una sostanziale e marcata differenza tra la tutela accordata al lavoratore pubblico ricompreso nel D.Lgs. 165/2001 e quello che da esso è stato esplicitamente escluso (art. 3 D.Lgs. 165/2001). Una differente forma di tutela che, come già ampiamente evidenziato, pone dei seri dubbi di legittimità costituzionale con particolare riferimento al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
 

Tale discrasia opera non solo con riferimento alla figura del lavoratore creando una distinta tutela processuale tra i dipendenti pubblici priva di logico fondamento, ma opera anche nei confronti del datore di lavoro. Quest'ultimo, difatti, ha un differente approccio nella propria difesa volta a contrastare eventuali azioni in sede legale avanzate da propri dipendenti: difatti l'art. 417 bis c.p.c. prevede che "nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni …., limitatamente al giudizio di primo grado le amministrazioni stesse possono stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti". Lo stesso non può dirsi per l'Amministrazione Difesa la quale, in quanto esclusa dal processo di privatizzazione, è vincolata ad avvalersi dell'Avvocatura dello Stato; il che se da un lato offre sicure garanzie all'amministrazione in termini di qualità della difesa, dall'altro la priva di quella flessibilità e semplificazione delle procedure di cui sono in possesso le altre amministrazioni pubbliche: aspetti organizzativi differenti che, talvolta, in un sistema burocratizzato come il nostro, risultano essere determinanti per un positivo esito della causa.
 

 

4. Configurabilità del danno esistenziale da illegittimo trasferimento.
 

Dopo aver esaminato nello specifico la peculiarità del trasferimento d'autorità del personale militare e la tutela che ad esso viene accordata, sia in sede amministrativa che giurisdizionale, volgiamo lo sguardo ancora oltre cercando di ipotizzare quali pretese risarcitorie può avanzare in concreto un militare qualora sia stato colpito da un provvedimento di trasferimento illegittimo.
 

Il problema da affrontare consiste nel verificare se gli interessi procedimentali in argomento siano o meno collegati ad una utilitas, un bene della vita protetto, ai fini di una loro possibile tutela in via risarcitoria. Nel caso di risposta positiva la privazione o non completa esplicazione degli stessi, potrà costituire fonte di pretese risarcitorie poiché produttiva di riflessi negativi nella sfera giuridica dell'interessato. Sul punto potrebbe sostenersi che la Legge n. 241/1990, permettendo al destinatario dall'atto conclusivo del procedimento di avvalersi di strumenti partecipativi, consente, per l'effetto, che tutta una serie di beni della vita (interessi materiali) al medesimo facenti capo, trovino ingresso nel circuito decisionale dell'amministrazione al fine di essere oggetto di una ponderazione comparativa con l'interesse pubblico perseguito; e ciò, proprio nel momento in cui avviene la "diluizione" del potere discrezionale, cioè allorquando lo stesso diventa atto amministrativo e si attua quella che in dottrina viene definita l'organizzazione degli interessi. (M. Nigro, Giustizia amministrativa, 1976).
 

In tale contesto una delle ultime forme di danno elaborate dalla giurisprudenza è il cd. danno esistenziale ovverosia una species rientrante nel più ampio genus dei "danni non patrimoniali".
 

Occorre premettere come recentemente vi siano stati interventi autorevoli in ordine alla esatta qualificazione giuridica dei danni non patrimoniali. La sentenza della Corte costituzionale 233/2003 ha fatto chiarezza in merito alla legittimità ed efficacia dell'art. 2059 c.c. fornendo una visione in linea con altre due precedenti pronunce della IV sez. pen. della Cassazione (8827 e 8828/2003), che hanno poi trovato ulteriore conferma in un'altra recentissima pronuncia del medesimo organo (Cassazione 2050/2004). In buona sostanza la Corte costituzionale ha chiarito che per la configurazione dell'art. 2059 c.c., ovverosia per i danni non patrimoniali, non occorre l'accertamento in concreto della fattispecie di reato. Difatti, se è vero che l'art. 2059 c.c. prevede la risarcibilità dei danni non patrimoniali solo nei casi derivanti da reato, è pure vero che il legislatore ha ammesso la risarcibilità in ipotesi estranee alla fattispecie penale e dunque senza la presenza di un reato vero e proprio; ed anche la giurisprudenza, nell'ambito dell'operatività dell'art. 2043 c.c., ha individuato ipotesi di danni non patrimoniali risarcibili senza la presenza di un reato. Il quadro che ne scaturisce è quello di un sistema di "risarcimento bipolare" in cui accanto al danno di natura patrimoniale si aggiunge l'ipotesi del danno non patrimoniale prevista dall'art. 2059 c.c. che, a sua volta, ricomprende tutte quelle ipotesi di lesione di valori riferiti alla persona quali il danno morale soggettivo, il danno biologico ed il danno esistenziale. Tutto ciò anche allo scopo di riordinare il sistema risarcitorio alla luce delle evoluzioni legislative e giurisprudenziali. Pertanto, ad avviso della Corte, l'art. 2059 c.c. deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell'ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell'autore del fatto risulti da una presunzione di legge.
 

Inquadrata così la categoria dei danni non patrimoniali in linea con la recente impostazione fornita dalla Cassazione ed avallata dalla Corte costituzionale, esaminiamo più da vicino la fattispecie del danno esistenziale e successivamente la sua possibile applicazione nei procedimenti di trasferimento del personale militare.
 

Il danno esistenziale è stato definito come la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative che, tuttavia, costituivano fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato. Si riferisce in sostanza a tutta quella infinita serie di pregiudizi che si riflettono negativamente nell'esistenza di un soggetto e che fanno si che la vita, soprattutto quella di relazione, non sia più la stessa. Il danno esistenziale, conseguentemente, viene a differenziarsi dal danno biologico in quanto sussiste indipendentemente da una lesione fisica o psichica, dal danno morale perché quest'ultimo consiste in una sofferenza, ovverosia in un "sentire", mentre il danno esistenziale in una rinuncia ad una attività concreta, ovverosia in un "fare/non fare" ove la sofferenza può solo essere una conseguenza ulteriore ma non si identifica con esso; infine si distingue dal danno patrimoniale poiché questo si identifica con una deminutio patrimonii.
 

Nell'ambito dei rapporti di lavoro il danno esistenziale ha già trovato concreta applicazione: in particolare viene a specificarsi in quei danni alla personalità ricollegabili a lesioni dei diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti che, nel campo del lavoro, sono:
· il danno professionale;
· il danno psicologico transeunte;
· il danno alla serenità della vita familiare;
· il danno alla serenità della comunità lavorativa;
· il danno alla salutare fruizione dei piaceri e delle gratificazioni della vita di relazione e dei rapporti sociali.
 

Sono insomma innumerevoli le conseguenze dannose che possono scaturire da un illegittimo agire del datore di lavoro. Ecco dunque che un trasferimento illegittimo può certamente rappresentare un campo privilegiato di applicazione della categoria di danno esistenziale: in tale caso è difatti di tutta evidenza come l'emanazione di un provvedimento illegittimo di trasferimento incida pesantemente sulla traiettoria esistenziale del militare e possa, dunque, essere valutata anche in termini di risarcimento danni.
 

Al riguardo rileva citare una recentissima pronuncia della Cassazione (26 maggio 2004, n. 10157) con riferimento ad un illegittimo trasferimento di un lavoratore ed al suo contestuale demansionamento: la Corte ha ritenuto che un siffatto agire da parte del datore di lavoro viola non solo lo specifico art. 2103 c.c. ma si traduce in lesione di un diritto fondamentale del lavoratore avente ad oggetto la libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione. Con la conseguenza che il pregiudizio correlato a tale lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell'interessato, ha un'indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento per la cui determinazione e liquidazione da parte del giudice, può trovare applicazione il criterio equitativo ex art. 1226 c.c.. Dunque i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente menomano il diritto del dipendente alla libera esplicazione della sua personalità vengono a ledere immancabilmente l'immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, in termini di autostima e di eterostima nell'ambiente di lavoro ed in quello socio familiare.
 

Per ciò che concerne l'argomento in esame afferente il personale militare, sono proprio questi ultimi, ovverosia i riflessi nel contesto familiare che assumono maggior rilievo ai fini della configurabilità del danno di natura esistenziale connesso ad un trasferimento illegittimo: non può difatti sottacersi come nell'attuale contesto socio-economico sia decisamente gravoso per un nucleo familiare affrontare un trasferimento da una sede ad un'altra. Seppure il militare rivesta uno status che gli impone, nell'arco della sua carriera, di accettare diverse movimentazioni della sede di servizio, ciò nonostante siffatte movimentazioni devono essere connesse a reali esigenze di servizio e rispettose al massimo di quelle esigenze familiari che, oggi, assumono un particolare significato: si pensi alla circostanza che ormai la maggior parte dei nuclei familiari presentano entrambi i coniugi lavoratori, e dunque il cambio di sede di uno comporta immediati riflessi sul lavoro dell'altro; si pensi inoltre alla frequentazione scolastica/universitaria dei figli; si pensi alle attuali difficoltà economiche e logistiche a reperire un alloggio con particolare riferimento alle grandi città. Sono questi solo alcuni dei numerosi ostacoli che si frappongono tra un provvedimento/ordine di trasferimento di sede e la sua effettiva realizzazione; ostacoli che vengono mitigati da alcuni interventi del legislatore con funzione di ammortizzatori sociale in favore del personale militare ma che, tuttavia, appaiono insufficienti in quanto si scontrano con una realtà sociale assai più ostica.
 

 

5. Conclusioni.
 

Alla luce di quanto sopra esposto risulta chiaro quanto sia significativo individuare l'esatta natura giuridica dei provvedimenti di trasferimento di autorità, attesa la differente tutela che ne consegue per i soggetti destinatari. Abbiamo però anche sottolineato come, prescindendo dalle disquisizioni dottrinarie, l'indirizzo giurisprudenziale prevalente allo stato attuale è quello fornito dal Consiglio di Stato che equipara il provvedimento di trasferimento dei militari ad un ordine e, in quanto tale, lo considera un atto sottratto alle garanzie procedimentali fissate dalla L. 241/1990. A questa giurisprudenza prevalente se ne affianca una minoritaria, propria di alcuni tribunali amministrativi regionali, che non intravedono quei presupposti idonei ad esonerare l'atto di impiego del militare dalla normativa di carattere generale dell'atto amministrativo.
 

Nonostante l'indirizzo fornito dai giudici amministrativi di secondo grado risulti comunque prevalenti ciò non autorizza né consente comunque alla Amministrazione di tenere comportamenti arbitrari, illogici o irrazionali nei confronti del proprio personale; comportamenti frutto di mero arbitrio della amministrazione sarebbero considerati comunque illegittimi. Piuttosto in un contesto di ordinaria gestione del personale militare, con la giurisprudenza vigente oggi, il militare destinatario di un provvedimento di impiego non gode della stessa tutela accordata a qualsiasi altro lavoratore il che riduce anche la potenziale possibilità di avanzare richieste risarcitorie.
 

Abbiamo anche evidenziato come sussistano profili di illegittimità costituzionale per ciò che concerne la diversa sede giurisdizionale accordata al militare in caso di contenzioso rispetto al resto del pubblico impiego: il personale militare soggetto al giudice amministrativo, gli altri al giudice ordinario mediante un rito speciale per la materia del lavoro. Queste differenziazioni, in generale, sono la diretta conseguenza della specificità propria dell'ordinamento militare e trovano una loro logica motivazione quando sono dettate dalla necessità di preservare l'ordinamento militare da quegli istituti ( es. diritto di sciopero) che mal si conciliano con una struttura basata sulla gerarchica e che possono rappresentare una seria minaccia alla sua funzionalità. La specialità dell'ordinamento militare incontra però un limite quando si scontra con quelle garanzie costituzionale di carattere generale come, appunto, il diritto di difesa accordato al militare destinatario di un provvedimento, a suo dire, illegittimo.
 

In sintesi appare arduo assumere una posizione rigida favorevole o contraria a considerare la natura del trasferimento d'autorità come un "ordine". Sembrerebbe forse più saggio non fissare alcun principio in senso assoluto sulla materia e rimettersi alla prudente valutazione del giudice che, nell'esame di un ricorso avente ad oggetto un trasferimento, deve prima di tutto verificare le condizioni di luogo e di tempo che hanno condotto all'emanazione del provvedimento: una valutazione caso per caso che contemperi scrupolosamente le esigenze dell'amministrazione con quelle del dipendente, avendo sempre presente da un lato il particolare status del ricorrente e i doveri specifici a cui è assoggettato, e dall'altro valutando ed apprezzando anche il particolare contesto di urgenza e operatività della Forza Armata procedente nonché la sua attualità; un aspetto che non deve essere dato per scontato in quanto, qualora insussistente, può configurare una ipotesi di eccesso di potere da parte dell'amministrazione con possibili riflessi di natura risarcitoria in favore del dipendente.