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I CITTADINI CONIUGATI, UOMINI E DONNE, NON POSSONO ESSERE ESCLUSI DAL RECLUTAMENTO NELLE FORZE ARMATE E NELLA GUARDIA DI FINANZALe norme di legge che prevedono il requisito del celibato, del nubilato o della vedovanza sono contrarie alla Costituzione (Corte Costituzionale n. 445 del 12 novembre 2002, Pres. Ruperto, Red. Onida).
         Una cittadina coniugata ha chiesto di partecipare a un concorso per l’arruolamento di duecento allievi nel Corpo della Guardia di Finanza. Il comando provinciale di Napoli ha disposto l’archiviazione della domanda per difetto del requisito del nubilato o della vedovanza. La cittadina ha impugnato il provvedimento davanti al Tribunale amministrativo regionale del Lazio sollevando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge 29 gennaio 1942, che poneva tra i requisiti per il reclutamento nella “regia guardia di finanza” l’essere celibe o vedovo senza prole e dell’art. 2 del d. lgs. n. 24 del 2000, in materia di reclutamento del personale femminile nelle forze armate, secondo cui è consentita la partecipazione ai concorsi per l’ammissione ai corsi regolari delle accademie e a quelli degli istituti e delle scuole di formazione “ai cittadini e alla cittadine italiane, celibi o nubili, vedovi o vedove”.
          La ricorrente ha fatto riferimento all’art. 3 (principio di eguaglianza) e ad altre norme della Costituzione (2, 4, 29, 30, 31, 35, 51 e 97). Il Tribunale ha ritenuto la questione non manifestamente infondata e l’ha sottoposta alla Corte Costituzionale, osservando che queste norme in materia di reclutamento si risolvono in un divieto di contrarre il vincolo coniugale, in contrasto con i fondamentali diritti alla persona.
         La Corte Costituzionale, con sentenza depositata il 12 novembre 2002 (Pres. Ruperto, Red. Onida), ha ritenuta fondata la questione sollevata dal Tribunale in quanto la norma censurata, stabilendo il celibato o nubilato o la vedovanza come requisito per il reclutamento nella Guardia di finanza, viola il diritto di accedere in condizioni di eguaglianza agli uffici pubblici, secondo i requisiti stabiliti dalla legge (articolo 51, terzo comma, della Costituzione); l’assenza di vincolo coniugale non può infatti configurarsi come legittimo requisito attitudinale per l’accesso agli impieghi in questione. Questa norma – ha osservato la Corte – incide altresì indebitamente, in via indiretta ma non meno effettiva, sul diritto di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (e vedi oggi anche l’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000).
         La previsione, tralaticia ma costantemente confermata anche dal legislatore del 2000 e del 2001, del requisito dell’assenza di vincolo coniugale per accedere a impieghi militari – ha affermato la Corte – appare il residuo di una concezione tradizionale, per cui il giovane che accede ad una carriera nell’ambito di un corpo armato metterebbe, almeno in un primo tempo, tutta la sua persona, per così dire, a totale disposizione della istituzione militare, la quale potrebbe avvalersi della totalità del suo tempo e delle sue energie e capacità, con conseguente tendenziale “incompatibilità” di tale posizione con la sussistenza di impegni e responsabilità familiari; ma si tratta di una concezione dell’ordinamento militare del tutto estranea e contrastante con i principi della Costituzione, nel cui ambito la garanzia dei diritti fondamentali della persona non recede di fronte alle esigenze della struttura militare.
         Stante l’ampia portata del principio affermato, la Corte ha esteso, ai sensi dell’articolo 27 della legge n. 87 del 1953, la dichiarazione di illegittimità costituzionale a disposizioni, diverse da quelle impugnate, recanti norme di analogo contenuto: l’art. 11, primo comma, lettera b, della legge 10 giugno 1964, n. 447 (Norme per i volontari dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica e nuovi organici dei sottufficiali in servizio permanente delle stesse forze armate), relativa al trattenimento o richiamo in servizio a domanda dei sergenti di complemento dell’esercito, nonché l’art. 35, primo comma, della stessa legge n. 447 del 1964, relativo ai vincoli annuali di ferma degli avieri in servizio di leva; l’art. 11, comma 2, lettera a, numero 3, del decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 196 (Attuazione dell’art. 3 della legge 6 marzo 1992, n. 216, in materia di riordino dei ruoli, modifica alle norme di reclutamento, stato ed avanzamento del personale non direttivo delle Forze armate), relativa al concorso per il reclutamento nel ruolo dei marescialli dell’esercito; l’art. 5, comma 1, lettera e, del d.lgs. 12 maggio 1995, n. 198 (Attuazione dell’art. 3 della legge 6 marzo 1992, n. 216, in materia di riordino dei ruoli e modifica delle norme di reclutamento, stato ed avanzamento del personale non direttivo e non dirigente dell’Arma dei carabinieri), come sostituito dall’art. 2 del decreto legislativo 28 febbraio 2001, n. 83 (Disposizioni integrative e correttive del d.lgs. 12 maggio 1995, n. 198, in materia di riordino dei ruoli, modifica alle norme di reclutamento, stato ed avanzamento del personale non direttivo e non dirigente dell’Arma dei carabinieri), relativa all’arruolamento volontario come carabiniere, nonché l’art. 15, comma 2, lettera b, numero 4, dello stesso decreto legislativo n. 198 del 1995, relativa al concorso per l’ammissione al corso di ispettore; l’art. 6, comma 1, lettera c, del decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 199 (Attuazione dell’art. 3 della legge 6 marzo 1992, n. 216, in materia di nuovo inquadramento del personale non direttivo e non dirigente del Corpo della Guardia di finanza), come modificato dall’art. 2, comma 2, lettera b, del d. lgs. 28 febbraio 2001, n. 67 (Disposizioni integrative e correttive del d. lgs. 12 maggio 1995, n. 199, in materia di nuovo inquadramento del personale non direttivo e non dirigente del Corpo della Guardia di finanza), relativa all’ammissione al corso per la promozione a finanziere, nonché l’art. 36, comma 1, lettera b, numero 3, dello stesso decreto legislativo n. 199 del 1995, come modificato dall’art. 5, comma 5, del decreto legislativo n. 67 del 2001, relativa al concorso per l’ammissione al corso di ispettore

 

 

 

 

 

Il demansionamento costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione – Il danno che ne deriva ha natura patrimoniale ed è suscettibile di per sé, di risarcimento, da liquidarsi in via equitativa - Dalla attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle assegnategli al momento della assunzione in servizio può derivare non solo la violazione dell’art. 2103 cod. civ., ma anche la lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, garantito dagli artt. 1 e 2 della Costituzione. Il pregiudizio correlato a siffatta lesione, promanantesi nella vita professionale e di relazione dell’interessato e avente indubbia natura patrimoniale, è suscettibile, di per sé, di risarcimento. L’ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice del merito mediante valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., anche in mancanza della allegazione di specifici elementi di prova da parte del danneggiato. La liquidazione deve essere effettuata in base all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, alla entità e alla durata del demansionamento nonché alle altre circostanze del caso concreto” (Cassazione Sezione Lavoro n. 15868 del 12 novembre 2002, Pres. Ciciretti, Rel. Prestipino).

  



 

 

L’applicazione ripetuta di un lavoratore a mansioni superiori per un periodo complessivamente superiore a tre mesi non configura elusione dell’obbligo di promozione automatica quando sia necessitata da temporanee ed effettive esigenze organizzative – Tra queste rientra la necessità di svolgere procedure selettive per la copertura di posti in organico – Soltanto ove l’applicazione a mansioni superiori abbia una durata continuativa eccedente il periodo (di 3 o 6 mesi) fissato dalla legge (o quello inferiore contrattualmente stabilito) si verifica l’effetto di rendere definitiva la qualifica connessa con le mansioni superiori, mentre di regola questo effetto è escluso per applicazioni, anche molteplici, ma ognuna di durata inferiore. Soltanto eccezionalmente, ove la pluralità delle applicazioni e la loro interruzione (prima della maturazione del termine) non sia connessa con reali esigenze produttive o organizzative, ma risulti collegata ad una obiettiva carenza o insufficienza di organico correlata ad una organizzazione del lavoro diretta ad utilizzare in modo duraturo le maggiori capacità di lavoratori assunti con qualifica inferiore, e risulti pertanto rivolta oggettivamente ad eludere il dettato della legge, si perviene alla maturazione del termine, e quindi all’effetto di c.d. promozione automatica, per sommatoria dei diversi periodi di applicazione alle mansioni superiori, ancorché ognuno di durata inferiore ai tre o sei mesi.
         Non si configura un’elusione della legge quando il datore di lavoro applichi ripetutamente un dipendente a mansioni superiori per assicurare la continuità dell’attività lavorativa durante il tempo necessario all’espletamento di procedure selettive stabilite per la copertura di posti vacanti in organico (Cassazione Sezione Lavoro n. 13979 del 26 settembre 2002, Pres. Prestipino, Rel. Di Lella).
  

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15-10-2002 CONCORSI PUBBLICI: LE CONTESTAZIONI SI FANNO ALLA FINE

La verifica effettiva del pregiudizio sofferto dal candidato ad un pubblico concorso può utilmente compiersi solo al momento dell’approvazione della graduatoria (e non prima). Pertanto, il candidato che si ritenga leso nei propri interessi può impugnare il provvedimento di nomina della Commissione giudicatrice solo nel momento in cui, con l’approvazione delle operazioni concorsuali e la nomina del vincitore, si esaurisce il relativo procedimento amministrativo e diviene compiutamente riscontrabile la lesione della sua sfera giuridica; ciò anche nell’ipotesi in cui viene contestata la regolarità di atti del concorso diversi dalla nomina della Commissione giudicatrice.

La rilevanza oggettiva del vizio di composizione della Commissione giudicatrice autorizza qualunque candidato a dolersi della situazione di incompatibilità di un commissario, ancorché non direttamente a lui riferita.

All’accertata illegittimità della composizione della Commissione consegue l’invalidità di tutta l’attività compiuta dall’organo viziato, ivi compresi le prove e l’esito del concorso (Consiglio di Stato, Sez. V, 7 ottobre 2002, n. 5279).

 

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15-10-2002 IMPIEGO PUBBLICO: DISPONIBILITÀ E TRATTAMENTO ECONOMICO

Il rapporto di lavoro subordinato del dipendente pubblico si concreta nel dovere di porre ad esclusiva disposizione del datore di lavoro la propria attività lavorativa, oltre agli altri doveri nascenti dal rapporto contrattuale. Il sinallagma che giustifica la retribuzione, pertanto, sussiste anche quando, pur avendo il lavoratore messo a disposizione dell'Amministrazione la sua attività lavorativa, quella non se ne sia avvalsa (ovvero, secondo altra formulazione dello stesso principio, se la mancata prestazione lavorativa è imputabile all'Amministrazione), per cui l'impiegato in disponibilità, sebbene esonerato dal servizio, conserva il diritto allo stipendio (Consiglio di Stato, Sez. V, 7 ottobre 2002, nn. 5269 5270 5271 5272, 5273, 5274).

 

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In caso di cambiamento di mansioni, la dequalificazione può verificarsi anche quando i nuovi compiti rientrino tra quelli propri del livello di inquadramento – Deve essere rispettata la professionalità acquisitaLa dequalificazione del lavoratore, in violazione dell’art. 2103 cod. civ. si può verificare anche quando l’impresa, modificando le sue mansioni, gliene assegna altre proprie del suo livello di inquadramento. Il divieto di variazioni in peius opera quando al lavoratore, pur restando inalterata la sua collocazione nell’organizzazione gerarchica dell’impresa e la sua retribuzione, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto all’inquadramento formale, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti prospettive di miglioramento professionale.
         E’ consentito affermare che nuove mansioni siano equivalenti alle ultime effettivamente svolte soltanto ove risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare, ed anche di arricchire, il patrimonio professionale precedentemente acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenza e di esperienze (Cassazione Sezione Lavoro n. 14150 del 2 ottobre 2002, Pres. Ciciretti, Rel. Picone).

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LA GIURISDIZIONE IN MATERIA DI PUBBLICO IMPIEGO SPETTA AL GIUDICE ORDINARIO ANCHE PER LE DOMANDE RIFERITE A COMPORTAMENTI ILLEGITTIMI TENUTI DALL’AMMINISTRAZIONE INIZIATI PRIMA DEL 30 GIUGNO 1998 E CONTINUATI SUCCESSIVAMENTE Si deve evitare un antieconomico frazionamento dei giudizi (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 14835 del 18 ottobre 2002, Pres. Carbone, Rel. Evangelista).
         Guglielmo B., dipendente dell’Ente Pubblico Comunità Montana Valtiberina Toscana, con mansioni di operaio forestale, ha subito nel febbraio 1986 un infortunio dal quale gli è derivata un’invalidità permanente nella misura del 34%. La sua richiesta di essere adibito a mansioni meno gravose è stata disattesa dalla datrice di lavoro. Nel marzo del 1999 egli ha chiesto al Giudice del Lavoro di Arezzo di condannare la Comunità ad assegnargli mansioni compatibili con la sua condizione di salute e a risarcirgli il danno cagionatogli con il comportamento omissivo tenuto fino ad allora. La Comunità ha proposto ricorso alla Suprema Corte per regolamento preventivo di giurisdizione. Essa ha sostenuto che i fatti posti a fondamento della domanda si erano verificati prima del 30 giugno 1998 e pertanto, in base al D.Lgs. n. 80 del 1998 in materia di privatizzazione del pubblico impiego, la controversia doveva ritenersi rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo.
         La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 14835 del 18 ottobre 2002, Pres. Carbone, Rel. Evangelista) ha ritenuto infondato il ricorso ed ha dichiarato la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria. La legge – ha affermato la Corte – ha affidato al giudice ordinario la decisione delle controversie in materia di pubblico impiego per le questioni attinenti al periodo successivo al 30 giugno 1998, ma essa deve essere interpretata nel senso che quando la pretesa abbia origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro, si deve fare riferimento al momento di compiuta realizzazione del fatto dannoso e quindi al momento di cessazione della permanenza: ciò in applicazione del criterio interpretativo inteso ad evitare frazionamenti della tutela processuale tra giurisdizioni diverse e, quindi, a realizzare esigenze di economia coerenti con l’art. 24 Costituzione (tutela dei diritti) e idoneo a prevenire il contrasto di giudicati in ordine a pretese uguali nel contenuto seppure differenziate ratione temporis. Alla stregua di questo principio, già affermato dalle Sezioni Unite con sentenza in data 24 febbraio 2000 – ha osservato la Corte – è agevole rilevare che, nel caso di specie, quando è stata proposta la domanda nel marzo 1999, l’omissione, asseritamente illegittima e lesiva del diritto alla salute dal lavoratore, ancora permaneva, come si desume dall’intero contesto dell’atto introduttivo del giudizio, nonché dalle sue conclusioni, che, in effetti, sollecitano la condanna della datrice di lavoro all’emissione di provvedimenti destinati a mettere termine all’omissione stessa; trattandosi, dunque, di permanenza ancora in atto dopo la data del 30 giugno 1998, deve riconoscersi che la domanda è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario. 
 
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UN COMANDANTE MARITTIMO AFFETTO DA PATOLOGIA VERTEBRALE PUO’, PER RAGIONI DI SALUTE, RIFIUTARE DI CONTINUARE A SVOLGERE LE SUE MANSIONI A BORDO DI ALISCAFI – Il suo licenziamento per inadempienza deve ritenersi illegittimo (Cassazione Sezione Lavoro n. 14607 del 14 ottobre 2002, Pres. Senese, Rel. Stile).
         Umberto B. dipendente della S.p.A. Toremar con mansioni di comandante a bordo di aliscafi, dopo essersi assentato per malattia, quando si è presentato in servizio ha fatto presente di non essere in grado di continuare a svolgere il suo lavoro a bordo di aliscafi, in quanto tale collocazione era incompatibile con le sue condizioni di salute. Egli ha prodotto certificazioni dell’ufficio di sanità marittima che lo indicavano “idoneo alla navigazione” sconsigliandone, nel contempo, l’utilizzazione a bordo di aliscafi. L’azienda ha ugualmente disposto che egli riprendesse servizio sugli aliscafi e, quando il comandante ha rifiutato di eseguire le disposizione, lo ha licenziato per inadempienza. Il Pretore di Livorno ha annullato il licenziamento, escludendo la configurabilità di una giusta causa. In grado di appello il Tribunale di Livorno ha disposto una consulenza tecnica medico-legale dalla quale è risultato che le condizioni di salute del comandante (affetto da patologia della colonna vertebrale) giustificavano il suo rifiuto di continuare a lavorare a bordo di aliscafi e che, al momento del licenziamento, egli era in grado di svolgere le sue mansioni su navi tradizionali. In base a questo accertamento il Tribunale ha escluso che l’azienda potesse esigere dal comandante la prestazione lavorativa a bordo di aliscafi, applicando l’art. 1218 cod. civ. che giustifica l’inadempimento in caso di impossibilità della prestazione; pertanto ha confermato la sentenza del Pretore.
         La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 14607 del 14 ottobre 2002, Pres. Senese, Rel. Stile) ha rigettato il ricorso dell’azienda ricordando la sua giurisprudenza secondo cui, nel caso di sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni lavorative assegnate derivante da una patologia da esse dipendente, va riconosciuto al lavoratore il diritto di pretendere – e, correlativamente, va affermato l’obbligo, ex art. 2087 cod. civ., del datore di lavoro di ricercare – una collocazione lavorativa non pretestuosa ma idonea a salvaguardare la salute del dipendente nel rispetto dell’organizzazione aziendale. Ciò comporta – ha affermato la Corte – che il datore di lavoro, esercitando lo “ius variandi” (potere di cambiare le mansioni) nel rispetto sia dei canoni della correttezza e della buona fede sia delle regole poste a salvaguardia della salute dei dipendenti, dovrà cercare di adibire il lavoratore alle stesse mansioni o ad altre equivalenti e, solo se ciò è impossibile, a mansioni inferiori (che il lavoratore si sia dichiarato disponibile ad accettare), salvo restando però che la diversa attività deve essere utilizzabile nell’impresa secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore, purché nel rispetto della normativa posta a salvaguardia della salute dei lavoratori.

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