LA RINUNZIA AI PROPRI DIRITTI FATTA DAL LAVORATORE IN CORSO DI CAUSA PUO’
ESSERE INVALIDATA CON IMPUGNAZIONE NEL TERMINE DI SEI MESI –
Purché
non sia stata sottoscritta una conciliazione (Sezione Lavoro n. 13616 del 17
settembre 2002, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli).
Vincenzo C., dipendente del Banco di Napoli, con
qualifica di capo ufficio, ha promosso nell’ottobre del 1992 un giudizio nei
confronti del datore di lavoro, davanti al Pretore di Napoli, per ottenere
il riconoscimento del diritto all’inquadramento nel livello retributivo di
“quadro”, in considerazione delle mansioni svolte. In corso di causa, nel
luglio del 1997, egli ha aderito ad una proposta di esodo anticipato e
contestualmente ha inviato al Banco un atto di rinuncia al diritto fatto
valere e all’azione.
Successivamente, con atto del 13 ottobre 1997, egli ha
impugnato la rinuncia, continuando il giudizio. Il Banco ha eccepito la
validità dell’avvenuta rinuncia, mentre il dipendente ha invocato l’art.
2113 cod. civ., secondo cui le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto
diritti derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti
collettivi possono essere invalidate dal lavoratore con atto scritto, che
deve essere comunicato all’azienda entro sei mesi dalla data di cessazione
del rapporto, o dalla data della rinuncia o della transazione, se queste
sono avvenute in un momento successivo.
Il Pretore ha dato ragione al Banco, rigettando la
domanda. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal
Tribunale di Napoli, il quale ha ritenuto che l’impugnazione in base
all’art. 2113 cod. civ. non sia esperibile nel caso in cui il lavoratore
abbia azionato il suo diritto in giudizio. Vincenzo C. ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la sentenza di secondo grado per violazione
dell’art. 2113 cod. civ.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 13616 del 17
settembre 2002, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli) ha accolto il ricorso. La
tesi che art. 2113 cod. civ. non si applichi ai lavoratori che abbiano già
intrapreso l’azione giudiziale – ha affermato la Corte – è infondata, in
quanto la posizione di soggezione del prestatore di lavoro non viene meno
per il fatto che abbia azionato un diritto e non esclude, malgrado egli sia
assistito da un legale, che subisca pressioni che lo inducano ad una
transazione o ad una rinuncia a lui sfavorevole; a conferma di ciò sta il 4°
comma dell’art. 2113 cod. civ., che esclude l’impugnabilità della rinuncia o
transazione solo se abbia il carattere della conciliazione giudiziale o
sindacale.
LA LAVORATRICE
CHE ABBIA SUBITO UNA DISCRIMINAZIONE PER SESSO HA DIRITTO DI OTTENERE LA
CONDANNA DELL’AZIENDA AL RISARCIMENTO DEL DANNO –
E non soltanto la
dichiarazione di nullità degli atti discriminatori (Cassazione Sezione
Lavoro n. 9877 dell’8 luglio 2002, Pres. Ciciretti, Rel. Picone).
Rachele P. ha lavorato con contratti stagionali alle
dipendenze della S.p.A. Azienda Tabacchi Italiani nel periodo dal 1981 al
giugno 1989. Successivamente ella si è rivolta al Pretore di Cervinara
sostenendo che l’azienda, in violazione delle norme di legge contro la
discriminazione per sesso e degli accordi sindacali aziendali, aveva
favorito i lavoratori maschi nell’accesso al lavoro (offrendo loro un numero
maggiore di contratti stagionali), nell’assegnazione delle mansioni (meno
gravose), nella determinazione degli orari di lavoro (senza le riduzioni
operate per le donne); ha chiesto la condanna dell’azienda al risarcimento
del danno, commisurato alla differenza percepita in più dai lavoratori
uomini. Ella ha richiamato in particolare l’art. 15 della legge n. 903 del
1977 (parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro), l’art.
15 St. Lav., (divieto di discriminazioni basate sul sesso) e gli accordi
sindacali che prevedevano, per l’A.T.I., l’impegno di assicurare un’equa
distribuzione delle giornate lavorative ed uguali turni. Sia il Pretore che,
in grado di appello, il Tribunale di Avellino, hanno dichiarato infondata la
domanda, in quanto hanno ritenuto che le norme di legge invocate consentano
soltanto di ottenere la dichiarazione di nullità degli atti discriminatori,
ma non di chiedere, a causa di essi, il risarcimento e che gli impegni
previsti dagli accordi sindacali avessero carattere meramente programmatico.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 9877 dell’8 luglio
2002, Pres. Ciciretti, Rel. Picone) ha accolto il ricorso della lavoratrice,
affermando che il nostro ordinamento prevede, a carico del datore di lavoro,
il dovere, esteso alla fase di formazione e conclusione dei contratti di
lavoro, di astenersi dal discriminare i lavoratori, o gli aspiranti tali per
ragioni di sesso; ciò è stabilito dall’art. 37, comma primo della
Costituzione, (tutela della donna lavoratrice), dall’art. 15 St. Lav., dalla
legge 9.12.1977 n. 903 e dalla legge 10.4.1991 n. 125 (azioni positive per
la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro). Questo dovere – ha
precisato la Corte – sussistendo nei confronti di soggetti determinati, o
comunque determinabili, ha natura di obbligazione in senso tecnico, di fonte
esclusivamente legale ove riguardi la fase di formazione del contratto, di
fonte contrattuale (ad opera del meccanismo di integrazione previsto
dall’art. 1374 cod. civ.) dopo l’assunzione. Non v’è dubbio – ha affermato
la Corte – in forza del c.d. principio del concorso tra responsabilità
extracontrattuale e responsabilità contrattuale, che il lavoratore
discriminato abbia la scelta tra l’azionare l'una o l'altra forma di
responsabilità facendo valere, nel primo caso, il diritto alla riparazione
del pregiudizio arrecatogli dall'illecito e, nel secondo, la violazione del
diritto (di credito, in quanto di natura personale) a non essere
discriminato e la conseguente responsabilità per danni.
Il danneggiato ha, quindi, a propria disposizione due
distinte azioni, delle quali quella contrattuale si fonda sulla presunzione
di colpa stabilita dall'art. 1218 c.c. e limita il risarcimento ai danni
prevedibili al momento della nascita dell'obbligazione, mentre l'azione
extracontrattuale pone a carico del danneggiato la prova della colpa o del
dolo dell'autore della condotta lesiva e, nel caso in cui detta condotta
integri gli estremi di un reato, estende il diritto al risarcimento anche ai
danni non patrimoniali.
Sovente – ha osservato la Corte – non è facile
stabilire quale azione sia stata proposta in giudizio ma questo problema è
estraneo alla fattispecie, concordando la sentenza impugnata ed i contenuti
del ricorso sul fatto che sia stata fatta valere la responsabilità
contrattuale dell'azienda per violazione degli obblighi di non
discriminazione; il principio di diritto affermato conduce, pertanto, alla
cassazione della sentenza impugnata perché l’ordinamento ammette che si
domandi il risarcimento del danno, facendo valere la responsabilità
contrattuale dell’azienda per aver posto in essere atti e comportamenti di
discriminazione per ragioni di sesso.
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