E’ INCOSTITUZIONALE L’ESCLUSIONE DEL MEDICO SPECIALISTA DALLA PARTECIPAZIONE A CORSI PER OTTENERE ALTRE SPECIALIZZAZIONI – Per contrasto con il diritto all’istruzione e al lavoro (Corte Costituzionale sentenza n. 219 del 29 maggio 2002, Pres. Ruperto, Red. Onida).
            Giovanna Maria G., medico, specialista in radioterapia, ha chiesto di partecipare ad un concorso, indetto dall’Università di Perugia, per l’ammissione alla scuola di specializzazione in chirurgia generale. La domanda non è stata accolta, perché l’Università ha applicato l’art. 34 del decreto legislativo n. 368 del 1999, che non consente l’accesso ai corsi di formazione specialistica a chi sia già in possesso di un diploma di specializzazione. Il medico ha impugnato il provvedimento di esclusione ed il bando di concorso davanti al Tribunale amministrativo regionale dell’Umbria, sollevando la questione di legittimità costituzionale della norma di legge applicata dall’Università. Il Tribunale ha ritenuto la questione non manifestamente infondata ravvisando un contrasto fra tale legge e le norme della Costituzione che tutelano il diritto allo studio e il diritto al lavoro (articoli 34 e 35); pertanto ha trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale.
            La Corte (sentenza n. 219 del 29 maggio 2002, Pres. Ruperto, Red. Onida) ha ritenuto fondata la questione sollevata dal Tribunale.
            Con l’art. 34 del decreto legislativo n. 368 del 1999 – ha osservato la Corte – il legislatore, nel dettare la nuova disciplina delle scuole di specializzazione medica nonché dei corsi di formazione specifica in medicina generale, ha inteso stabilire un rigido criterio di non cumulabilità in capo allo stesso medico di due o più di tali curricula formativi; il medico in possesso di un diploma di specializzazione non può accedere ad altra specialità, né ai corsi di formazione specifica in medicina generale; a sua volta il medico in possesso del diploma di formazione specifica in medicina generale non può accedere alle specializzazioni. Il divieto appare dettato nell’intento di evitare che lo stesso medico possa, cumulando più diplomi di specializzazione (e, forse, usufruendo del vantaggio che gli proviene dal possedere già una specializzazione), “accaparrarsi” più di uno spazio di formazione nell’ambito e a spese delle strutture a ciò deputate, a danno di altri aspiranti, il cui diritto a perseguire, a loro volta, una chance di inserimento professionale potrebbe esserne pregiudicato.
             Tale intento – ha affermato la Corte – non è privo di una sua ragionevolezza, in quanto miri a tutelare gli interessi di chi non abbia ancora avuto accesso ad una formazione medica specialistica, e a rendere razionale l’impiego delle risorse pubbliche; da questo punto di vista, non apparirebbe in sé irragionevole che il legislatore, ad esempio, riservasse quote dei posti disponibili ai medici non ancora in possesso di specializzazione, o prevedesse quote di posti cui ammettere in soprannumero candidati che siano già in possesso di altra specializzazione; o dettasse modalità specifiche, diverse da quelle previste per i non specialisti, per la disciplina della posizione anche economica degli aspiranti che già operino nell’esercizio di altra specializzazione.
              Ma – ha aggiunto la Corte – la questione è se sia legittimo, sia pure in vista di siffatte finalità, precludere totalmente a chi abbia già conseguito un diploma di specializzazione l’accesso ad un nuovo curriculum formativo e ad un nuovo titolo di specializzazione, che a sua volta costituisce condizione imprescindibile per lo svolgimento di una specifica attività professionale medica; non è infatti irrilevante ricordare, a tal proposito, che la disciplina vigente dell’accesso alle funzioni di dirigente medico nelle strutture del servizio sanitario nazionale prevede, tra i requisiti indispensabili, il possesso del diploma di specializzazione specificamente inerente all’attività svolta dalla struttura in cui il medico intende operare; così come per l’esercizio dell’attività di medico di medicina generale nell’ambito del servizio sanitario nazionale è necessario il possesso del diploma di formazione specifica in medicina generale.
              Sotto questo riguardo – ha affermato la Corte – un divieto di tale assolutezza e rigidità non può ritenersi compatibile con i principi costituzionali; il diritto allo studio comporta non solo il diritto di tutti di accedere gratuitamente alla istruzione inferiore, ma altresì quello – in un sistema in cui “la scuola è aperta a tutti” (art. 34, primo comma, della Costituzione) – di accedere, in base alle proprie capacità e ai propri meriti, ai “gradi più alti degli studi” (art. 34, terzo comma): espressione, quest’ultima, in cui deve ritenersi incluso ogni livello e ogni ambito di formazione previsti dall’ordinamento; il legislatore, se può regolare l’accesso agli studi, anche orientandolo e variamente incentivandolo o limitandolo in relazione a requisiti di capacità e di merito, sempre in condizioni di eguaglianza, e anche in vista di obiettivi di utilità sociale, non può, invece, puramente e semplicemente impedire tale accesso sulla base di situazioni degli aspiranti che – come il possesso di precedenti titoli di studio o professionali – non siano in alcun modo riconducibili a requisiti negativi di capacità o di merito.
             A tale diritto – ha osservato la Corte – si ricollega altresì quello di aspirare a svolgere, sulla base del possesso di requisiti di idoneità, qualsiasi lavoro o professione, in un sistema che non solo assicuri la “tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35, primo comma, della Costituzione), ma consenta a tutti i cittadini di svolgere, appunto “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, secondo comma, della Costituzione): ciò che a sua volta comporta, quando l’accesso alla professione sia condizionato al superamento di un curriculum formativo, il diritto di accedere a quest’ultimo in condizioni di eguaglianza.
              Il diritto di studiare, nelle strutture a ciò deputate, al fine di acquisire o di arricchire competenze anche in funzione di una mobilità sociale e professionale – ha rilevato la Corte – è d’altra parte strumento essenziale perché sia assicurata a ciascuno, in una società aperta, la possibilità di sviluppare la propria personalità, secondo i principi espressi negli artt. 2, 3 e 4 della Costituzione.
             L’accertamento della illegittimità del divieto, per chi sia già in possesso di altro diploma di specializzazione o di formazione specifica in medicina generale, di accedere ad una nuova specializzazione, comporta altresì come conseguenza l’estensione – ha affermato la Corte – della dichiarazione di incostituzionalità, ai sensi dell’art. 27, secondo periodo, della legge 11 marzo 1953, n. 87, alla norma – avente portata e ratio corrispondenti, e perciò affetta dallo stesso vizio – che, parallelamente, dispone il divieto di accedere al corso di formazione specifica in medicina generale per chi sia in possesso di diploma di specializzazione o di dottorato di ricerca (art. 24, comma 1, dello stesso decreto legislativo n. 368 del 1999).
                Pertanto la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale:
               a) dell’articolo 34, comma 4, del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368 (Attuazione della direttiva 93/16/CEE in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli e delle direttive 97/50/CE, 98/21/CE, 98/63/CE e 99/46/CE che modificano la direttiva 93/16/CEE);
               b) dell’articolo 24, comma 1, del medesimo d. lgs. n. 368 del 1999, nella parte in cui esclude dall’accesso al corso di formazione specifica in medicina generale i possessori di diploma di specializzazione di cui all’articolo 20 del medesimo decreto, o di dottorato di ricerca.

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La protezione prevista dall’art. 18 St. Lav. contro i licenziamenti illegittimi si applica sino al conseguimento del requisito di età per il pensionamento per vecchiaia – Nel regime INPS, 65 anni; in altri ordinamenti l’età può essere inferiore – La tutela prevista dall’art. 18 St. Lav. contro i licenziamenti illegittimi non si applica ai lavoratori ultrasessantenni in possesso dei “requisiti pensionistici”, come è stato stabilito nell’art. 4 della legge 11 maggio 1990 n. 108. Deve ritenersi che con il termine “requisiti pensionistici” il legislatore abbia fatto riferimento al conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia. Nel sistema attuale dell’assicurazione generale obbligatoria per la maturazione maturazione di tale diritto è richiesta l’età di 65 anni. Il requisito di età può tuttavia essere diverso nel caso di regimi previdenziali speciali, come quello del  Fondo di previdenza per gli impiegati dipendenti delle esattorie e ricevitorie delle imposte dirette; in base alla disciplina di tale fondo il diritto alla pensione di vecchiaia matura, per gli uomini, a sessanta anni.
              Per questi lavoratori, ai fini della tutela contro i licenziamenti illegittimi si deve fare riferimento al requisito pensionistico previsto dal loro speciale regime previdenziale e non a quello di 65 anni stabilito per l’assicurazione generale obbligatoria. Infatti le norme dell’AGO si applicano ai fondi integrativi solo se espressamente richiamate (Cassazione Sezione Lavoro n. 7853 del 29 maggio 2002, Pres. Mileo, Rel. Picone).

 

 

 

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IL DATORE DI LAVORO RISPONDE DELL’INFORTUNIO SUBITO DAL DIPENDENTE SE SI LIMITA A FORNIRGLI IL PRESCRITTO ABBIGLIAMENTO PROTETTIVO, MA NON FA IN MODO CHE ESSO VENGA EFFETTIVAMENTE INDOSSATO – In base all’art. 2087 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 7454 del 21 maggio 2002, Pres. Mercurio, Rel. Stile).
          Niang M., dipendente della s.r.l. Dorsanity, con mansioni di operaio, stava facendo funzionare una tranciatrice per accorciare la gamba di una rete metallica, quando la manica del suo maglione si è impigliata nella lama della macchina; ciò gli ha causato il taglio dell’avambraccio destro con frattura e lesioni plurime. L’infortunio si è verificato nel marzo del 1995. Il lavoratore ha chiesto al Pretore di Bassano del Grappa di condannare l’azienda al risarcimento del danno biologico e morale in quanto responsabile dell’incidente per non avere munito la macchina di adeguate protezioni e per aver violato la normativa antinfortunistica.
            Il Pretore ha rigettato la domanda perché non ha ritenuto provata la responsabilità della datrice di lavoro. Niang M. ha proposto appello sostenendo che il Pretore non aveva tenuto conto dell’inadeguatezza del dispositivo di protezione della macchina e del mancato controllo sull’utilizzazione del grembiule da indossare per quel tipo di lavorazione. Il Tribunale di Bassano del Grappa ha rigettato l’appello, in quanto ha ritenuto che in quella fase della lavorazione la copertura della lama dovesse essere necessariamente sollevata per consentire le operazioni di taglio ed ha rilevato che l’azienda aveva fornito ai dipendenti i previsti grembiuli. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che l’azienda non aveva provato di avere adottato tutte le misure necessarie per evitare l’incidente ed in particolare di avere installato un dispositivo supplementare che isolasse la ruota dentata dalla macchina e che non aveva preteso, come avrebbe dovuto, l’uso del grembiule.
          La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 7454 del 21 maggio 2002, Pres. Mercurio, Rel. Stile) ha accolto il ricorso. La responsabilità datoriale per l’infortunio occorso ad un proprio dipendente addetto ad una macchina pericolosa – ha affermato la Corte – non si arresta alla comune protezione del soggetto e non è esclusa per l’avvenuta osservanza delle specifiche prescrizioni contenute in una norma o disciplina antinfortunistica, allorquando l'infortunio stesso sia derivato non già dal verificarsi del pericolo previsto dalla norma medesima e contro il quale erano dirette le prescrizioni tecniche in essa contenute, ma per effetto della intrinseca pericolosità della macchina operatrice, per la quale sorge l'obbligo di predisporre adeguata protezione, ovvero della applicazione di più specifiche ed idonee misure di sicurezza.
           Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose – ha aggiunto la Corte – sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso: ne consegue che il datore di lavoro e' sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni l'eventuale concorso di colpa del lavoratore; con l'ulteriore conseguenza che l'imprenditore e' esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità e esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento.
           Delineati il contesto in cui ebbe a svolgersi l'accaduto ed i principi presenti nel quadro normativo di riferimento, va in relazione ad essi evidenziato – ha rilevato la Corte – che il Tribunale, pur avendo accertato che l'infortunio subito dal lavoratore era da ricollegarsi all'uso del maglione, la cui manica si era impigliata nella lama della troncatrice, non si è dato carico di accertare, in particolare, se la sorveglianza da parte dell'imprenditore in ordine alla osservanza delle misure di sicurezza da parte del lavoratore interessato fosse - come l'obbligo di vigilanza richiede - costante ed effettiva.  
 

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