IL LAVORATORE
ASSENTE PER MALATTIA CHE SLEGA I CANI CONTRO IL MEDICO DI CONTROLLO
TIENE UN COMPORTAMENTO INCOMPATIBILE CON LA SUBORDINAZIONE, ANCHE SE IL
GIORNO DOPO RIPRENDE SERVIZIO – Il suo licenziamento deve ritenersi
giustificato (Cassazione Sezione Lavoro n. 8714 del 17 giugno 2002 Pres.
Dell’Anno, Rel. Cellerino).
Maurizio S. dipendente della società Abb Sace è stato
licenziato per essersi rifiutato di sottoporsi a visita medica di controllo
durante una malattia. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Pretore
di Bergamo contestando l’addebito e facendo presente che comunque il giorno
successivo alla visita di controllo egli si era presentato al lavoro.
Dall’istruttoria è emerso che il lavoratore, dopo avere fatto entrare nella
sua abitazione il medico di controllo, aveva dichiarato di essere affetto da
una distorsione alla caviglia. Il medico, avendo constatato che egli
camminava normalmente, aveva compilato un referto che lo giudicava idoneo a
riprendere il lavoro il giorno successivo invitandolo a sottoscriverlo; il
lavoratore si era rifiutato di firmare dando in escandescenze e dicendo alla
moglie di slegare i cani, cosa che questa aveva fatto, inducendo il medico a
fuggire. Il Pretore ha ritenuto giustificato il licenziamento e la sua
decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Bergamo,
che ha rilevato anche l’esistenza di precedenti provvedimenti disciplinari
di sospensione a carico del lavoratore. Questi ha proposto ricorso per
cassazione sostenendo, tra l’altro, che il Tribunale avrebbe dovuto ritenere
eccessiva la sanzione applicatagli anche in considerazione del fatto che
egli si era ripresentato in servizio il giorno successivo a quello della
visita medica.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8714 del 17 giugno
2002, Pres. Dell’Anno, Rel. Cellerino) ha rigettato il ricorso, osservando
che il Tribunale ha correttamente motivato la sua decisione con riferimento
all’abnormità della reazione del lavoratore alla visita di controllo e al
suo atteggiamento di insofferenza e di arroganza incompatibile con il dovere
di collaborazione cui è tenuto il lavoratore subordinato.
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L’AVVOCATO HA IL
DOVERE DI INFORMARE IL CLIENTE DELL’ESITO NEGATIVO DI UNA CAUSA -
In base al codice
deontologico forense (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 8225 del 6 giugno
2002, Pres. Delli Priscoli, Rel. Luccioli).
L’avvocato Giuseppe S. è stato sottoposto a procedimento
disciplinare con l’addebito di avere volontariamente omesso di informare un
cliente dell’esito negativo di una causa, con la conseguenza che questi si
era visto improvvisamente notificare un atto di precetto per il pagamento
delle spese di giudizio. Il Consiglio dell’Ordine locale lo ha ritenuto
responsabile dell’infrazione, in base all’art. 40 del codice deontologico
forense che prevede per l’avvocato il dovere di informare il cliente. Egli
ha impugnato tale decisione rilevando che secondo l’art. 40, l’avvocato è
tenuto ad informare il proprio assistito sullo svolgimento del mandato
affidatogli “quando lo reputi opportuno e ogni qual volta l’assistito ne
faccia richiesta”. Il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso
affermando che l’art. 40 deve essere interpretato in base al principio
generale di lealtà verso la parte assistita. L’avvocato S. ha proposto
ricorso per cassazione invocando il principio di stretta interpretazione
delle norme deontologiche, in quanto assimilabili alle leggi penali.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 8225 del 6 giugno
2002, Pres. Delli Priscoli, Rel. Luccioli) ha rigettato il ricorso. Le norme
del codice deontologico approvato dal Consiglio nazionale forense il 14
aprile 1997 – ha osservato la Corte – si qualificano come norme giuridiche
vincolanti nell' ambito dell'ordinamento di categoria, che trovano
fondamento nei principi dettati dalla legge professionale forense di cui al
r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, ed in particolare nell' art. 12, comma 10,
che impone agli avvocati di “adempiere al loro ministero con dignità e con
decoro, come si conviene all'altezza della funzione che sono chiamati ad
esercitare nell' amministrazione della giustizia”, e nell' art. 38 comma l°,
ai sensi del quale sono sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati
“che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell'esercizio della loro
professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro
professionale”.
La formulazione per clausole generali di tali prescrizioni
trova specificazione nelle norme del codice deontologico, il quale nel suo
primo titolo enuncia, qualificandoli “principi generali”, una serie di
doveri diretti a segnare lo svolgimento della professione, mentre nei
successivi titoli elenca alcuni canoni complementari volti a tipizzare,
nella misura del possibile, comportamenti nei rapporti con colleghi, con la
parte assistita, con la controparte, i magistrati ed i terzi, desunti
dall'esperienza di settore e dalla stessa giurisprudenza disciplinare,
costituenti a loro volta mere esplicitazioni delle regole generali, inidonei
quindi ad esaurire la tipologia delle violazioni deontologiche e privi di
ogni efficacia limitativa della portata di dette regole.
Tale relazione tra le norme in esame è chiaramente
enunciata nella disposizione finale di cui all' art. 60, che nel chiarire
che le previsioni specifiche del codice “costituiscono esemplificazioni dei
comportamenti più ricorrenti e non limitano l'ambito di applicazione dei
principi generali espressi” si pone come norma di chiusura ed integrativa
dell' intero testo.
Correttamente pertanto – ha concluso la Corte – la sentenza
impugnata, superando il dato letterale fornito dall'art. 40 del codice
deontologico ed assumendo tale disposizione nel suo effettivo valore
esemplificativo, ha riportato il dovere di informazione in essa evocato
nell' ambito dei principi generali dettati nello stesso codice e nella legge
professionale, motivatamente ritenendo che l'aver omesso di dare notizia al
cliente dell'esito del processo costituisse condotta contraria ai doveri
deontologici e tale da meritare la sanzione inflitta.
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Il lavoratore ha diritto di essere sentito personalmente per difendersi da addebiti disciplinari – Può essere rappresentato dal suo legale solo se gli abbia conferito uno specifico mandato – In base all’art. 7 St. Lav. il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa; i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.
La tempestiva presentazione, da parte
del lavoratore, di giustificazioni scritte “consuma” l’esercizio del diritto
di difesa soltanto quando lo scritto non contenga alcuna richiesta di
audizione, altrimenti permane l’obbligo del datore di lavoro di sentire
oralmente il dipendente prima di irrogare la sanzione disciplinare. Né, a
tal fine, è sufficiente l’invito a comparire eventualmente rivolto al legale
dell’incolpato, ove non risulti che il lavoratore gli abbia conferito
mandato per essere rappresentato in sede di discolpe avanti al datore di
lavoro (Cassazione Sezione Lavoro n. 8846 del 18 giugno 2002, Pres.
Sciarelli, Rel. Vigolo).