Dipendente pubblico, trasferimento L. 104/92 |
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Dipendente pubblico,
trasferimento L. 104/92
IL LAVORATORE DEVE PROVARE LA
SUSSISTENZA DELLA DISPONIBILITA’ DEL POSTO
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RECLAMO A ORDINANZA DI RIGETTO
DOMANDA CAUTELARE EX ART. 700 C.P.C. - DIPENDENTE PUBBLICO – DIRITTO AL
TRASFERIMENTO AI SENSI DELLA L. 104/92 - CONDIZIONI - VACANZA DEL POSTO -
INSUFFICIENZA - VOLONTA’ DATORIALE DI COPRIRE EFFETTIVAMENTE IL POSTO –
NECESSITA’ - DISPONIBILITA’ DEL POSTO – INSUFFICIENZA DELLA MANCATA
CONTESTAZIONE
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[Tribunale di Nola, Giudice del Lavoro,
Dott.ssa Anna Maria PEZZULLO Presidente - Dott. Diego VARGAS Giudice -
Dott.ssa Monica GALANTE Giudice rel. est., ordinanza del 12 ottobre 2006]
.
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IL
TRIBUNALE DI NOLA
IN
FUNZIONE DI GIUDICE DEL LAVORO
(Reclamo - Giudizio N. ......./2006 –
Trasferimento, legge 104/92)
.
riunito in camera di consiglio e composto
dai signori Magistrati:
-Dott. Anna Maria PEZZULLO Presidente
-Dott. Diego VARGAS Giudice
-Dott. Monica GALANTE Giudice rel. est.
esaminati gli atti del procedimento relativo
al reclamo proposto da TIZIA avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di
Nola, in funzione di giudice del lavoro, in data 05.07.2006, all’esito del
procedimento ex art. 700 c.p.c. intentato da TIZIA contro il MINISTERO
DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro-tempore;
uditi i procuratori delle parti;
a scioglimento della riserva del 12.10.2006;
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OSSERVA
Con ricorso ante causam ex art. 700 c.p.c.,
depositato il 16.05.2006, Tizia chiedeva al Tribunale di Nola, in funzione
di Giudice del lavoro, di: “… trasferire, applicare o distaccare la
sig.ra Tizia presso il Tribunale di *** o presso qualsiasi altro Ufficio
Giudiziario con sede in *** e garantire alla stessa i diritti di cui
all’art. 33 della legge 104/92, quindi disporre il collocamento della
sig.ra Tizia presso la sede più vicina alla sua residenza di ***”.
In contumacia dell’amministrazione
convenuta, il Tribunale di Nola rigettava la domanda cautelare per il
difetto di prova di posti vacanti e disponibili presso il distretto della
Corte di Appello di ***.
La ricorrente, con reclamo del 25.07.2006,
impugnava detto provvedimento adducendo non solo la vacanza dei posti e
l’occupazione degli stessi mediante l’applicazione ed il distacco (già
allegati e provati nella precedente fase), ma anche l’inesistenza di
lesione delle esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro:
circostanze che, unitamente alla valutazione della contumacia del
Ministero nella fase ex art. 700 c.p.c., avrebbero dovuto condurre
all’accoglimento della domanda.
Si costituiva il Ministero della Giustizia
che contestava l’esistenza di tutti i presupposti della tutela cautelare
e, dunque, tanto il fumus boni iuris che il periculum in mora.
Sul fumus, in particolare, il Ministero eccepiva, in concreto,
che dalla documentazione prodotta dalla ricorrente risultava soltanto che
la madre versava in precarie condizioni di salute; in diritto eccepiva che
il beneficio previsto dall’art. 33 L. 104/1992 poteva essere riferito solo
al momento costitutivo del rapporto e, quindi, alla scelta della prima
sede di servizio.
Ciò premesso, avendo contestato il Ministero
l’applicabilità della norma invocata dalla ricorrente al caso concreto,
giova richiamare il tenore testuale delle disposizioni di cui si reclama
l’applicazione.
E’ noto che l’art. 33, 5° comma, della l. n.
104/1992 stabiliva che “Il genitore o il familiare lavoratore, con
rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un
parente o un affine entro il terzo grado handicappato, con lui convivente,
ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al
proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad
altra sede”.
In tale contesto normativo, il quinto comma
dell’art. 33 è stato interpretato dalla giurisprudenza come fonte
regolatrice di un diritto che trova la sua ratio nell’esigenza di
evitare l’interruzione dell’effettiva e attuale convivenza, che potrebbe
avere negative ricadute sullo stato fisico e psichico del soggetto
bisognoso di assistenza, sia pure nei limiti fissati dalla stessa norma
(in tal senso, Cass. Sez. lav, 29.08.2002 n. 12692; id., n. 829 del
20.01.2001).
Successivamente, con l’art. 19 della l. n.
53/2000, la norma in esame ha subito una modifica, attraverso la
soppressione delle parole “con lui convivente”; tale modifica,
tuttavia, avendo inciso esclusivamente sull’intensità del collegamento
assistenziale tra il lavoratore ed il familiare bisognevole di assistenza,
riducendola attraverso l’eliminazione del requisito della convivenza, non
ha apportato sostanziali innovazioni sul piano dell’ampliamento della
tutela, posto che, comunque, il lavoratore deve fornire la prova di aver
sempre assistito con continuità il soggetto portatore di handicap.
Ed allora, se è vero che, in linea con
quanto osservato dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 325 del
29/7/1996), la norma dell'art. 33, quinto comma, della legge n. 104 del
1992 ha senz'altro un alto intento umanitario, essendo finalizzata alla
salvaguardia dell’assistenza agli handicappati, al di fuori dell'ambito
familiare stesso, è anche vero che la norma stessa subordina il diritto di
scegliere la sede di lavoro al verificarsi di precise e tassative
condizioni di carattere soggettivo che consistono: nell'essere la persona
affetta da un handicap grave; nella convivenza (ora non più per la
modifica indicata); nel rapporto di parentela o affinità entro il terzo
grado con la persona affetta da handicap; nella continuità
dell’assistenza; nella possibilità della scelta della sede di lavoro da
parte del lavoratore.
Tanto premesso in generale, va evidenziato
che, al pari di quanto sostenuto dal Ministero resistente, la prevalente
giurisprudenza ha affermato il principio secondo cui il diritto a
scegliere la sede sussiste solo al momento della costituzione del
rapporto, proprio al fine di evitare quella rottura traumatica della
convivenza (e, quindi, dell’assistenza) che la norma vuole, appunto,
evitare (cfr., Corte d’Appello di Venezia, sent. n. 47/2000; Corte
d’Appello di Bari, sent. n. 860/2002; Trib. Torino, ord. 17.11.2003 e
18.10.2003; Trib. Como, sent. n. 65/2003; Corte di appello di Brescia, n.
510/2002; Trib. Torino, sent. n. 5533/2002).
Deve darsi atto, però, che sussiste una
giurisprudenza contraria, già segnalata dal giudice della prima fase,
secondo cui “Il pubblico dipendente che ha appena preso servizio nella
sede di prima assegnazione e che assiste il familiare portatore di
handicap, il cui status di handicappato è stato riconosciuto solo in tempi
successivi all'inizio del lavoro, data la presumibile convivenza ancora in
atto e tenuto conto dell'evidente situazione sostanziale di assistenza da
non interrompere, ha diritto al trasferimento anche aderendo alla lettura
restrittiva che permette l'applicazione dell'art. 33 l. 5 febbraio 1992 n.
104, trattandosi non di ripristinare, bensì di mantenere l'assistenza in
atto” (in tal senso, Tribunale Milano, 15 giugno 2000; nello stesso
senso, Pretura Pisa, 17 ottobre 1998 che ha affermato che la ratio
della disposizione dell'art. 33, comma 5, l. 5 febbraio 1992 n. 104 è
nell'assegnazione della sede di lavoro avuto riguardo al luogo ove
l'assistenza debba essere prestata e nel diritto al trasferimento ove la
condizione di handicap sia successiva all'assegnazione della sede, allo
scopo di consentire al genitore o al familiare di prestare assistenza
continua al soggetto minorato; analogamente, Tribunale Roma, 27 maggio
2000, secondo cui dopo la modifica apportata dall'art. 19 l. n. 53 del
2000, condizioni per accedere alla peculiare tutela prevista dalla l. n.
104 del 1992 sono, da un lato, che il lavoratore che richiede il
trasferimento già assista con continuità il familiare portatore di
handicap - e non si tratti, quindi, di instaurazione ex novo
dell'assistenza continuativa, ovvero di ripristino di un'assistenza di
fatto interrotta - e, dall'altro, che il trasferimento sia possibile per
il datore di lavoro, ossia non leda in misura consistente le esigenze
economiche ed organizzative di costui; non risultano, invece, avere alcun
rilievo nè l'individuazione del momento cronologico, rispetto alla
costituzione del rapporto di lavoro, di insorgenza in capo al lavoratore
del diritto al trasferimento, nè l'esistenza di una convivenza di fatto
tra il disabile bisognoso di assistenza e colui che invoca il diritto al
trasferimento).
Anche il Consiglio di Stato, in sede
consultiva, ha espresso il parere secondo cui “Quanto all'ambito di
operatività del beneficio previsto dall'art. 33, commi 5 e 6, la
Commissione ritiene che la formula normativa non consenta
l'interpretazione restrittiva suggerita dall'Amministrazione, al contrario
essendo dell'avviso che l'agevolazione in discorso opera anche
successivamente alla prima assegnazione, anche nei trasferimenti a domanda”
(Cons. Stato, comm. Spec., 19.1.1998 n. 394).
Orbene, la sussistenza di un contrario,
seppur minoritario orientamento, nonché la lettura data dalla Corte
Costituzionale della norma, nella parte in cui non ha escluso che il
legislatore possa in futuro prendere in considerazione nuove ipotesi di
applicabilità dell’art. 33, comma 5°, e tenuto conto della portata
innovativa contenuta nella modifica legislativa introdotta con la l. n.
53/2000 (che ha escluso il requisito della convivenza con lo scopo,
sembra, di facilitare il più possibile la realizzazione dei diritti
costituzionalmente garantiti del soggetto), induce il Tribunale a ritenere
che l’orientamento prevalente debba essere rivisto alla luce della ratio
ispiratrice della l. n. 104/92.
Ed invero, portare alle estreme conseguenze
la tesi che àncora sempre e comunque il diritto di cui all’art. 33, 5°
comma, all’atto dell’assegnazione della prima sede o al successivo
trasferimento (disposto, ovviamente, dal datore di lavoro), appare al
Tribunale una interpretazione troppo restrittiva della disposizione in
esame.
Sostenere, infatti, che il beneficio può
essere accordato solo all’atto dell’assunzione comporterebbe una
sostanziale negazione di tutela per tutti quei casi in cui la situazione
di handicap si manifesti in epoca successiva all’assegnazione della prima
sede o, peggio ancora, nei casi nei quali, pur sussistendo di fatto la
situazione di handicap alla data dell’assunzione, la stessa non risulti
ancora certificata da parte dell’apposita commissione sanitaria nel
momento di assegnazione della prima sede di lavoro.
Ed allora, appare condivisibile
l’interpretazione esposta dalla giurisprudenza minoritaria di cui si è
fatto cenno, allargando le ipotesi di operatività dell’art. 33 anche a
quei casi nei quali l’handicap si manifesti dopo l’assunzione, sempre che
l’assistenza, di fatto, venga già prestata; peraltro, anche per queste
ipotesi sussiste la ragione - evitare una brusca interruzione
dell’effettiva ed attuale assistenza, evitare un trauma per l’handicappato
- che ha indotto la giurisprudenza prevalente a ritenere applicabile il
quinto comma dell’art. 33 solo in caso di prima assegnazione della sede di
lavoro.
L’interpretazione restrittiva, pur essendo
più aderente al testo legislativo, finirebbe peraltro col violare
l’intenzione del legislatore, che è quella di costruire un impianto
normativo che prevede diritti attribuiti sempre nell’ottica del sostegno
al nucleo familiare in cui è inserita la persona svantaggiata, allo scopo
di consentire che la famiglia nel suo complesso e, quindi, anche il
congiunto lavoratore possano assolvere ai loro compiti tradizionali,
compiti che - ben prima dell’introduzione della L. n. 104 del 1992 -
venivano e dovevano (e devono) essere esercitati dai componenti di un
medesimo nucleo familiare. Siamo, cioè, in presenza di compiti doverosi
che consistono – e ciò va sottolineato – in quella “dedizione”, per usare
il termine significativamente scelto dai Giudici di legittimità, in quel
mutuo e peculiare soccorso, in quell’assistenza soprattutto “morale” (vale
a dire psicologica ed affettiva), prima che materiale, che solitamente si
prestano vicendevolmente gli appartenenti ad una stessa formazione
familiare in un modo che qualsiasi servizio pubblico non possa riprodurre
e nemmeno imitare.
Non va dimenticato, infatti, che la norma in
esame s’inserisce in un contesto normativo che ha tra le sue finalità
primarie quella di promuovere “la piena integrazione” della persona
handicappata anche “nella famiglia”, oltre che quelle di prevenire e
rimuovere “le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della
persona umana” e di “superare stati di emarginazione e di esclusione
sociale” (cfr. art. 1 L. n. 104 del 1992); in una normativa che tra i suoi
“principi generali per i diritti della persona handicappata” annovera
quello di “assicurare alla famiglia della persona handicappata
un’informazione di carattere sanitario e sociale per facilitare la
comprensione dell’evento, anche in relazione alla possibilità di recupero
e di integrazione della persona handicappata nella società” e soprattutto
quello di “assicurare nella scelta e nell’attuazione degli interventi
socio-sanitari la collaborazione della famiglia, della comunità e della
persona handicappata, attivandone le potenziali capacità”, nonché quello
di “garantire alla persona handicappata e alla famiglia adeguato sostegno
psicologico e psicopedagogico, servizi di aiuto personale o familiare,
strumenti e sussidi tecnici, prevedendo, nei casi strettamente necessari e
per il periodo indispensabile, interventi economici integrativi …” (cfr.
art. 5 della legge e v. anche il successivo art. 8 in cui si parla di
interventi “a sostegno della persona handicappata e del nucleo
familiare”). Consentire al lavoratore di scegliere la sede di lavoro al
fine di continuare a fornire al familiare assistenza continuativa nel caso
in cui la situazione di bisogno si verifichi dopo l’assunzione
costituisce, secondo il Tribunale, una tesi interpretativa più aderente
alla mens legis, posto che, in questi casi, si tratta non di
ripristinare una situazione di assistenza interrotta con l’assegnazione
della sede lavorativa, bensì di mantenerla, evitando per il soggetto
portatore di handicap il trauma derivante dalla brusca interruzione della
stessa.
Il convincimento appena esposto appare al
Tribunale fondato su una interpretazione dell’art. 33, 5° comma, che
fornisce maggiore effettività alla protezione del soggetto bisognevole di
assistenza apprestata dalla legge 104; il pericolo di un eccessivo
ampliamento della tutela, peraltro, non sussiste, dal momento che l’art.
33 prevede, ai fini del riconoscimento del diritto, che debba sussistere
la “possibilità” di scelta del posto, requisito che costituisce giusto
bilanciamento degli opposti interessi delle parti in causa.
Una conferma di tale interpretazione è, poi,
offerta dalla recente pronuncia della Suprema Corte, sezione lavoro, n.
16643 del 08.08.2005 che, muovendo dalla particolare prospettiva della
possibile sopravvenienza dello stato di handicap rispetto all’assegnazione
della prima sede di lavoro, ha avuto modo di statuire che “Il diritto
del familiare dell'handicappato alla scelta della sede di lavoro più
vicina al proprio domicilio, previsto dall'art. 33 della legge 5 febbraio
1992 n. 104, non può farsi valere nei casi in cui la convivenza sia stata
già interrotta con l'assegnazione della sede lavorativa ed il familiare
tenda a ripristinarla attraverso il trasferimento in una sede vicina al
domicilio dell'handicappato, a meno che il lavoratore non dimostri che nel
periodo precedente all'assegnazione della sede di lavoro il familiare non
necessitava dell'assistenza continua.”
Alla luce delle precedenti considerazioni,
quindi, la necessità di assistenza della madre della ricorrente (già
riconosciuta invalida civile con diritto all’indennità di accompagnamento
per anni due sino al 30.11.2006, su domanda del 09.11.2004; poi, su
domanda del 23.09.2005, riconosciuta soggetto portatore di handicap grave
fino al febbraio 2008 con verbale dell’ASL n. 6 di *** datato 11.01.2006;
cfr. documenti prodotti nel fascicolo di parte) è sopravvenuta
all’assegnazione della sede di lavoro all’istante che presta attività
lavorativa presso la Procura della Repubblica di Xxxx sin dall’anno 2001:
va, pertanto, rigettata l’eccezione del Ministero relativa
all’applicazione dell’art. 33 citato ai soli casi di scelta iniziale,
potendo anche il caso concreto ricondursi alla fattispecie normativa.
Priva di fondamento è, dunque, l’eccezione
del Ministero anche sullo stato di salute del familiare della ricorrente:
la madre, infatti, non versa solo in “precarie condizioni di salute” (per
come allegato in memoria difensiva), ma deve ritenersi soggetto portatore
di handicap grave, per come riconosciuto dall’ASL (in data 11.01.2006),
sia pur con verbale successivo alla domanda (del 15.06.2005) di
trasferimento presentata dalla ricorrente.
Tuttavia, il diritto di cui all’art. 33 non
risulta illimitato: ed invero, come è dimostrato dall'inciso "ove
possibile", il diritto riconosciuto dall’art. 33, comma 5°, non può essere
fatto valere, alla stregua del generale principio del bilanciamento degli
interessi, allorquando l'esercizio del diritto stesso venga a ledere in
misura consistente le esigenze economiche ed organizzative del datore di
lavoro.
Conformemente a quanto compiutamente
affermato dal giudice della prima fase, deve ritenersi, in ordine
all’ulteriore requisito di natura oggettiva relativo alla “possibilità”
del trasferimento, che non sia sufficiente, ai fini del conseguimento del
diritto, accertare la vacanza del posto, documentalmente provata nel caso
di specie (cfr. le attestazioni, allegate nella precedente fase cautelare,
da cui risultano 12 posti vacanti, nella posizione economica dei
cancellieri B3, tra gli uffici di competenza della Corte di Appello di ***
e 5 posti vacanti presso gli uffici della Procura facenti capo alla
medesima Corte di Appello), occorrendo altresì valutare la concreta
ricorrenza della volontà datoriale di coprire effettivamente il posto
vacante, di cui non vi è invece alcun riscontro in atti.
Sul punto rileva il Tribunale che, secondo
quanto affermato da una giurisprudenza di merito e di legittimità
assolutamente consolidata, l'art. 33, comma 5, della citata legge n. 104
del 1992 deve essere interpretato nel senso che il riconoscimento in
favore del genitore o del familiare lavoratore dell'handicappato del
diritto di scegliere la sede lavorativa più vicina al proprio domicilio e
di non essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso presuppone,
oltre agli altri requisiti esplicitamente previsti dalla legge, la
compatibilità con l'interesse comune. Infatti, com'è desumibile anche
dalla presenza dell'inciso "ove possibile", cui si è già fatto
riferimento, il diritto alla tutela del portatore di handicap non può
essere fatto valere quando il relativo esercizio venga a ledere in misura
consistente le esigenze economiche e organizzative del datore di lavoro,
in quanto ciò può tradursi - soprattutto per quel che riguarda i rapporti
di lavoro pubblico - in un danno per la collettività (Cass. Civ. sez. lav.,
20.1.2001 n. 829; nello stesso senso Cass. n. 12692/02; in tempi più
recenti Cass. sez. lav. sentenza n. 1396 del 25.01.2006; in termini di
interesse legittimo si esprime CdS, sez. IV, ord. n. 898/01).
La necessità di un equo contemperamento tra
gli interessi di cui è portatore il lavoratore che assista un parente od
affine entro il terzo grado, di rilievo costituzionale (cfr. artt. 32, 38
Cost.) e l’interesse al buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97
Cost.) presuppone necessariamente una decisione dell'amministrazione di
coprire il posto, che equivale sostanzialmente a quella che avvia la
procedura di concorso. Una decisione che assume certo a presupposto la
vacanza di organico, ma che deve esprimere l'interesse concreto ed attuale
dell'Amministrazione di procedere alla sua copertura.
E’ stato, pertanto, introdotto il concetto
di posto vacante ma indisponibile opinando, secondo quanto si è già
esposto, nel senso che solo la ricorrenza di un posto vacante e reso
disponibile dalla parte datoriale, consentirebbe l’esercizio del diritto
ex art. 33, co. 5, legge cit. (in tal senso, Trib. Reggio Calabria
18.02.02, 25.07.02; sulla distinzione concettuale tra posto vacante e
posto disponibile cfr. anche CdS, sez. IV, n. 150/1974 e n. 1171/1976).
Tale interpretazione ha ricevuto in tempi
recenti l’autorevole avallo della Suprema Corte di Cassazione (cfr. Cass.
sez. lav. sentenza n. 1396 del 25.1.2006) che ha avuto modo di precisare:
“Con particolare riguardo all'organizzazione delle amministrazioni
pubbliche, e specialmente alla stregua del processo di riforma denominato
di "privatizzazione" (con il quale, com'è noto, al fine di un recupero di
efficienza, si tende, nei limiti di compatibilità, ad applicare un diritto
comune ai privati datori di lavoro), si deve negare che il diritto al
trasferimento, riconosciuto dalla norma in esame, possa assumere a suo
esclusivo presupposto la vacanza del posto cui si aspira. Il presupposto
della "vacanza" (del resto peculiare delle organizzazioni pubbliche, in
quanto riflesso delle cd. "piante organiche") esprime una mera
potenzialità, che assurge ad attualità soltanto con la decisione
organizzativa di coprire talune vacanze. Il principio è stato già espresso
dalla giurisprudenza della Corte con riguardo alle assunzioni di
partecipanti a concorsi risultati idonei non vincitori, invocanti il cd.
scorrimento della graduatoria, ovvero la persistente efficacia, per un
certo tempo della graduatoria stessa: si è precisato che il diritto
all'assunzione può essere riconosciuto soltanto se l'amministrazione
decida di coprire i posti vacanti, non bastando la scopertura di organico
ed essendo, invece, necessario, che i posti, oltre che vacanti, siano
anche "disponibili" (Cass. 3252/2003; Cass. S.u. 14529/2003). Il medesimo
principio deve necessariamente estendersi alle misure organizzative della
dislocazione sul territorio del personale disponibile (la cui consistenza
numerica è ormai determinata dai vincoli posti alle assunzioni,
indipendentemente dagli organici teorici), pena la compressione
dell'autonomia organizzativa correlata all'esigenza di rendere il servizio
nel modo più efficiente”.
In conclusione, la documentazione allegata
dalla ricorrente può essere utilizzata solo per provare la vacanza dei
posti di cancelliere B3 (qualifica rivestita dall’istante) presso il
distretto della Corte di Appello di ***; nessuna prova, tuttavia, è stata
offerta dalla ricorrente (su cui gravava l’onere ex art. 2697 c.c.: cfr.
Cass. 1396/2006) sulla disponibilità dei posti medesimi, non risultando
provata l’adozione, ad opera della pubblica amministrazione convenuta, di
una determinazione rivolta alla copertura dei detti posti vacanti e,
dunque, la concreta utilizzabilità della professionalità del dipendente
nel posto preteso.
La stessa occupazione presso la Corte di
Appello di *** di parte dei posti vacanti mediante l’applicazione e il
distacco può, infatti, costituire indizio - in difetto di contrari
elementi - di una volontà dell’amministrazione di *** di non avere
interesse alla copertura degli altri posti vacanti; né, inoltre, può
essere attribuita alcuna efficacia al parere favorevole al trasferimento
espresso dal Procuratore della Repubblica di Xxxx con nota del 26.09.2006,
riguardando l’ufficio di provenienza e non quello di destinazione.
Né, infine, la deduzione di insussistenza di
un danno economico per l’amministrazione resistente può indurre a ritenere
sussistente il requisito in esame: con l’inciso “ove possibile” il
legislatore sembra che abbia voluto garantire non solo le esigenze
economiche del datore di lavoro, ma anche l’autonomia organizzativa in
ordine alla dislocazione sul territorio del personale (indipendentemente
dagli organici teorici) correlata all'esigenza di rendere il servizio nel
modo più efficiente (cfr. sul punto la stessa sentenza della Cass.
1396/2006 citata).
Solo per completezza, deve ritenersi che
l’allegata (e non provata) disponibilità del posto non poteva intendersi
pacifica o non contestata dal Ministero resistente (nel qual caso la prova
non sarebbe stata necessaria).
In primis va osservato che, sebbene
nella memoria difensiva il Ministero non abbia espressamente dedotto
alcunché sulla disponibilità del posto, è stato comunque richiesto
dall’amministrazione il rigetto della domanda cautelare per “assoluta
mancanza del fumus boni iuris, essendo il ricorso proposto destituito di
ogni fondamento”.
Sul punto va osservato che, affinché un
fatto allegato da una parte possa considerarsi pacifico sì da essere posto
a base della decisione, ancorché non provato, non è sufficiente la mancata
contestazione, non sussistendo nel nostro ordinamento processuale un
principio che vincoli alla contestazione specifica di ogni situazione di
fatto dichiarata dalla controparte, occorrendo invece che esso sia
esplicitamente ammesso dalla controparte, ovvero che questa, pur non
contestandolo in modo specifico, abbia impostato il proprio sistema
difensivo su circostanze o argomentazioni logicamente incompatibili con il
suo disconoscimento (App. Napoli, Sez. I, 23/01/2006; Cass. 12119/2006;
5488/2006; 13830/2004; 5699/1999).
Alla luce di tale principio di diritto,
dunque, non basta che la difesa impostata dal Ministero non sia
inconciliabile con la tesi della ricorrente (nel senso che - semplicemente
- non la contesta), ma occorre che sia incompatibile con il
disconoscimento dei fatti in questione: nel caso concreto, tuttavia, non
si rilevano nella difesa dell’amministrazione deduzioni incompatibili con
il disconoscimento della disponibilità dei posti vacanti; anzi, il
Ministero ha espressamente contestato – sia pur genericamente – la
sussistenza del generale fumus boni iuris.
In secondo luogo, la contumacia del
Ministero nella prima fase cautelare ha impedito al giudice di valutare il
fatto dedotto (disponibilità del posto) come pacifico, non potendo farsi
derivare dalla contumacia della parte un significato processuale, in
difetto di espressa previsione normativa. Per tale motivo, gravando
l’onere probatorio sulla lavoratrice, occorreva la dimostrazione della
sussistenza del requisito in esame: prova che non è stata fornita nella
prima fase né nel presente giudizio di reclamo.
Deve, al riguardo, precisarsi che nel rito
del lavoro il convenuto, rimasto contumace,
ben può successivamente (anche in appello nel rispetto delle disposizioni
di cui agli artt. 434 e 437 cod. proc. civ.) contestare la fondatezza
della domanda (Cass. 7630/1996). Da ciò deriva che, al momento della
costituzione, il convenuto (non più contumace) può contestare i fatti
costitutivi, formulando nella memoria difensiva le eccezioni processuali e
di merito nonché prendendo posizione precisa in ordine alla domanda con
indicazione delle prove di cui intende avvalersi. Anche in tal caso,
tuttavia, non è escluso il potere dovere del giudice di accertare se da
parte ricorrente sia stata data dimostrazione probatoria dei fatti
costitutivi e giustificativi della pretesa, indipendentemente dalla
circostanza che, in ordine ai medesimi, siano state o meno proposte, dalla
parte legittimata a contraddire, contestazioni
specifiche, difese ed eccezioni in senso lato; d’altro canto, non si
impedisce alla parte di sollevare (con dovere del giudice di esaminare) in
qualunque momento (e, quindi, anche nel giudizio di appello) tutte le
difese in senso lato e le questioni rilevabili d'ufficio che possono
incidere sul rapporto controverso (Cass. 12317/2003). Dunque, tale
contestazione può essere fatta - salva
l'applicazione degli artt. 88 e 92 cod. proc. civ. ove sia ravvisabile una
violazione del dovere di lealtà e probità processuale - in qualsiasi
momento, anche dal contumace che si
costituisce tardivamente (ed anche per la prima volta in appello) senza
che la sua mancanza (pur potendo il giudice ricavarne elementi integrativi
di convincimento) possa essere equiparata, quanto a effetto probatorio, ad
una confessione o ammissione, e senza che l'attore ed il giudice possano
esimersi l'uno dall'assolvimento dell'onere probatorio circa la
sussistenza di quei fatti, e l'altro dalla verifica di tale assolvimento e
comunque dall'accertamento dei fatti stessi (Cass. 7630/1996).
Tali principi, del resto, sono stati
riaffermati nella sentenza 23 gennaio 2002 n. 761 della Corte di
cassazione a Sezioni Unite, in base alla quale un problema di preclusione
alla tempestività della contestazione presuppone un originario
atteggiamento di non contestazione, non configurabile nel solo fatto della
contumacia. Va, infatti, precisato che la non
contestazione, fondamentalmente, riguarda i fatti da accertare nel
processo ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con
effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia
controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo
sussistente, proprio per la ragione che l'atteggiamento difensivo delle
parti, valutato alla stregua dell'esposta regola di condotta processuale,
espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti. In altri
termini, la mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente
imposto dal dettato legislativo, rende inutile provarlo, perché non
controverso: e ciò in piena coerenza con la struttura del processo che,
nel rito del lavoro, è finalizzata a far sì che all'udienza di discussione
la causa giunga delineata in modo compiuto, quanto ad oggetto e ad
esigenze istruttorie.
Tale aspetto (ovvero la
determinazione dell'oggetto del giudizio), tuttavia, non va confuso con il
diverso piano probatorio e con l'identificazione dei temi dei mezzi di
prova, poiché quest'ultima attività non è qualificabile in termini di
disposizione della situazione sostanziale ed opera sul diverso piano della
formazione del convincimento del giudice stesso ai fini degli accertamenti
richiestigli. Di conseguenza, una volta che il fatto costitutivo della
disponibilità del posto vacante della sede di destinazione ha
rappresentato oggetto di indagine del processo (non potendo essere
considerato fatto pacifico nella fase innanzi al giudice del 700 c.p.c.),
la ricorrente avrebbe dovuto provarlo; prova che – come precisato – non è
stata fornita. Né, poi, può ritenersi che la stessa prova non sia più
necessaria nella fase del reclamo (salva una esplicita o comunque
inequivoca ammissione del fatto in esame a cura della controparte): la
preliminare verifica dell’oggetto di indagine (tra cui la disponibilità
del posto) e l’accertamento giudiziale sulla insussistenza di tale fatto
non possono, infatti, essere posti in discussione in tale fase se non con
una prova positiva della ricorrenza di tale elemento costitutivo del
diritto, ricorrenza che certamente non può essere desunta
– per come dedotto dalla ricorrente – dalla
valutazione contestuale della mera vacanza del posto e della contumacia
del Ministero nella prima fase cautelare.
L’assenza della prova della disponibilità
del posto assorbe l’esame degli altri presupposti che condizionano
l’accoglimento della domanda cautelare di trasferimento (tra cui l’unicità
dell’assistenza e il periculum in mora).
Quanto alle residuali domande di
applicazione o distacco della ricorrente e, dunque, di provvisoria
assegnazione, deve precisarsi che tali istituti possono essere disposti
quando viene in rilievo un interesse dall’amministrazione presso la quale
il lavoratore viene comandato: anche in tal caso, il difetto di prova
dell’interesse concreto della Corte di Appello di *** alla utilizzabilità
della professionalità della ricorrente determina il rigetto del ricorso.
Le spese di lite, sussistendo giusti motivi
rilevabili dalla controvertibilità della questione, vanno interamente
compensate tra le parti.
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P.Q.M.
Il Tribunale in composizione collegiale,
quale giudice del lavoro, letto l’art. 669 terdecies c.p.c.:
rigetta il reclamo avverso l’ordinanza del
Tribunale di Nola, in funzione di giudice del lavoro, depositata in data
05.07.2006;
dichiara interamente compensate le spese di
lite tra le parti.
Si comunichi.
Così deciso nella camera di consiglio del
Tribunale di Nola , in funzione del giudice del lavoro, il 12.10.2006.
Il Giudice estensore
Dr.ssa Monica Galante)
Il Presidente
Dr.ssa Anna Maria Pezzullo
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