NELL’IMPIEGO PUBBLICO L’ACCESSO ALLA DIRIGENZA DEVE AVVENIRE PER CONCORSO
– Al fine di assicurare
l’efficienza e il buon andamento dell’amministrazione (Corte Costituzionale
sentenza n. 218 del 29 maggio 2002, Pres. Ruperto, Red. Capotosti).
Per i dipendenti delle Camere di Commercio che, alla
data del 12 luglio 1982, rivestivano la qualifica di capo servizio, la legge
11 maggio 1999 n. 140 prevede che essi possono essere inquadrati nella
qualifica immediatamente superiore.
Francesco C., dipendente della Camera di Commercio di
Siena con qualifica di capo servizio, ha chiesto l’inquadramento nella
qualifica dirigenziale. In base a questa legge l’azienda ha respinto la
domanda sostenendo l’inesistenza di un obbligo a suo carico in tal senso. Ne
è seguito un giudizio davanti al Tribunale di Siena, giudice del lavoro, che
da un lato ha riconosciuto per il dipendente l’esistenza di una “legittima
aspettativa tutelabile” alla qualifica dirigenziale e dall’altro ha
sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 della
legge 11 maggio 1999 n. 140 per contrasto con l’art. 97 della Costituzione
secondo cui “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di
legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione” e “agli impieghi delle pubbliche amministrazioni si
accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. Secondo il
Tribunale, in base alla legge n. 140 del 1999 il passaggio alla qualifica
dirigenziale non poteva essere rifiutato se non con riferimento a specifiche
circostanze negative concernenti la persona o il curriculum degli aspiranti.
Questo meccanismo – ha osservato il Tribunale – è idoneo a determinare un
indiscriminato passaggio alla qualifica dirigenziale, senza selezione
alcuna, in contrasto perciò con i principi di efficienza e di buon andamento
dell’amministrazione, i quali invece esigono che l’accesso ad una qualifica
superiore avvenga attraverso forme di effettiva selezione, essendo vietato
qualsiasi generalizzato scivolamento verso l’alto.
La Corte Costituzionale (sentenza n. 218 del 29 maggio
2002, Pres. Ruperto, Red. Capotosti) ha ritenuto fondata la questione ed ha
pertanto dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 12, comma 1,
della legge 11 maggio 1999, n. 140 (Norme in materia di attività
produttive).
La Corte ha ricordato la sua costante giurisprudenza
secondo cui nell'accesso a funzioni più elevate, ossia nel passaggio ad una
fascia funzionale superiore, nel quadro di un sistema, come quello oggi in
vigore, che non prevede carriere o le prevede entro ristretti limiti, deve
essere "ravvisata una forma di reclutamento". Tale forma di reclutamento è
perciò soggetta alla regola del pubblico concorso, che, in quanto
"meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci", resta il metodo
migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare le proprie
funzioni in condizioni di imparzialità, costituendo ineludibile momento di
controllo, funzionale al miglior rendimento della pubblica amministrazione.
E proprio per la contraddizione con questi principi – ha osservato la Corte
– la giurisprudenza costituzionale è costante nel censurare norme che
stabiliscono il passaggio a fasce funzionali superiori, in deroga alla
regola del pubblico concorso, o comunque non prevedono alcun criterio
selettivo, o verifiche attitudinali adatte a garantire l'accertamento
dell'idoneità dei candidati in relazione ai posti da ricoprire, realizzando
così una sorta di automatico e generalizzato scivolamento verso l'alto del
personale.
In questo quadro giurisprudenziale – ha concluso la
Corte – la norma impugnata appare pertanto in contrasto con l'art. 97 della
Costituzione, in quanto deroga ingiustificatamente alla regola del pubblico
concorso, senza neppure prevedere alcuna verifica del possesso dei requisiti
richiesti per l'attribuzione della qualifica superiore
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IL CREDITO DEL LAVORATORE PER RISARCIMENTO DEL DANNO CAUSATO DA MALATTIA
PROFESSIONALE DEVE ESSERE MUNITO DI PRIVILEGIO – In base al principio
di eguaglianza (Corte Costituzionale sentenza n. 220 del 29 maggio 2002,
Pres. Ruperto, Red. Marini).
Silvano N., dipendente della S.p.A.
Davidson, ha ottenuto la condanna dell’azienda al risarcimento del danno per
una malattia professionale da lui contratta nel corso del rapporto di
lavoro. La sentenza è passata in giudicato, ma la società, prima di pagare
il dovuto, è fallita. Il lavoratore ha chiesto l’ammissione del suo credito
al passivo del fallimento, in via privilegiata. Il giudice delegato ha
negato il privilegio, in quanto l’art. 2751 bis del codice civile, nel testo
modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 326 del 17 novembre
1983, riconosce il privilegio al credito del dipendente per risarcimento del
danno conseguente ad infortunio sul lavoro, mentre non prevede lo stesso
privilegio per il credito da risarcimento del danno conseguente a malattia
professionale.
Silvano N. ha proposto opposizione davanti al Tribunale di
Alessandria che, con ordinanza del gennaio 2001, ha sollevato, con
riferimento all’art. 3 della Costituzione (principio di eguaglianza), la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 2751 bis n. 1 del codice
civile.
La Corte Costituzionale (sentenza n. 220 del 29 maggio
2002, Pres. Ruperto, Red. Marini) ha ritenuto fondata la questione e ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2751 bis n. 1 cod. civ.
“nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui beni mobili del
datore di lavoro il credito del lavoratore dipendente derivante da malattia
professionale contratta dal lavoratore e rispetto alla quale sia stata
accertata la responsabilità del datore di lavoro”. La Corte ha ricordato che
nella sua sentenza n. 326 del 1983 essa è pervenuta alla declaratoria di
illegittimità costituzionale dell’art. 2751 bis, numero 1, del codice
civile, per contrasto con il principio di eguaglianza, sul rilievo che la
norma – ispirata ad una finalità di ampliamento, a favore del lavoratore
dipendente, della disciplina positiva del privilegio generale sui mobili -
muniva del suddetto privilegio il credito per il risarcimento del danno
subito per effetto di un licenziamento inefficace, nullo o annullabile ed il
credito del lavoratore per i danni conseguenti alla mancata corresponsione
da parte del datore di lavoro dei contributi previdenziali ed assistenziali,
ma non anche il credito per risarcimento del danno spettante al lavoratore a
seguito di infortunio sul lavoro cagionato dal datore di lavoro.
In relazione alla medesima esigenza di attribuire
trattamenti equipollenti a situazioni omogenee – ha affermato la Corte – non
può non ravvisarsi un’ulteriore, palese violazione dell’art. 3 della
Costituzione nella mancata attribuzione del privilegio generale sui mobili
al credito risarcitorio per danni patiti dal lavoratore a causa di una
malattia professionale contratta nello svolgimento dell’attività lavorativa
e rispetto alla quale sia stata accertata la responsabilità del datore di
lavoro; nessun dubbio sussiste, infatti, sulla assoluta omogeneità di tale
credito rispetto a quello – cui si riferisce la sentenza n. 326 del 1983 –
relativo ai danni conseguenti ad infortunio sul lavoro, trattandosi, in
entrambi i casi, di crediti per il risarcimento di danni, imputabili al
datore di lavoro, arrecati alla persona del lavoratore nello svolgimento
della prestazione lavorativa e non soddisfatti attraverso la percezione di
indennità previdenziali o assistenziali obbligatorie riferite al medesimo
evento dannoso.
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IL LAVORO NON E’ SOLTANTO UNA FONTE DI GUADAGNO, MA COSTITUISCE UN MEZZO DI
ESTRINSECAZIONE DELLA PERSONALITA’ DEL LAVORATORE – Il risarcimento
del danno per il demansionamento puo’ essere determinato in via equitativa
(Cassazione Sezione Lavoro n. 7967 del 1 giugno 2002, Pres. Sciarelli, Rel.
De Matteis).
Paolo R., dipendente della S.p.A. Siapa, con qualifica
di dirigente, si è rivolto al Pretore di Roma sostenendo di essere stato
privato, nel maggio del 1990, delle mansioni in precedenza svolte ed
assegnato a compiti di livello qualitativo inferiore, con marcata riduzione,
anche sotto l’aspetto quantitativo, dell’impegno lavorativo; egli ha chiesto
la reintegrazione nelle mansioni precedenti e la condanna dell’azienda al
risarcimento del danno da determinarsi in via equitativa. Il Pretore ha
accertato la dequalificazione ed ha condannato l’azienda a restituire al
dirigente le mansioni in precedenza svolte, nonché al risarcimento del
danno, in misura da determinarsi in separato giudizio. Questa decisione è
stata impugnata da entrambe le parti. L’azienda ha negato la sussistenza
della dequalificazione ed ha sostenuto che, in mancanza di prova sul danno,
essa non poteva essere condannata al risarcimento. Il dirigente ha insistito
nella richiesta di determinazione del risarcimento in via equitativa,
chiedendo di essere ammesso a produrre le sue buste paga, da utilizzare come
parametro di riferimento per la valutazione della prestazione sottrattagli.
Il Tribunale di Roma, giudice degli appelli, ha confermato l’accertamento
della dequalificazione, ma ha rigettato la domanda di condanna al
risarcimento del danno, rilevando che il ricorrente non aveva fornito gli
elementi necessari per una determinazione equitativa del pregiudizio da lui
subito; il Tribunale ha ritenuto inammissibile la produzione delle buste
paga. Sia l’azienda che il dirigente hanno proposto ricorso per cassazione.
L’azienda ha sostenuto che il Tribunale era incorso in errore affermando la
sussistenza della dequalificazione in considerazione della riduzione, sotto
il profilo quantitativo, degli incarichi assegnati al dirigente, nonostante
che le nuove mansioni avessero anch’esse natura dirigenziale. Il dirigente
ha sostenuto che il Tribunale aveva erroneamente escluso la possibilità di
una determinazione in via equitativa del risarcimento.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 7967 del 1 giugno
2002, Pres. Sciarelli, Rel. De Matteis) ha rigettato il ricorso
dell’azienda, mentre ha accolto quello del dirigente. Con riferimento alle
censure mosse dalla datrice di lavoro la Suprema Corte ha ricordato la sua
consolidata giurisprudenza secondo cui l’art. 2103 cod. civ. afferma il
diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione
anche perché il lavoro costituisce non solo un mezzo di sostentamento e di
guadagno, ma altresì un mezzo di estrinsecazione della personalità del
lavoratore ai sensi degli artt. 2, 4 e 35 della Costituzione.
La lesione di tale interesse della persona, che
assurge a diritto soggettivo con la stipulazione del contratto di lavoro
prevedente una determinata prestazione – ha affermato la Corte – costituisce
un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro e determina,
oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo del
risarcimento del danno da dequalificazione professionale. Tale principio di
diritto – ha osservato la Corte – trova sicuro fondamento giuridico in
molteplici valutazioni: il carattere del rapporto di lavoro subordinato, che
non è puramente di scambio, ai sensi degli artt. 1174 e 1321 cod. civ.,
coinvolgendo la persona del lavoratore; e che costituisce altresì un
contratto di organizzazione (art. 2094 cod. civ.), sicché la disciplina
degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell'impresa devono
necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della
persona dell'uomo che lavora; il principio di esecuzione di buona fede del
contratto di assunzione (art. 1375 cod. civ.); infine l’attuale evoluzione
del mercato del lavoro, che, enfatizzando la formazione continua come
essenziale caratteristica dell’attuale momento storico-economico, valorizza
la funzione della prestazione lavorativa in tal senso; ne consegue che, non
solo una riduzione qualitativa, ma anche quantitativa delle mansioni, in una
misura significativa, il cui apprezzamento è rimesso al giudice del merito,
può comportare dequalificazione. E' evidente poi – ha aggiunto la Corte –
che, ove il lavoratore deduca una dequalificazione per rilevante riduzione
quantitativa delle mansioni, l'onere processuale di dedurre e provare lo
svolgimento di mansioni significative di mancata dequalificazione compete al
convenuto datore di lavoro, che l'eccepisce, in base all'art. 2697, 2°
comma, cod. civ.
Con riferimento al ricorso proposto dal dirigente la
Corte ha rilevato che il Tribunale ha correttamente accertato la sussistenza
di un danno da dequalificazione, in considerazione della lunghezza del
periodo di inattività (circa un anno), della elevata qualità professionale
delle mansioni e delle caratteristiche concorrenziali del mercato del
lavoro. Una volta affermata l’esistenza del danno – ha osservato la Corte –
il giudice che abbia accertato, in relazione alle particolarità della
fattispecie, l’impossibilità o la rilevante difficoltà di provare l’entità
del pregiudizio nel suo preciso ammontare, non può sottrarsi all’obbligo
della sua valutazione equitativa; poiché nella presente causa è chiesto il
danno da dequalificazione professionale che comprende anche una componente
patrimoniale, il Tribunale non poteva negare al ricorrente la possibilità
processuale, di offrire un elemento di riscontro (la retribuzione), per la
valutazione equitativa di tale danno.
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