CONTRASTO DI GIURISPRUDENZA NEL CALCOLO DEI COMPENSI DOVUTI PER LAVORO STRAORDINARIO CONTRATTUALE NON ECCEDENTE LE 48 ORE SETTIMANALI – Affermata l’inderogabilità della maggiorazione minima del 10% prevista dalla legge (Cassazione Sezione Lavoro n. 5380 del 15 aprile 2002, Pres. Genghini, Rel. Filadoro).
Per i dipendenti del Consorzio Trasporti del Lazio (Cotral) l’orario di lavoro settimanale è stato ridotto, con accordo aziendale del luglio 1988, da 39 a 37 ore. Dopo l’entrata in vigore dell’accordo, il lavoro svolto in eccedenza alle 37 ore settimanali è stato compensato come straordinario, ma la base per l’applicazione della maggiorazione, ossia la quota oraria di retribuzione, è stata determinata come per il passato, dividendo la retribuzione settimanale per 39 anziché per 37.
Ne sono seguite controversie promosse dai lavoratori, che hanno sostenuto che il meccanismo di calcolo adottato dall’azienda comportava una maggiorazione, per il lavoro straordinario, inferiore al 10% ovvero alla misura minima imposta dall’art. 5 R.D.L. 15 maggio 1923 n. 692 e pertanto hanno chiesto il ricalcolo dei compensi e il pagamento delle relative differenze.
Delle cause arrivate in Cassazione, la prima è stata decisa con la sentenza 2856 del 26.2.2002  (Pres. Amirante, Rel. Roselli) in senso sfavorevole al lavoratore, in quanto la Corte ha affermato che nel caso di straordinario contrattuale, ossia di prestazione lavorativa che, pur superando il normale orario previsto dal contratto, non varchi il limite delle 48 ore settimanali previsto dalla legge per il lavoro ordinario, le parti collettive possono stabilire una maggiorazione inferiore al 10%.
Di segno completamente diverso, favorevole cioè alla tesi sostenuta dai dipendenti, è risultata la seconda sentenza, n. 5380 del 15 aprile 2002 (Pres. Genghini, Rel. Filadoro), che ha rigettato il ricorso proposto dall’azienda contro una decisione del Tribunale di Velletri, affermando che la maggiorazione minima del 10% prevista dall’art. 5 R.D.L. 15 maggio 1923 n. 692 deve essere inderogabilmente applicata anche per il compenso del lavoro straordinario, come tale definito dal contratto collettivo, non eccedente le 48 ore settimanali.
Nella motivazione della sentenza n. 5380/2002 la Corte ha osservato che esiste una nozione “ontologica” di lavoro straordinario, in forza della quale è immancabilmente suscettibile di tale qualificazione, ad ogni effetto legale e contrattuale, ogni prestazione eccedente l’orario ordinario fissato dalla legge, dal contratto collettivo, od anche da un contratto individuale più favorevole al prestatore di lavoro.
La qualificazione di una prestazione di lavoro come “straordinario” – ha affermato la Corte – comporta innanzi tutto la garanzia legale che la retribuzione non possa essere inferiore a quella ordinaria omnicomprensiva, maggiorata, del 10%, ferma restando per le parti la possibilità di assicurare trattamenti complessivamente più favorevoli con metodi diversi; pertanto, allorché l’art. 5 del R.D.L. n. 692 del 1923 (o analoga disposizione contenuta nell’art. 3 del R.D.L. n. 2328 del 1923 per gli autoferrotranvieri) prevede l’obbligo della maggiorazione per il lavoro eccedente la giornata normale di lavoro di cui all’art. 1, non si riferisce alla durata massima stabilita da quest’ultimo articolo, ma alla giornata normale, così come concordata dalla autonomia privata.
LA MAGGIORAZIONE PER LAVORO STRAORDINARIO PUO’ ESSERE DETERMINATA DAL CONTRATTO COLLETTIVO IN MISURA INFERIORE AL DIECI PER CENTO STABILITO DALLA LEGGE – Per le prestazioni che non eccedano le otto ore giornaliere e le 48 ore settimanali (Cassazione Sezione Lavoro n. 2856 del 26 febbraio 2002, Pres. Amirante, Rel. Roselli).
Per i dipendenti del Consorzio Trasporti del Lazio (Cotral) l’orario di lavoro settimanale è stato ridotto, con accordo aziendale del luglio 1988, da 39 a 37 ore. Dopo l’entrata in vigore dell’accordo, il lavoro svolto in eccedenza alle 37 ore settimanali è stato compensato come straordinario, ma la base per l’applicazione della maggiorazione, ossia la quota oraria di retribuzione è stata determinata come per il passato, dividendo la retribuzione settimanale per 39 anziché per 37.

Luigi L. si è rivolto al Pretore di Velletri sostenendo che il meccanismo di calcolo adottato dall’azienda comportava una maggiorazione, per il lavoro straordinario, inferiore al 10% ovvero alla misura minima imposta dall’art. 5 R.D.L. 15 maggio 1923 n. 692. Pertanto egli ha chiesto il ricalcalo dei compensi dovutigli con applicazione della maggiorazione di legge. L’azienda si è difesa sostenendo che l’accordo aziendale aveva bensì ridotto l’orario di lavoro, ma aveva lasciato fermo “l’orario contrattuale di lavoro ai fini retributivi”, ciò comportando la non variazione in aumento per la base di calcolo del lavoro straordinario. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Velletri hanno ritenuto fondata la domanda ed hanno condannato il Cotral a pagare le differenze richieste, determinando la maggiorazione per lavoro straordinario nella misura  del 10%. Il Tribunale ha osservato che la clausola contrattuale di mantenimento del precedente orario di lavoro ai soli “fini retributivi” significava che la quota oraria di retribuzione doveva continuare ad essere calcolata come se l’orario settimanale fosse di trentanove ore. Tuttavia, poiché l’orario effettivo era di trentasette ore, il lavoro prestato oltre tale limite doveva essere considerato come straordinario e remunerato con un aumento non inferiore al dieci per cento, in base alla legge.L’Azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che la contrattazione collettiva può stabile una maggiorazione di paga per lavoro straordinario inferiore al 10% previsto dalla legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 2856 del 26 febbraio 2002, Pres. Amirante, Rel. Roselli) ha accolto il ricorso, affermando che nel caso di straordinario contrattuale, ossia di prestazione lavorativa che, pur superando il normale orario previsto dal contratto, non varchi il limite delle 48 ore settimanali previsto dalla legge per il lavoro ordinario, le parti collettive possono stabilire una maggiorazione inferiore al 10%; resta invece l’obbligo di corrispondere una maggiorazione di almeno il 10% per la prestazione lavorativa eccedente le 48 ore settimanali. Lo straordinario da retribuire con l’aliquota obbligatoria del 10% - ha affermato la Corte – è quello che si espleta dopo le otto ore giornaliere o le 48 settimanali e non quello che deriva dal superamento del diverso e inferiore orario di lavoro determinato per contratto collettivo
 
 
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LA DURATA DELLA SOSPENSIONE CAUTELARE DI PUBBLICI IMPIEGATI SOTTOPOSTI A PROCESSO PENALE NON PUO’ ECCEDERE I CINQUE ANNI – Illegittimità costituzionale parziale dell’art. 4 della legge 27 marzo 2001 n. 97 (Corte Costituzionale n. 145 del 3 maggio 2002, Pres. Vari, Red. Marini).
Tre pubblici dipendenti sottoposti a processo penale con l’imputazione di reati contro la pubblica amministrazione e condannati in primo grado, sono stati sospesi in via cautelare dal servizio in base alla legge 27 marzo 2001 n. 97, recante norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare e sugli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Secondo l’art. 4 di questa legge i dipendenti pubblici, in caso di condanna, anche non definitiva, per gravi reati contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, peculato ed altri) sono sospesi dal servizio e la sospensione perde efficacia se per il fatto è successivamente pronunciata sentenza di proscioglimento o di assoluzione anche non definitiva ed in ogni caso decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato.
Gli impiegati hanno impugnato il provvedimento di sospensione davanti al Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 97 del 2001 con riferimento a vari articoli della Costituzione tra cui l’art. 3 (principio di ragionevolezza), l’art. 4 (diritto al lavoro), l’art. 27 (presunzione di non colpevolezza dell’imputato sino alla condanna definitiva).
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 145 del 3 maggio 2002 (Pres. Vari, Red. Marini), ha ritenuto parzialmente fondata la questione sollevata dal Tribunale di Benevento ed ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 comma 2 della legge 27 marzo 2001 n. 97 nella parte in cui dispone che la sospensione perde efficacia decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato. La Corte ha precisato che la durata della sospensione non può eccedere i cinque anni, dovendosi applicare in materia la normativa di carattere generale prevista dalla legge 7 febbraio 1990 n. 19.
Una misura cautelare – ha affermato la Corte - proprio perché tale, e cioè tendente a proteggere l’interesse della pubblica amministrazione nell’attesa di un successivo accertamento (nella specie giudiziale), deve per sua natura essere contenuta nei limiti di durata strettamente indispensabili per la protezione di quell’interesse, e non deve essere tale da gravare eccessivamente sui diritti che essa provvisoriamente comprime, in ossequio al criterio di proporzionalità della misura cautelare, riconducibile all’art. 3 della Costituzione.
Tale principio – ha osservato la Corte – risulta violato dall’art. 4 della legge n. 97 del 2001; infatti, in relazione ad alcuni fra i delitti indicati dalla norma, il termine di prescrizione può raggiungere una durata ultradecennale tenuto conto anche degli effetti interruttivi della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 160, ultimo comma, del codice penale. Un siffatto periodo di tempo, se assunto quale termine di durata di una misura cautelare – ha concluso la Corte – non può che ritenersi manifestamente eccessivo, comportando, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, un’evidente quanto irragionevole compressione dei diritti del singolo.

 
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