IL TRATTAMENTO DI TRASFERTA SPETTA ANCHE PER LE GIORNATE DI SABATO E DOMENICA INCLUSE NEL PERIODO DELLA MISSIONE E’ irrilevante la mancata prestazione di attività lavorativa (Cassazione Sezione Lavoro n. 12895 del 5 settembre 2002, Pres. Ciciretti, Rel. D’Angelo).
         Vincenzo G., dipendente delle Ferrovie dello Stato S.p.A. addetto al compartimento di Torino, ha partecipato, per disposizione dell’azienda, ad un corso di addestramento professionale, presso il compartimento di Napoli, durato alcune settimane. Egli ha chiesto il pagamento dell’indennità di trasferta per l’intera durata del corso. L’azienda ha escluso il suo diritto a percepirla per le giornate di sabato e domenica incluse nel periodo. Il lavoratore ha chiesto al Pretore di Roma di condannare l’azienda a pagargli l’indennità di trasferta anche per tali giornate.
         Il Pretore ha accolto la domanda e la sua decisione è stata confermata in grado di appello dal Tribunale di Roma. La società ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che il Tribunale di Roma era incorso in errore nel riconoscere l’indennità di trasferta anche per le giornate di sabato e domenica, cadenti nel periodo della trasferta, in quanto in tali giorni non viene prestata attività lavorativa.
         La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12895 del 5 settembre 2002, Pres. Ciciretti, Rel. D’Angelo) ha rigettato il ricorso, osservando che il Tribunale ha correttamente applicato il principio secondo cui il periodo per il quale è dovuta l’indennità coincide con quello della trasferta; a nulla rileva che il lavoratore abbia la possibilità il sabato e la domenica di tornare alla propria abitazione, perché ciò che è rilevante è invece il fatto che, finito il motivo della trasferta, torni a prestare la propria attività lavorativa nel compartimento di appartenenza. Neanche, in questo contesto, può pretendersi – ha affermato la Corte – che il lavoratore provi di essersi trattenuto durante i fine settimana nel luogo della missione, perché costrettovi dalle esigenze di servizio. Ugualmente irrilevante – ha osservato la Corte – è l’altra osservazione che la decisione del Tribunale è contraria al principio del sinallagma contrattuale, perché la indennità di trasferta è del tutto estranea a tale sinallagma
 
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Il danno alla professionalità subito da un lavoratore licenziato è diverso da quello che deriva dal demansionamento durante il rapporto di lavoro – Dalla diversità derivano conseguenze in materia di onere della provaIl principio secondo cui il pregiudizio causato al lavoratore da un demansionamento costituisce un danno in sé, il cui risarcimento va liquidato equitativamente, senza necessità di specifica prova, non trova applicazione nel caso in cui il lavoratore illegittimamente licenziato chieda, in base all’art. 18 St. Lav., oltre al risarcimento per perdita della retribuzione, quello del danno professionale per non essere stato adibito all’attività lavorativa. Infatti la dequalificazione intervenuta nel corso del rapporto di lavoro presenta una propria specificità e marcati caratteri differenziali rispetto a quella che può essere prodotta dalla mancata occupazione dopo il licenziamento. E invero la dequalificazione subita durante il rapporto provoca specifici danni anche all’immagine del lavoratore presso i propri colleghi e nell’ambiente di lavoro, con ricadute pregiudizievoli diverse e con un’incidenza più accentuata di quanto possa prospettarsi nel caso di mancata adibizione al lavoro dopo un illegittimo licenziamento. In quest’ultimo caso pertanto il lavoratore licenziato, per ottenere il risarcimento del danno alla professionalità, dovrà darne la prova (Cassazione Sezione Lavoro n. 10203 del 13 luglio 2002, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri

 
 
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La riclassificazione è lecita, ma non può comportare l’impiego di un lavoratore con mansioni inferiori a quelle in precedenza svolte – L’art. 2103 cod. civ. si applica anche ai contratti collettivi Anche in occasione di una riclassificazione del personale un contratto collettivo non può legittimamente stabilire che il lavoratore sia impiegato con mansioni qualitativamente inferiori a quelle in precedenza svolte. E’ invece lecito che la riclassificazione comporti la collocazione in un medesimo livello di qualifiche in precedenza collocate a livelli diversi (Cassazione Sezione Lavoro n. 12821 del 3 settembre 2002, Pres. Ianniruberto, Rel. Amoroso).

 

 
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LA RINUNZIA AI PROPRI DIRITTI FATTA DAL LAVORATORE IN CORSO DI CAUSA PUO’ ESSERE INVALIDATA CON IMPUGNAZIONE NEL TERMINE DI SEI MESIPurché non sia stata sottoscritta una conciliazione (Sezione Lavoro n. 13616 del 17 settembre 2002, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli).
         Vincenzo C., dipendente del Banco di Napoli, con qualifica di capo ufficio, ha promosso nell’ottobre del 1992 un giudizio nei confronti del datore di lavoro, davanti al Pretore di Napoli, per ottenere il riconoscimento del diritto all’inquadramento nel livello retributivo di “quadro”, in considerazione delle mansioni svolte. In corso di causa, nel luglio del 1997, egli ha aderito ad una proposta di esodo anticipato e contestualmente ha inviato al Banco un atto di rinuncia al diritto fatto valere e all’azione.
         Successivamente, con atto del 13 ottobre 1997, egli ha impugnato la rinuncia, continuando il giudizio. Il Banco ha eccepito la validità dell’avvenuta rinuncia, mentre il dipendente ha invocato l’art. 2113 cod. civ., secondo cui le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi possono essere invalidate dal lavoratore con atto scritto, che deve essere comunicato all’azienda entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto, o dalla data della rinuncia o della transazione, se queste sono avvenute in un momento successivo.
         Il Pretore ha dato ragione al Banco, rigettando la domanda. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Napoli, il quale ha ritenuto che l’impugnazione in base all’art. 2113 cod. civ. non sia esperibile nel caso in cui il lavoratore abbia azionato il suo diritto in giudizio. Vincenzo C. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza di secondo grado per violazione dell’art. 2113 cod. civ.
         La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 13616 del 17 settembre 2002, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli) ha accolto il ricorso. La tesi che art. 2113 cod. civ. non si applichi ai lavoratori che abbiano già intrapreso l’azione giudiziale – ha affermato la Corte – è infondata, in quanto la posizione di soggezione del prestatore di lavoro non viene meno per il fatto che abbia azionato un diritto e non esclude, malgrado egli sia assistito da un legale, che subisca pressioni che lo inducano ad una transazione o ad una rinuncia a lui sfavorevole; a conferma di ciò sta il 4° comma dell’art. 2113 cod. civ., che esclude l’impugnabilità della rinuncia o transazione solo se abbia il carattere della conciliazione giudiziale o sindacale.
 
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LA LAVORATRICE CHE ABBIA SUBITO UNA DISCRIMINAZIONE PER SESSO HA DIRITTO DI OTTENERE LA CONDANNA DELL’AZIENDA AL RISARCIMENTO DEL DANNO – E non soltanto la dichiarazione di nullità degli atti discriminatori (Cassazione Sezione Lavoro n. 9877 dell’8 luglio 2002, Pres. Ciciretti, Rel. Picone).
          Rachele P. ha lavorato con contratti stagionali alle dipendenze della S.p.A. Azienda Tabacchi Italiani nel periodo dal 1981 al giugno 1989. Successivamente ella si è rivolta al Pretore di Cervinara sostenendo che l’azienda, in violazione delle norme di legge contro la discriminazione per sesso e degli accordi sindacali aziendali, aveva favorito i lavoratori maschi nell’accesso al lavoro (offrendo loro un numero maggiore di contratti stagionali), nell’assegnazione delle mansioni (meno gravose), nella determinazione degli orari di lavoro (senza le riduzioni operate per le donne); ha chiesto la condanna dell’azienda al risarcimento del danno, commisurato alla differenza percepita in più dai lavoratori uomini. Ella ha richiamato in particolare l’art. 15 della legge n. 903 del 1977 (parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro), l’art. 15 St. Lav., (divieto di discriminazioni basate sul sesso) e gli accordi sindacali che prevedevano, per l’A.T.I., l’impegno di assicurare un’equa distribuzione delle giornate lavorative ed uguali turni. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Avellino, hanno dichiarato infondata la domanda, in quanto hanno ritenuto che le norme di legge invocate consentano soltanto di ottenere la dichiarazione di nullità degli atti discriminatori, ma non di chiedere, a causa di essi, il risarcimento e che gli impegni previsti dagli accordi sindacali avessero carattere meramente programmatico.
          La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 9877 dell’8 luglio 2002, Pres. Ciciretti, Rel. Picone) ha accolto il ricorso della lavoratrice, affermando che il nostro ordinamento prevede, a carico del datore di lavoro, il dovere, esteso alla fase di formazione e conclusione dei contratti di lavoro, di astenersi dal discriminare i lavoratori, o gli aspiranti tali per ragioni di sesso; ciò è stabilito dall’art. 37, comma primo della Costituzione, (tutela della donna lavoratrice), dall’art. 15 St. Lav., dalla legge 9.12.1977 n. 903 e dalla legge 10.4.1991 n. 125 (azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro). Questo dovere – ha precisato la Corte – sussistendo nei confronti di soggetti determinati, o comunque determinabili, ha natura di obbligazione in senso tecnico, di fonte esclusivamente legale ove riguardi la fase di formazione del contratto, di fonte contrattuale (ad opera del meccanismo di integrazione previsto dall’art. 1374 cod. civ.) dopo l’assunzione. Non v’è dubbio – ha affermato la Corte – in forza del c.d. principio del concorso tra responsabilità extracontrattuale e responsabilità contrattuale, che il lavoratore discriminato abbia la scelta tra l’azionare l'una o l'altra forma di responsabilità facendo valere, nel primo caso, il diritto alla riparazione del pregiudizio arrecatogli dall'illecito e, nel secondo, la violazione del diritto (di credito, in quanto di natura personale) a non essere discriminato e la conseguente responsabilità per danni.
         
Il danneggiato ha, quindi, a propria disposizione due distinte azioni, delle quali quella contrattuale si fonda sulla presunzione di colpa stabilita dall'art. 1218 c.c. e limita il risarcimento ai danni prevedibili al momento della nascita dell'obbligazione, mentre l'azione extracontrattuale pone a carico del danneggiato la prova della colpa o del dolo dell'autore della condotta lesiva e, nel caso in cui detta condotta integri gli estremi di un reato, estende il diritto al risarcimento anche ai danni non patrimoniali.
         
Sovente – ha osservato la Corte – non è facile stabilire quale azione sia stata proposta in giudizio ma questo problema è estraneo alla fattispecie, concordando la sentenza impugnata ed i contenuti del ricorso sul fatto che sia stata fatta valere la responsabilità contrattuale dell'azienda per violazione degli obblighi di non discriminazione; il principio di diritto affermato conduce, pertanto, alla cassazione della sentenza impugnata perché l’ordinamento ammette che si domandi il risarcimento del danno, facendo valere la responsabilità contrattuale dell’azienda per aver posto in essere atti e comportamenti di discriminazione per ragioni di sesso.

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Il lavoratore illegittimamente trasferito ha diritto alla reintegrazione nel posto precedentemente occupato – Perché il trasferimento deve ritenersi inefficace Il lavoratore che sia stato illegittimamente trasferito ha diritto non solo al risarcimento del danno, ma anche alla reintegrazione nel posto occupato prima del provvedimento. La tutela reale spetta al lavoratore in quanto il trasferimento di sede non adeguatamente giustificato a norma dell’art. 2103 cod. civ. deve ritenersi nullo e conseguentemente inefficace (Cassazione Sezione Lavoro n. 9530 del 1 luglio 2002, Pres. Ianniruberto, Rel. De Renzis).

 
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Le somme corrisposte al lavoratore a titolo di risarcimento del danno per prestazioni lavorative eccedenti il limite massimo giornaliero non sono soggette all’Irpef – Perché hanno una funzione reintegrativa – Le somme corrisposte, in via transattiva, dal datore di lavoro al lavoratore a titolo di risarcimento del danno per avere lavorato “in eccesso rispetto al limite massimo ragionevolmente previsto quale orario di lavoro” non rientrano nel reddito imponibile ai fini dell’applicazione dell’Irpef e pertanto non vanno assoggettate a ritenuta d’acconto. L’Irpef è dovuta quando il risarcimento sia diretto a compensare la perdita di redditi e non a reintegrare il patrimonio del contribuente. Essa pertanto non si applica quando il risarcimento è diretto a reintegrare la perdita di energie psicofisiche spese oltre l’orario massimo di lavoro esigibile (Cassazione Sezione Lavoro n. 9101 del 20 giugno 2002, Pres. Paolini, Rel. Genovese).

 
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