Il lavoratore illegittimamente trasferito ha diritto alla reintegrazione nel posto precedentemente occupato – Perché il trasferimento deve ritenersi inefficace Il lavoratore che sia stato illegittimamente trasferito ha diritto non solo al risarcimento del danno, ma anche alla reintegrazione nel posto occupato prima del provvedimento. La tutela reale spetta al lavoratore in quanto il trasferimento di sede non adeguatamente giustificato a norma dell’art. 2103 cod. civ. deve ritenersi nullo e conseguentemente inefficace (Cassazione Sezione Lavoro n. 9530 del 1 luglio 2002, Pres. Ianniruberto, Rel. De Renzis).

 
 
 
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IL DIPENDENTE HA DIRITTO DI CONOSCERE LA MOTIVAZIONE DEI PROVVEDIMENTI AZIENDALI CHE LO ESCLUDONO DALLA PRESTAZIONE DELL’ATTIVITA’ LAVORATIVA In base all’art. 41 della Costituzione, che tutela la dignità del lavoratore (Cassazione Sezione Lavoro n. 9538 del 1 luglio 2002, Pres. Prestipino, Rel. Guglielmucci).
        Luigino B., dipendente del Casinò Municipale di Sanremo con mansioni di croupier, nel corso di un processo penale, è stato sottoposto, nel maggio 1993, a custodia cautelare. In seguito a questo provvedimento il Casinò lo ha sospeso cautelativamente dal lavoro, in base all’art. 27 del contratto collettivo di categoria. La custodia cautelare è cessata nel luglio del 1993, ma il Casinò ha mantenuto ferma la sospensione dal lavoro. Nell’aprile del 1995 è entrato in vigore un nuovo contratto collettivo che prevedeva, in caso di cessazione della custodia cautelare, la revoca della sospensione cautelare, fatta salva l’ipotesi della contestazione di gravi reati. Luigino B. ha chiesto di essere riammesso in servizio, ma il Casinò non ha accolto la sua domanda. Il lavoratore ha chiesto alla Pretura di Sanremo di ordinare al Casinò di riammetterlo in servizio e di corrispondergli la retribuzione. Il datore di lavoro si è difeso sostenendo di non avere revocato la sospensione cautelativa in considerazione della gravità dei fatti addebitati al dipendente in sede penale. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Sanremo, hanno ritenuto illegittimo il rifiuto da parte del Casinò, di revocare la sospensione cautelativa, in quanto hanno ritenuto che la norma del nuovo contratto di lavoro debba essere interpretata in conformità con i principi fondamentali dell’ordinamento in materia di procedimento disciplinare e di tutela della dignità del lavoratore. In particolare il Tribunale ha ritenuto che il diniego della revoca della sospensione cautelativa del lavoro debba essere adeguatamente motivato, sì da porre il lavoratore in grado di conoscere le ragioni per le quali l’azienda non ritenga di riammetterlo al lavoro nonché di esercitare il diritto di difesa. Il Casinò ha proposto ricorso per cassazione censurando il Tribunale per non avere seguito, nell’interpretazione della norma collettiva, i criteri interpretativi stabiliti dal codice civile (articoli 1362 e 1363) per l’interpretazione dei contratti ed in particolare per non essersi attenuto al dato testuale, che non prevede alcun obbligo di motivazione per la mancata revoca della sospensione.
         La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 9538 del 1 luglio 2002, Pres. Prestipino, Rel. Guglielmucci) ha rigettato il ricorso, richiamando il suo recente orientamento giurisprudenziale espresso in particolare nelle sentenze n. 4592 del 1998, n. 9430 del 2000, e n. 15317 del 2001, secondo cui il contratto collettivo di lavoro per la sua portata e la sua funzione, si distingue dagli altri tipi di contratto, onde nella sua interpretazione deve attribuirsi carattere di prevalenza e di priorità al criterio di coerenza con i valori fondamentali del diritto vivente del lavoro. Nel caso in esame – ha osservato la Corte – il Tribunale si è correttamente attenuto a questo criterio in quanto è principio cardine dell’ordinamento che il datore di lavoro debba motivare i provvedimenti con i quali il lavoratore viene licenziato o sospeso dal lavoro; il diritto del dipendente di conoscere la motivazione di tale provvedimento si fonda sull’articolo 41, secondo comma, della Costituzione che tutela la dignità del lavoratore.
 
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Le somme corrisposte al lavoratore a titolo di risarcimento del danno per prestazioni lavorative eccedenti il limite massimo giornaliero non sono soggette all’Irpef – Perché hanno una funzione reintegrativa – Le somme corrisposte, in via transattiva, dal datore di lavoro al lavoratore a titolo di risarcimento del danno per avere lavorato “in eccesso rispetto al limite massimo ragionevolmente previsto quale orario di lavoro” non rientrano nel reddito imponibile ai fini dell’applicazione dell’Irpef e pertanto non vanno assoggettate a ritenuta d’acconto. L’Irpef è dovuta quando il risarcimento sia diretto a compensare la perdita di redditi e non a reintegrare il patrimonio del contribuente. Essa pertanto non si applica quando il risarcimento è diretto a reintegrare la perdita di energie psicofisiche spese oltre l’orario massimo di lavoro esigibile (Cassazione Sezione Lavoro n. 9101 del 20 giugno 2002, Pres. Paolini, Rel. Genovese).

 
 
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IL CANONE DI ABBONAMENTO DOVUTO ALLA RAI È GIUSTIFICATO DALLO SVOLGIMENTO DI FUNZIONI SPECIFICHE DI INTERESSE GENERALE – Il miglior soddisfacimento del diritto dei cittadini all’informazione e la diffusione della cultura (Corte Costituzionale,  sentenza n. 284 del 26 giugno 2002, Pres. Ruperto, Red. Onida).

Nel corso di un giudizio di opposizione a ingiunzione emessa dall’Ufficio Registro Abbonamenti Radio e TV di Torino per il mancato pagamento del canone, il Tribunale di Milano ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della normativa di legge che impone il pagamento di un canone per il servizio radiotelevisivo pubblico. Il Tribunale, facendo riferimento a varie norme della Costituzione: l’art. 2 (tutela della personalità) l’art. 3 (principio di uguaglianza), l’art. 9 (promozione della cultura) e l’art. 21 (libertà di manifestazione del pensiero) ha sostenuto, tra l’altro che, essendo venuto meno il regime di monopolio pubblico delle emissioni televisive anche a carattere nazionale, sarebbe irragionevole l’imposizione di un canone destinato alla sola concessionaria RAI.

La Corte Costituzionale con sentenza n. 284 del 26 giugno 2002 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 1, 10 e 25 del R.D.L. 21 febbraio 1938 n. 2426 (disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni), convertito dalla legge 4 giugno 1938 n. 880 e degli articoli 15 e 16 della legge 14 aprile 1975 n. 103 (nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisive) sollevata dal Tribunale di Milano con riferimento agli articoli 2, 3, 9 e 21 della Costituzione.

Nella motivazione della sentenza la Corte ha ricordato che il venir meno del monopolio statale delle emissioni televisive – dapprima, a seguito di pronunce della stessa Corte, con riguardo alle trasmissioni provenienti dall’estero (sentenza n. 225 del 1974) e con riguardo alle trasmissioni in ambito locale (sentenze n. 226 del 1974 e n. 202 del 1976), quindi, per scelta del legislatore, anche con riguardo alle trasmissioni via etere in ambito nazionale, prima in via transitoria (d.l. 6 dicembre 1984, n. 807), poi in via definitiva (legge 6 agosto 1990, n. 223) – non ha fatto venir meno l’esistenza e la giustificazione costituzionale dello specifico “servizio pubblico radiotelevisivo” esercitato da un apposito concessionario rientrante, per struttura e modo di formazione degli organi di indirizzo e di gestione, nella sfera pubblica.

L’art. 1 della legge n. 103 del 1975, definiva la diffusione circolare di programmi televisivi via etere come un “servizio pubblico essenziale ed a carattere di preminente interesse generale, in quanto volta ad ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese in conformità ai principi sanciti dalla Costituzione”, servizio riservato per questo allo Stato; e indicava l’indipendenza, l’obiettività e l’apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali, nel rispetto delle libertà garantite dalla Costituzione, come “principi fondamentali della disciplina del servizio pubblico radiotelevisivo”. Ma quella legge disciplinava un sistema che, all’epoca, era ancora di monopolio statale delle emissioni televisive di ambito nazionale. Oggi si deve fare riferimento all’art. 1 della legge n. 223 del 1990, che da un lato conferma il “carattere di preminente interesse generale” della diffusione di programmi radiofonici o televisivi (comma 1), e conferma che il pluralismo, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità dell’informazione, nonché l’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose, nel rispetto delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione, rappresentano “i principi fondamentali del sistema radiotelevisivo” (comma 2); ma dall’altro lato stabilisce che tale sistema “si realizza con il concorso di soggetti pubblici e privati” (ancora comma 2).

Fermi dunque i principi comuni che debbono informare il sistema, la legge del 1990 – ha osservato la Corte – fa una netta distinzione fra il “servizio pubblico radiotelevisivo”, che è “affidato mediante concessione ad una società per azioni” (oggi non più a totale partecipazione pubblica: art. 2, comma 2), e la radiodiffusione di programmi radiofonici e televisivi che “può essere affidata mediante concessione” a soggetti privati “diversi dalla concessionaria pubblica” (art. 2, comma 1, e art. 16, comma 1), realizzando così quel “concorso di soggetti pubblici e privati” di cui è parola nell’art. 1, comma 2, della legge.

L’esistenza di un servizio radiotelevisivo pubblico, cioè promosso e organizzato dallo Stato, non più a titolo di monopolista legale della diffusione di programmi televisivi, ma nell’ambito di un sistema misto pubblico-privato – ha affermatola Corte – si giustifica però solo in quanto chi esercita tale servizio sia tenuto ad operare non come uno qualsiasi dei soggetti del limitato pluralismo di emittenti, nel rispetto, da tutti dovuto, dei principi generali del sistema, bensì svolgendo una funzione specifica per il miglior soddisfacimento del diritto dei cittadini all’informazione e per la diffusione della cultura, col fine di “ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese”, come si esprime il citato art. 1 della legge n. 103 del 1975. Di qui la necessità che la concessione preveda specifici obblighi di servizio pubblico (si vedano, oggi, la convenzione approvata con il d.P.R. 28 marzo 1994, e il contratto di servizio per il triennio 2000-2002 approvato con il d.P.R. 8 febbraio 2001) e imponga alla concessionaria l’obbligo di assicurare una informazione completa, di adeguato livello professionale e rigorosamente imparziale nel riflettere il dibattito fra i diversi orientamenti politici che si confrontano nel Paese, nonché di curare la specifica funzione di promozione culturale ad essa affidata e l’apertura dei programmi alle più significative realtà culturali.

In questa prospettiva – ha concluso la Corte – si giustifica l’esistenza di una forma di finanziamento, sia pure non esclusiva, del servizio pubblico mediante ricorso all’imposizione tributaria, e nella specie all’imposizione del canone. L’altra maggiore fonte di finanziamento della diffusione di programmi radiotelevisivi liberamente accessibili (al di fuori dunque delle forme di televisione a pagamento) è infatti la raccolta pubblicitaria, la quale a sua volta, oltre che dai limiti imposti dalla legge a tutela degli utenti e degli altri mezzi di comunicazione, e dalle libere scelte degli operatori del settore e degli inserzionisti, è di fatto condizionata dalla quantità degli ascolti. Il finanziamento parziale mediante il canone consente, e per altro verso impone, al soggetto che svolge il servizio pubblico di adempiere agli obblighi particolari ad esso connessi, sostenendo i relativi oneri, e, più in generale, di adeguare la tipologia e la qualità della propria programmazione alle specifiche finalità di tale servizio, non piegandole alle sole esigenze quantitative dell’ascolto e della raccolta pubblicitaria, e non omologando le proprie scelte di programmazione a quelle proprie dei soggetti privati che operano nel ristretto e imperfetto “mercato” radiotelevisivo.

E’ questa caratteristica del servizio pubblico radiotelevisivo, chiaramente ricavabile dal sistema normativo, che offre fondamento di ragionevolezza alla scelta legislativa di imposizione del canone destinato a finanziare tale servizio: mentre esulano, evidentemente, dall’ambito della questione proposta le valutazioni circa l’adeguatezza in concreto dell’attività svolta alla natura dei compiti affidati al servizio pubblico.